Omnia munda mundis». Ormai è acclarato: l'ottimistica frase di San Paolo non si può volgere in «Omnia Monda mundis». Tra astute malizie e patetiche ingenuità, Andrea Monda, a meno di un anno dalla sua nomina a direttore dell'Osservatore Romano, si è rivelato un autentico disastro. Contro i fulmini che gli giungono direttamente da Casa Santa Marta, residenza di papa Francesco, e dalla terza loggia del Palazzo Apostolico, dov'è ospitata la segreteria di Stato, a nulla serve più, ormai, l'ala protettiva che la sua chioccia Paolo Ruffini gli aveva amorevolmente steso sul capo. Fu lui, il potente prefetto del Dicastero vaticano per la comunicazione, figlio del dc Attilio Ruffini, pronipote del defunto cardinale Ernesto Ruffini e nipote dell'ex ministro Enrico La Loggia, ammanigliato con i direttori dei giornaloni fin dai tempi in cui guidava Rai 3 in quota alla sinistra, a suggerire al Pontefice la repentina nomina di Monda al posto di Giovanni Maria Vian, il 18 dicembre 2018.
A dare manforte a Ruffini si prodigarono due consiglieri molto ascoltati da papa Bergoglio, e cioè padre Antonio Spadaro, il gesuita che dirige La Civiltà Cattolica, e Andrea Tornielli, che in concomitanza con il ribaltone portò a casa la nomina a direttore editoriale del medesimo dicastero. Ora si vocifera che lo stesso Tornielli punti a fare le scarpe a Monda, accorpando entrambe le cariche nelle proprie mani.
Docente di religione cattolica al liceo Pilo Albertelli di Roma, Monda era stato messo alla prova da Ruffini, all'epoca direttore di Tv2000, l'emittente della Conferenza episcopale italiana, nel ruolo di conduttore del programma Buongiorno, professore, dove si ostina a esibirsi nonostante i gravosi impegni che la guida del foglio vaticano comporta, tant'è che la tiratura è scesa sotto le 4.000 copie. Ma più che la competenza poté l'appartenenza: anche Monda, come Ruffini, ha nel suo corredo cromosomico la Democrazia cristiana, e in particolare la corrente di sinistra, essendo nipote di Riccardo Misasi, ras calabrese dello scudo crociato passato a miglior vita nel 2000.
Alle topiche del direttore dedica ampio spazio Gianluigi Nuzzi nel suo saggio Giudizio universale, appena uscito per Chiarelettere. «I rapporti tra Andrea Monda e la redazione del quotidiano della Santa Sede si fanno sempre più tesi», ricostruisce Nuzzi. «Il clima è infuocato da quando il nuovo direttore si è insediato nell'ufficio che per oltre un decennio era stato di Giovanni Maria Vian. Decine di note e lettere riservate finiscono sulla scrivania del Papa nel salottino a Santa Marta. I giornalisti dell'Osservatore Romano, consapevoli che il nome di Monda è stato proposto da Ruffini e Spadaro, chiedono aiuto al Pontefice, manifestano la loro insofferenza: vorrebbero un cambio di direzione, dopo appena un mese. I cronisti accusano un calo qualitativo del «prodotto», tengono da parte (e fanno circolare in Vaticano) tutte le fotocopie di quei numeri del giornale pieni di strafalcioni: il 2 febbraio 2019, ad esempio, viene pubblicato un articolo in prima pagina in cui la storica enciclica Pacem in Terris di Giovanni XXIII diventa «la Pacem in Terris di Giovanni Paolo II».
Per non parlare del terremoto provocato nell'inserto femminile Donne Chiesa Mondo, con le dimissioni del direttore, Lucetta Scaraffia, e del comitato di redazione per protesta contro Monda, accusato di aver delegittimato e sfiduciato il loro lavoro, di voler «silenziare» il caso degli abusi sessuali sulle religiose e di voler imporre un «diretto controllo maschile» sulla redazione. Nell'occasione le dimissionarie scrissero direttamente a Francesco e Nuzzi annota che il Pontefice era «furibondo», anche perché «qualche giorno prima aveva già chiamato e rimproverato Monda per l'editoriale pubblicato in occasione del sesto anniversario di pontificato».
La rimozione di Monda era stata chiesta il 21 giugno scorso, quando la segreteria di Stato fu informata da uno scoop della Verità che don Giacomo Ruggeri, intervistato dal direttore dell'Osservatore come esperto di social network, era stato arrestato nel 2012 e processato per molestie a una tredicenne. Non contento, Monda aveva in seguito pubblicato anche un editoriale dello stesso sacerdote condannato per pedofilia.
Le gaffe del pupillo di Ruffini non si esauriscono certo nelle quattro pagine al vetriolo che Nuzzi gli ha dedicato in Giudizio universale. Vittima di un ego smisurato, il direttore è riuscito nell'impresa di pubblicare ben cinque editoriali firmati Andrea Monda sul Settimanale, periodico dell'Osservatore che raccoglie gli articoli più significativi degli ultimi sette giorni.
In pieno delirio solipsistico, Monda è arrivato a ribattezzare Lettere dal direttore la rubrica delle missive che i lettori di norma inviano «al» direttore di una testata: accertata l'assenza di interlocutori, in pratica se le scrive da solo e le spedisce al proprio indirizzo.
Un'altra rubrica esilarante partorita da Monda è Via crucis in metropolitana, come se Cristo lungo la via dolorosa verso il Golgota si fosse avvalso dei mezzi dell'Atac, incrociandovi per caso il cireneo intento a leggere L'Osservatore. Sfortuna ha voluto che l'esordio sia stato funestato nella metro di Roma da un autentico calvario di incidenti e crolli di scale mobili, con contorno di feriti, costringendo i detrattori a pensare che Monda porti più iella di Virginia Raggi.
Nel fondo per il sesto anniversario del pontificato di Jorge Mario Bergoglio, ha fatto sobbalzare gli zucchetti purpurei e paonazzi della Curia romana scrivendo che «Francesco è un medico di famiglia», declassando così il Pontefice al ruolo del dottor Guido Tersilli, camice bianco della mutua impersonato da Alberto Sordi.
Sul piano politico-ecclesiale Monda si muove con la leggiadria di un pachiderma in una boutique di Swarovski. Fra le gaffe più clamorose, figura il suo solitario endorsement a favore della convocazione di un sinodo dei vescovi italiani, che ha fatto imbufalire la Conferenza episcopale, tanto da costringerlo a pubblicare un'intervista riparatoria con il suo presidente, il cardinale Gualtiero Bassetti.
Nella gestione della macchina redazionale Monda dimostra la leggiadria di Ciccio Pasticcio. Dopo aver confinato nelle pagine interne un articolo del cardinale José Tolentino de Mendonça, archivista e bibliotecario della Santa Sede super protetto dal Papa argentino, contravvenendo con ciò alle indicazioni dell'interessato che aveva espressamente richiesto di vederselo stampare in prima pagina, ha riparato eseguendo tardivamente l'ordine, cosicché il pezzo è stato pubblicato per la seconda volta nella vetrina del quotidiano, con un ridicolo distico di giustificazione che faceva riferimento a non meglio precisati refusi della precedente versione.
Monda ha applicato nella sua direzione i criteri clientelari del Sud. «L'irpino Mario Agnes era molto più internazionale: almeno dava spazio a tutto il Meridione», è l'acido commento che circola in redazione. «Lui solo alla Calabria, anzi a Cosenza, città natia dello zietto Misasi». In effetti sull'Osservatore si sprecano le corrispondenze su ignoti personaggi e bislacche iniziative di quelle terre.
L'interesse (giornalistico) privato in atti d'ufficio lo ha persino indotto a far coprire per più giorni dal segretario di redazione, Gaetano Vallini, la Festa del cinema di Roma, il cui direttore artistico guarda caso si chiama Antonio Monda: suo fratello.
Ciliegina sulla torta. Dante Monda, unico figlio del direttore, è coordinatore nazionale della Rete bianca che punta a far risorgere una Dc di sinistra con la benedizione del Papa. Si dice che un ex notabile democristiano, rivoltosi al suo angelo custode padre Spadaro affinché intercedesse per un esplicito appoggio del Pontefice al progetto, si sia sentito rispondere che la cosa era fattibile solo a condizione che Monda jr avesse un ruolo di rilievo nel nascente partito: segretario?
È questa somma di sgangheratezze ad aver fatto maturare nelle sacre stanze il convincimento che il direttore dell'Osservatore Romano debba essere avvicendato quanto prima. E qui entra in campo Tornielli, che avrebbe buon gioco nel convincere l'editore, cioè papa Francesco, ad affidargli l'incarico. Sulle capacità persuasive del giornalista di origini chioggiotte (al quale Nuzzi nel suo saggio attribuisce un micidiale liscio e busso inflitto a Monda sulla questione del collaboratore in talare condannato per le molestie alla tredicenne), la dice lunga un'indiscrezione tutta da verificare che circola in Vaticano: pare che Jorge Mario Bergoglio usasse fornire assistenza religiosa per telefono alla madre di Tornielli.
L'ambizione nemmeno tanto segreta di Tornielli sarebbe stata quella di prendere il posto di Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, soprannominato Tarquinio il Superbo per il suo sussiego. Un sogno di gloria che si è infranto contro la ferma opposizione della Cei, proprietaria della testata, memore dei trascorsi ciellini del pretendente.
Per la verità, pare che Tornielli si «accontenterebbe» - terza ipotesi - di sostituire Maurizio Molinari alla direzione della Stampa, per la quale lanciò il sito Vatican insider. E non è detto che al «mentalista» Joseph Thornborn, pseudonimo di Tornielli, uso - come rivelò La Verità - a piegare cucchiaini con la forza del pensiero e a pubblicare romanzi fantavaticani, prima o poi non riesca anche questo gioco di prestigio. S'è mai visto, infatti, un illusionista che s'illude?
Massimo Franco è un giornalista bene informato. Ha cominciato la sua carriera ad Avvenire, il giornale dei vescovi. Questo spiega perché, pur utilizzandolo di norma come notista politico, il Corriere della Sera faccia commentare a lui i fatti più scottanti che riguardano la Chiesa. Ieri si è esibito con un documentato retroscena riguardante il nuovo scandalo scoppiato in Vaticano (in ballo ci sarebbero operazioni finanziarie illecite e 200 milioni di euro investiti a insaputa di papa Francesco su un edificio di lusso nel cuore di Londra).
L'articolo di Franco si concludeva così: «Quanto al segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, sembra che fosse all'oscuro di tutto, anche perché ha sempre preferito lasciare ad altri la gestione degli affari economici. Tra l'altro, sarebbe stato informato da papa Francesco soltanto a poche ore dal blitz: un dettaglio che conferma la scarsa comunicazione tra Francesco e il suo “primo ministro", e contribuisce ad alimentare le voci su un disagio crescente di Parolin».
Quello che Franco non sa (oppure sa ma non scrive) è il retroscena bomba che si nasconderebbe dietro questo «disagio crescente»: papa Bergoglio si appresterebbe a «degradare» il cardinale Parolin a semplice pastore d'anime, mandandolo come patriarca a Venezia.
La clamorosa indiscrezione circola con insistenza sia in Vaticano sia negli ambienti della Conferenza episcopale italiana. Difficile capire quali potrebbero essere i motivi all'origine della rottura del rapporto fra il Papa argentino e l'ex nunzio apostolico in Venezuela, cioè fra il numero uno e il numero due della Santa sede. I più benevoli sostengono che sia stato lo stesso Parolin a implorare Sua Santità di non rinnovarlo nel gravoso incarico affidatogli il 30 agosto 2013. Non è un mistero che il porporato stesso vada auspicando da tempo la sua destinazione alla cura delle anime, più che al disbrigo degli affari di Stato e delle incombenze della Curia romana.
A favore della scelta di Venezia giocherebbero un fattore affettivo e uno sanitario. Ada Miotti, la madre di Parolin, avrebbe espresso il desiderio di avere accanto il figlio almeno nel suo ultimo tratto di vita. La signora, ex maestra elementare, ha 92 anni e da qualche tempo ha lasciato Schiavon (Vicenza), dove ha sempre vissuto, per andare ad abitare in provincia di Verona presso una figlia coniugata. Da casa sua a Venezia sono appena 120 chilometri, contro gli oltre 500 che attualmente la separano dal figlio cardinale.
Il motivo sanitario si spiega con i postumi di un delicato intervento al pancreas che il porporato subì nella divisione di chirurgia epatobiliare dell'ospedale di Padova, diretta dal professor Umberto Cillo, proprio in coincidenza con la nomina a segretario di Stato, tanto che poté assumere l'incarico soltanto 45 giorni dopo. Le sue condizioni di salute gli precluderebbero ora di continuare a girare il mondo. Molto meglio risiedere vicino al primario che gli salvò la vita. E da Venezia a Padova sono appena 40 chilometri.
A meno che all'origine della retrocessione da segretario di Stato a patriarca non vi sia un disegno gesuitico, cioè machiavellico, di Bergoglio. È noto che nel curriculum di Parolin vi sono soltanto incarichi diplomatici. Gli manca totalmente un'esperienza pastorale. Quella nella diocesi di Venezia lo renderebbe idoneo al papato in un futuro conclave. Di certo su di lui si appunterebbero gli sguardi dei cardinali elettori italiani nel caso in cui la loro scelta si orientasse, dopo tre pontefici stranieri, su un connazionale. E quale modo migliore per Francesco di continuare a governare anche da morto attraverso un proprio fedelissimo? Insomma, un «promoveatur ut amoveatur» alla rovescia, che dal 1600, da quando esiste la figura del segretario di Stato, forse ha avuto un solo precedente alla fine del 1954, quando papa Pio XII nominò il pro segretario di Stato Giovanni Battista Montini arcivescovo di Milano (senza mai crearlo cardinale), anche se mantenne l'altro pro segretario di Stato, il cardinale Domenico Tardini, certo in un contesto totalmente diverso. L'esito comunque fu analogo: Montini divenne pontefice cinque anni dopo con il nome di Paolo VI.
Ora il diplomatico Parolin sarebbe avviato a seguire le orme di Angelo Giuseppe Roncalli, che dopo le esperienze di nunziatura in Bulgaria, in Turchia e in Francia, entrò in conclave da patriarca di Venezia per uscirne papa con il nome di Giovanni XXIII.
Ma sullo sfondo vi è anche una necessità ben più urgente, per papa Bergoglio. Venezia è da sempre sede cardinalizia e i fedeli dell'ex Serenissima non possono essere umiliati ancora a lungo lasciando al governo della diocesi un semplice vescovo. Tanto più che l'attuale patriarca, Francesco Moraglia, è chiacchieratissimo per il modo in cui ha sin qui gestito la missione affidatagli. Ormai non si contano più le velenose insinuazioni spedite via mail ai giornali, ma propalate anche con avvisi affissi nottetempo in calli e campielli, che un anonimo Savonarola, il quale si firma «Fra Tino», scaglia contro «le due lobby che comandano nel patriarcato, quella affaristica e quella omosessuale». Tanto da aver costretto il pastore della diocesi a sporgere denuncia in questura. Meglio correre ai ripari con un cambio della guardia, prima che la situazione degeneri.
L'ultima rivelazione riguarda un ordine per un set di paramenti liturgici che sarebbe giunto dal Vaticano mesi fa, a una sartoria dell'entroterra lagunare, per un'importante cerimonia «che si terrà in autunno». Quella del segretario di Stato retrocesso a patriarca?




