Cinquant’anni fa il miracolo delle Ande: una storia di speranza (e cannibalismo)
Il 23 dicembre 1972 venivano salvati i sopravvissuti dell’areo schiantatosi sulla cordigliera 72 giorni prima. Per restare in vita erano stati costretti a cibarsi dei corpi dei loro compagni.
In Uruguay la chiamano Tragedia de los Andes o il Milagro de los Andes, a seconda che l'attenzione sia puntata sulle 29 vittime o sui 16 sopravvissuti. Sono trascorsi 50 anni, ma il ricordo delle incredibili circostanze che portarono alcune delle vittime del disastro aereo delle Ande a salvarsi è ancora vivo. Una vicenda drammatica e terribile, conclusasi il 23 dicembre 1972, appunto mezzo secolo fa esatto.
L'incidente coinvolse per lo più giocatori, dirigenti e parenti legati alla squadra di rugby degli Old Christians Club, del Collegio Universitario Stella Maris di Montevideo, squadra tra le più forti in Uruguay, che stava volando sopra le Ande per andare a giocare una partita contro una squadra di Santiago del Cile, anche se a bordo erano presenti pure comuni passeggeri. Il velivolo su cui viaggiavano era un Fokker/Fairchild FH-227D della Fuerza Aérea Uruguaya, affittato per il volo charter per rimpinguare le casse disastrate dell'aeronautica militare. Il volo 571 era decollato la mattina del 12 ottobre 1972 dall'aeroporto Carrasco di Montevideo, in Uruguay, ed era diretto all'aeroporto Benìtez della capitale cilena.
Per un errore ancora non del tutto spiegato, dovuto in parte anche alle difficile condizioni meteo, i piloti iniziarono la discesa verso Santiago quando in realtà erano ancora sopra la cordigliera. Alle 15:31, a circa 4 200 metri di altitudine, l'aereo colpì la parete di una montagna con l'ala destra, che si staccò e ruotando tagliò la coda del velivolo all'altezza della cambusa. La fusoliera perse anche l'ala sinistra urtando contro un'altra roccia e atterrò su una ripida spianata nevosa, scivolando per circa due chilometri fino ad arrestarsi. Delle 45 persone a bordo (40 passeggeri più 5 membri dell'equipaggio), 12 morirono nello schianto, mentre 33 si salvarono.
Le condizioni in cui si vennero a trovare i sopravvissuti, molti dei quali feriti, furono da subito tremende, con temperature sotto lo zero e quasi nulla da mangiare. Coloro che avevano riportato meno danni nell'incidente si ingegnarono per rendere minimamente vivibile il rottame della fusoliera, cercando di tamponare il vento gelido delle Ande, soccorrendo i feriti e razionando le pochissime cibarie a bordo: qualche biscotto e un po’ di marmellata. Per la sete, cercarono di sciogliere la neve su lastre di alluminio messe al sole per ricavare dell’acqua. Man mano che passavano i giorni e che diveniva evidente che i soccorsi non sarebbero mai arrivati – la fusoliera bianca quasi immersa nella neve era di fatto invisibile per i velivoli che sorvolarono la zona – fra i sopravvissuti si fece largo l'ipotesi di mandare una squadra in cerca di un luogo abitato in cui chiedere aiuto.
Dopo pochi passi nella neve, tuttavia, fu chiaro a tutti che senza una dieta adeguata, nessuno di loro avrebbe potuto allontanarsi dal relitto senza finire le forze nel giro di pochi metri. Pian piano divenne evidente che l'unica possibilità di salvezza era rappresentata dal cannibalismo: solo assumendo proteine mangiando i cadaveri dei compagni rimasti uccisi i sopravvissuti avrebbero potuto tirare avanti e cercare soccorsi. Ne nacque un acceso dibattito etico, condizionato anche dalla profonda impronta religiosa che aveva la squadra uruguayana. Alcuni, peraltro, si rifiutarono di farlo, preferendo morire piuttosto che ricorrere a tale pratica, cosa che infatti avvenne.
La situazione, intanto, si fece sempre più drammatica: altri otto sopravvissuti morirono la notte del 29 ottobre, quando una valanga travolse la fusoliera nella quale dormiva il gruppo. Dopo vari tentativi, la spedizione decisiva fu affidata a Fernando Parrado e Roberto Canessa, che si ritrovarono tra le altre cose a scalare probabilmente per primi una montagna di 4.650 metri. I due non avevano modo di orientarsi, erano debilitati e avevano attrezzature di fortuna. Dopo vari giorni raggiunsero una vallata e, seguendo il fiume che vi scorreva, trovarono infine mucche al pascolo e dopo un paio di giorni qualcuno che li soccorse. Erano finalmente arrivati in Cile. Dopo i primi soccorsi, arrivarono anche alcuni militari cileni, i quali fecero poi arrivare un elicottero. Alcuni superstiti furono portati in salvo il 22 dicembre, altri il 23 dopo una notte che alcuni soccorritori scelsero di trascorrere al loro fianco. Erano passati 72 giorni dal giorno dell’incidente. I superstiti furono ricoverati con segni di malnutrizione e altre patologie, ma tutto sommato in buone condizioni. Non rivelarono subito di essersi cibati dei compagni deceduti e, quando lo fecero, la cosa destò scalpore in tutto il mondo.



