Quando mio figlio Domenico mi chiese a bruciapelo che rumore avesse il Natale, per prima cosa, prima ancora di articolare una qualunque risposta, per quanto evasiva, lo guardai e gli feci un cenno con la mano come a volergli chiedere, a mia volta, cosa diavolo gli fosse saltato in mente. Natale poteva avere suoni e colori, profumi, suggestioni. Ma che facesse, o avesse, un rumore particolare che lo caratterizzasse mi suonava assolutamente nuovo: di più, estraneo.
All'epoca di questo fatto aveva cinque anni e spesso se ne tornava a casa dall'asilo sottoponendo a sua madre e a me improbabili questioni, frutto delle infinite, surreali discussioni che solo i bambini riescono a impostare tra di loro quando non hanno adulti tra i piedi: troncandole poi con decisione quando vedono uno della nostra razza all'orizzonte.
Glissai, tentai un cambio di argomento, la buttai sul banale dicendo che era sera, io ero stanco e lui doveva andare a lavare i dentini per poi infilarsi sotto le coperte e sognare Babbo Natale e tutti i bei regali che gli avrebbe portato.
Mi illusi di essermela cavata. Niente da fare, invece. La domanda si ripropose quasi subito e con una vernice inconsapevolmente ricattatoria: lui andava a lavare i dentini e a sognare Babbo Natale solo dopo una mia risposta che, implicitamente, doveva essere esaustiva.
Quindi, che non tentassi di sfuggire aggrappandomi a equilibrismi verbali.
Che rumore aveva il Natale?
Prima di articolare anche un solo mezzo pensiero che potesse divenire risposta, cercai di indagare se per caso il ciccetto, soprannominato Lupo allora come oggi, avesse visto una delle tante, insinuanti e stucchevoli pubblicità natalizie dove il Natale venisse associato a qualche rumore particolare, frutto della sfrenata fantasia di qualche pubblicitario cui era stato affidato l'incarico di convincere il pubblico televisivo ad acquistare improbabili strenne. Me la sarei cavata, così, con poco sforzo di intelletto. Ma la mamma mi rispose con il silenzio e il viso improntato al diniego più assoluto: l'innocente nel corso del pomeriggio aveva solo e sempre giocato con la sua collezione di dinosauri senza mai accendere la televisione, quindi non ne era stato contaminato.
Non solo. Quella domanda l'aveva fatta anche a lei, appena uscito dall'asilo. Ma, furba, se l'era cavata dichiarando pianamente che non lo sapeva. Il papà invece, che menava vanto di fare lo scrittore, avrebbe saputo rispondergli con sicurezza.
Così mi trovai nell'angolo: di mezzo, adesso, c'era la salvaguardia della mia immagine, quella del mio pretestuoso, enciclopedico sapere.
Il ciccetto nel frattempo non si era dato pena delle mie difficoltà e tornò alla carica subito, i dentini potevano aspettare. Un tono di dileggio, mi parve, s'era insinuato nella sua voce che, per la terza volta, ripeteva la domanda: quale rumore fa il Natale?
Tempi moderni, pensai, nuove generazioni. Io non mi sarei mai permesso di chiedere per tre volte di fila la stessa cosa a mio padre. Mi sarei accontentato della prima risposta, ancorché insoddisfacente. Ma i tempi erano quelli, moderni appunto, e bastava un niente per far scricchiolare l'autorità paterna. Non fosse bastata l'insistente richiesta del bambino, dopo pochi minuti ci si mise anche sua madre. Evidentemente torturata anche lei da quella domanda che andava assumendo contorni minacciosi, mi si rivolse, minacciosa a sua volta.
«Non gli hai ancora risposto?»
Sfida globale, quindi?
Decisi lì per lì che, se l'erede voleva una risposta, l'avrebbe avuta. Dopodiché i dentini, i sogni dei regali e buonanotte! In fin dei conti bisognava dare a quella domanda una risposta di sostanza, dire una cosa, qualunque fosse, dare all'infante una soddisfazione, una certezza. Quindi, convinto della bontà del mio agire, risposi con grande sicurezza.
«Rumore di pesce!»
Il ciccetto sembrò convinto. Forse sembrò così a me, volendomi illudere di aver assolto un alto compito. Perlomeno gli avevo dato la risposta. Non tenevo in conto, in quel momento critico, che un figlio si fa in due, con una moglie, una compagna, una donna insomma che poi diventa mamma. E che ha pari diritto di parola. Per cui, sentendo la risposta e valendosi di quel diritto testé citato, mia moglie se ne uscì a dire:
«Rumore di pesce?».
Immediatamente mio figlio si accodò a sua madre buttando lì un perché? che per un tempo abbastanza lungo sembrò sfarfallare nel silenzio del salotto di casa.
«Adesso sì che ti voglio», chiosò mia moglie ritirandosi in cucina.
«Perché il Natale ha rumore di pesce?», ribadì mio figlio non riuscendo contemporaneamente a reprimere un mezzo sbadiglio.
Perché, perché…
«Perché…» attaccai a spiegare, mentre mia moglie, cercando di non farsi vedere, orecchiava, «…perché i lavarelli, che sono pesci di lago, vanno in frega a dicembre: cioè, dalle profondità sconosciute del lago, si mettono in gruppo e facendosi compagnia vengono a riva a deporre le uova. Di conseguenza quello è il momento giusto per prenderne alcuni considerando che, insieme con gli agoni e i persici, sono i pesci più pregiati, dalla carne più saporita».
E proprio sotto Natale, un mio amico, il Cavagnin, che aveva nome Ernesto ma era figlio del Cavagna e della Cavagnina, me ne portava sempre qualcuno. Generalmente la sua attività di pescatore, rigorosamente di frodo, iniziava verso la metà di dicembre. Mi capitava allora di incrociarlo per il paese mentre girellava in bicicletta: sembrava annusare l'aria come se volesse capire se la sera sarebbe stata propizia alla pesca.
Se mi fermava e mi chiedeva: «Ci sei là stasera?» capivo al volo.
Là voleva dire in ambulatorio, e la sua domanda non era volta ad avere la certezza di trovarmi per espormi qualche problema di salute ma per essere sicuro di poter effettuare la consegna a me personalmente. Poteva capitare che, nonostante l'avviso, non lo vedessi, magari anche per due o tre sere di fila. Si sa come vanno le cose di questo mondo, non ci sono regole precise per molte di esse: gli uccelli del cielo, come i pesci del lago, ne hanno di loro e solo a quelle ubbidiscono. In ogni caso, non mi preoccupavo, non temevo che si fosse rimangiato la parola: il Cavagnin non aveva mai tradito l'appuntamento con quello che, col trascorrere degli anni, era diventato un incontro che aveva il sapore, oltre che il rumore, del Natale ormai imminente.
A quel punto del racconto notai che a mio figlio cominciavano a cascare, e pesantemente, le palpebre: compito primo, irrinunciabile di un narratore, è quello di tener desta l'attenzione del lettore o di chi ti ascolta. In quel caso specifico, però, mi bastava aver annoiato a tal punto il ciccetto da avergli provocato una invincibile botta di sonno.
Credevo, io. Non appena tacqui nell'attesa che dalle sue labbra uscisse il fiato tranquillo del sonno pienamente conquistato, lui riaprì la bocca. E non per sbadigliare ma per ribadire il perché. «Perché il Natale ha il rumore del pesce?»
Non aveva dimenticato, il terribile quinquenne. Cocciuto, resisteva al sonno pur di sapere.
Dovetti proseguire, con la speranza di non deluderlo e di trasferirgli parte dell'emozione che l'ingresso in ambulatorio del Cavagnin, col frutto della sua pesca miracolosa, mi aveva sempre dato. Il perché era semplice, forse banale. Ma ammantato di una suggestione poetica, notturna, odorosa di quell'ineffabile profumo di lago che è un misto di pesce, alghe, acqua, muschio e sassi, ma anche parole, cieli stellati, silenzi, luci che vanno e vengono sulla sponda opposta, e umidità.
Gli è che il Cavagnin consegnava soltanto merce fresca. Anzi, freschissima. Pesce appena pescato. E, per portarmelo in ambulatorio, infilava le sue prede in buste di plastica e le nascondeva sotto il giubbotto, così che nessun occhio indiscreto avrebbe indagato.
Ma i lavarelli, ancora vivi, evidentemente mal sopportando quella loro condizione, si dibattevano: quando, nel mio studio, giungeva quel rumore, come se qualcuno stesse stropicciando una busta di plastica o accartocciando una carta velina, era segno che di lì a un minuto lui sarebbe comparso e, con un gesto svelto, avrebbe svelato quello che nascondeva sotto il giubbotto e me l'avrebbe consegnato, mormorando i suoi auguri.
«Li ho appena pescati», assicurava senza che peraltro ce ne fosse bisogno.
E: «Se non ci vediamo più, Buon Natale», aggiungeva.
A dire la verità, io cercavo di trattenerlo per restituirgli la cortesia come potevo, magari misurandogli la pressione o cercando di interrogarlo sulla sua salute. Ma lui era un po' allergico all'aria degli ambulatori e se ne scappava via, rinviando a data da destinarsi.
A quel punto mio figlio dormiva. Dormiva veramente, lento e regolare il respiro. E mi sembrò, o forse fu solo suggestione, che sul viso avesse un sorrisetto, come se fosse soddisfatto della storia e della spiegazione.
Mia moglie, che aveva ascoltato senza intervenire, si assicurò a sua volta che il ciccetto dormisse. Poi, fattasi certa del suo sonno, mi chiese da quanti anni fosse morto il Cavagnin.
A dire la verità io continuavo a pensarlo vivo e sfrosatore, non ricordavo da quanto tempo non ci fosse più. Risposi alla domanda con un'altra domanda.
«Da quanto tempo non mangiamo più un lavarello fresco?»
Ecco fatto il conto.
©Garzanti libri
- Un istituto di Arezzo lancia l'idea: premi in denaro per chi si distingue. Ma così si perde il senso profondo dell'istituzione.
- È grazie alla capacità dei docenti di spiegare e coinvolgere se i ragazzi ottengono ottimi risultati in classe. Eppure, anche se bravi, continuano a ricevere buste paga anemiche.
Lo speciale contiene due articoli.
Pagare per far studiare: l'ultima tentazione per un sistema scolastico come quello italiano che vede scivolare verso il basso i propri alunni nelle classifiche Ocse che misurano le competenze, e che si trova disorientato tra l'esuberanza dei bulli e le riforme mal digerite.
Ad imboccare la strada del premio in denaro è l'istituto per geometri e ragionieri di Arezzo Buonarroti-Fossombroni e si sta avvicinando il momento in cui verranno consegnati i premi promessi. Sono assegni poco esaltanti di 150, 120 o 100 euro, destinati ad alunni che hanno superato una soglia neppure tanto brillante. Per ottenere il contributo, devono aver mantenuto una media non inferiore al sette e mezzo e una condotta impeccabile, certificata col voto del nove.
Nella scuola italiana le borse di studio per gli alunni eccellenti ci sono sempre state e avevano una loro ragion d'essere, ma la strategia escogitata dalla preside, Silvana Valentini, è qualche cosa di diverso (e forse di opinabile). Infatti la dirigente chiarisce: «Non è una borsa di studio ma un modo per incentivare, per far scattare la motivazione allo studio e per promuovere comportamenti corretti in classe».
È proprio questo il punto problematico: monetizzare l'incentivo allo studio è la strada più giusta? O è forse l'ennesima dimostrazione del fatto che la scuola italiana si è avviata verso una sorta di parodia sbiadita di un sistema capitalistico arretrato?
Nei mesi scorsi abbiamo assistito a spettacoli di dubbio gusto, come quello dei ragazzi portati a servire piatti ai McDonald nell'ambito dei progetti di alternanza scuola-lavoro.
Adesso - a chi obiettava che il lavoro fondamentale dei ragazzi è studiare - qualcuno ha pensato di rispondere monetizzando l'impegno e la concentrazione del pensiero.
Una monetizzazione, peraltro, realizzata all'insegna di una certa prudenza sparagnina: i ragazzi che non raggiungeranno l'ambita meta del sette e mezzo potranno consolarsi pensando che, con un paio di settimane da commessi o da pizza boy, potranno brillantemente superare i guadagni dei loro compagni «secchioni».
La preside dell'istituto aretino è convinta di aver trovato la chiave giusta per far scattare la motivazione e infatti, intervistata da Repubblica, parla di «far scattare il desiderio di crescere come studenti»: un obiettivo nobile, sarebbe davvero un risultato da Nobel se si riuscisse a conseguirlo con la distribuzione di qualche mancia. L'istituto Buonarroti-Fossombrone ha realizzato la copertura economica del suo bonus grazie al contributo di sponsor e aziende già coinvolte in progetti di alternanza scuola-alternanza.
Così facendo, ha portato a termine un esperimento che - al di là della plausibilità o meno dal punto di vista educativo - si rivela essere difficilmente esportabile in altre aree d'Italia, dove le scuole superiori trovano difficoltà anche ad acquistare risme di fogli e rotoli di carta igienica.
Viene anche da pensare, poi, che in un Italia più povera, scuole superiori non ancore agitate dalla grande alluvione di slogan del Sessantotto riuscivano a formare studenti motivati allo studio senza dover ricorrere a gettoni di compenso. Soldi che finiscono col dimostrare come lo studio paghi, ma molto poco.
Alfonso Piscitelli
I soldi in più li meritano i professori
Davvero un peccato essere andato a scuola lo scorso secolo. Ci fossero stati ai miei tempi quei premi in denaro per la buona condotta in parecchi, oltre al sottoscritto, avremmo messo da parte un più che discreto tesoretto da spendere in gelati, figurine Panini e magari qualche cinema. Anche perché - non fossimo stati più che ligi nel rispettare il comandamento di essere educati, obbedienti, alla raccomandazione di salutare e stare zitti, composti e attenti - alla resa dei conti domestica avremmo ricevuto ben altro pagamento, con moneta di variabile conio ma non certo spendibile.
Più corretto parrebbe premiare il buon rendimento scolastico, l'ottimale media del sette e mezzo con moneta sonante. Semmai andrebbe aggiustato il tiro, cioè il portafoglio in cui gli euri dovrebbero trovare casa.
Anziché nelle tasche degli studenti meritevoli, servirebbero forse meglio nel rendere più appetibile l'anemica busta paga degli insegnanti poiché, e non vorrei sbagliare, credo che alla bravura di costoro vada ascritta la capacità di attrarre, risvegliare e dare un indirizzo infine all'intelligenza degli studenti. Perlomeno funzionava così, fino al millennio passato, quando il buon voto in condotta o una media accettabile erano premio sufficiente, senza bisogno di un'esca - carota, verme o denaro che fosse - a fare del rendimento scolastico un'attività soggetta a premio vittoria. Ma tant'è, queste son storie di un passato giurassico. Ci si augura che di quel denaro i premiati possano fare buon uso, avendo la libertà di spenderlo secondo fantasia.
Magari pagando da bere ai meno fortunati, quelli ad esempio che in condotta si sono beccati un otto, ai tempi miei una valutazione non proprio positiva, o a quelli che si sono dovuti accontentare di un «Bravo, sette più » come Renato, sempre nel secolo passato, diceva a Cochi.
Andrea Vitali
Per ciascuno di noi la scuola ha un momento preciso in cui inizia. E, pur non escludendolo, non intendo riferirmi al primo giorno in assoluto, quello che, temporibus illis, era il fatidico primo ottobre e battezzava come Remigini tutti coloro che si apprestavano a tracciare aste e memorizzare tabelline . Molta letteratura e cinema in bianco e nero hanno celebrato questi momenti, circondandola con il profumo di mele e quello del fieno da poco sfalciato.
Mi rendo conto però che nelle ricette di simili rievocazioni la farcitura è perlopiù opera di sguardi adulti, che sia la maestrina di buona memoria o il panciuto preside che attende alla soglia del portone, prestati al prim'attore di cui si vuole raccontare l'animo: il discepolo cioè, mentre si trova in vista della conoscenza.
Per questa ragione ritengo che ciascuno di noi, qualunque sia il percorso degli studi fatti, possa indicare l'inizio della propria avventura scolastica, indipendentemente dal calendario, da una data che ormai sappiano variare, soggetta com'è a latitudini e temperature.
Ora, per me, poiché in questo caso ognuno può e anzi deve dire la sua, il primo, vero giorno di scuola fu quello che vide il mio approdo al più classico dei licei, cioè al liceo classico.
E, mamma mia!, quant'ero brutto e scombinato e impacchettato.
Anche allarmato.
Mi spiego.
Brutto.
Non così brutto da vedere forse, non brutto in senso proprio insomma, ma brutto da attirare qualche sguardo, troppi per i miei gusti e la mia ereutofobia. Ma brutto poiché ero, e mi sentivo, scombinato, come se mi avessero preso alla sprovvista per poi mettermi lì senza spiegarmi il perché e soprattutto ciò che dovevo fare. Avevo lasciato l'ovile del paesello e la bambagia di casa, nessuno mi aveva detto che sarei rimasto solo ad esplorare territori oltre confine.
Hic sunt leones, dicevano gli antichi delle terre incognite. E io mi trovavo lì adesso, senza nessun riparo, privo di armi per difendermi. Esploratore senza viveri, difese e inoltre inadeguato nell'abbigliamento. Impacchettato, come dicevo sopra, dentro una giacca e una cravatta che volevano essere omaggio al tempio dentro il quale sarei cresciuto in scienza e coscienza mentre intorno a me una cert'aria, Aria di Rivoluzione cantava Franco Battiato, aveva accorciato gonne, sformato giacche, messo all'indice cravatte, da una parte.
Dall'altra invece aveva ritualizzato il train de vie dell'immancabile buona società, dei suoi virgulti, dandisti, se si può dire, più che mai, molto omogenei nell'uso dei colori e nell'ascolto delle canzoni dei Beatles.
Tra quei due fuochi, in mezzo, in quello iato, crepaccio o purgatorio, io e pochi altri come me, ambite prede dei primi, disastrosi compiti in classe. Certo non ero solo a condividere quella condizione. Insieme con me, ma muti come me e spaesati, c'erano altri, disertori o sbandati che fossero, alcuni dei quali, scoprii più tardi condividevano il mio destino e portavano sul groppone il peso dell'onere e dell'onore della scuola da cui provenivano: unici ad aver sostenuto e superato l'allora facoltativo esame di latino alla barriera della licenzia media, si erano da sé offerti per portare la bandiera della scuola di provenienza tra le mura di quella che pretendeva il passepartout del latinorum per iscriverti nelle sue file. Due cose peraltro furono sufficienti, e necessarie come ripeteva sin troppo spesso un'arcigna insegnante di matematica, per riportarmi al senso di realtà. Prima di tutto il Rocci, vocabolario di greco pensato per chi gode della vista delle aquile di Zeus: non fosse altro che per il suo peso specifico era impossibile non sentirsi ancorati saldamente alle circostanze, piedi per terra. E poi, fulmine a ciel sereno, il risuonare nell'ampio corridoio di una voce dialettale che contrariamente alle mie attese non scatenò fulmini dall'Olimpo scagliati dal suddetto Zeus, ma mosse invece dentro me la definitiva consapevolezza di non essere finito dentro una bolla ma solo su una terra aliena, da percorrere passo passo, prestando attenzione a non pestar le mine (si leggano per mine aoristi, verbi irregolari, ottativi ed altre gerundive compagnie cantanti ).
Rendo giustizia a quella voce che usciva dalla gola di un minuscolo bidello, mio complice per ceppo di provenienza, tant'è che il panino col salame di metà mattina saltava sempre fuori benché raramente obbedissi alla regola della prenotazione.
A leggerla così, sembrerebbe l'inizio di una catastrofe cui starebbe bene il titolo di un famoso romanzo di Fleur Jaeggy, I Beati Anni del Castigo. Per quanto confortevoli possano essere, le mura di un collegio non potranno mai sostituirsi a quelle di casa. Forse a qualcuno potrebbe giovare la lettura di quel romanzo il cui senso, ridotto all'osso, e non me ne voglia l'autrice, suona come la frusta diceria popolare secondo la quale quanto più è amara una medicina tanto più prodigiosa sarà la sua efficacia. Dubito peraltro che la gioventù odierna possa patire, comprendere addirittura, le mie ansie d'allora e relative contromisure. In ogni caso il libro vale la spesa e l'ossimoro presente nel titolo di quel romanzo non passa inosservato. Anzi si pianta nella memoria, si applica alle situazioni più diverse, è flessibile, adattabile, coscienzioso e lungimirante come il Grillo Parlante. Io l'ho applicato adesso a quegli anni del liceo per questioni di evidente contingenza.
Poiché, mi chiedo, senza di essi sarei quello che sono, quello che ho voluto essere o perlomeno quello che tento di voler essere?
Io mi rispondo no.
Si obietterà che, ormai, allo stato di cose ed età, anche in caso di risposta contraria ci sarebbe ben poco da fare.
Sono d'accordo, ma insisto nella risposta: no.
Ed evito così la tiritera fuori tempo ormai, visto che il popolo dei discenti è già da qualche giorno chino sulle sudate carte, secondo cui la scuola fa bene, studiare aiuta e anche se non sembra ha effetti collaterali che vengono fuori col tempo.
Così, facendo finta di non dirlo, l'ho detto.
E forse anche tutto ciò è un po' ossimorico.



