Il senatore Matteo Renzi ormai più che un leader di partito è un pokerista. Pur di diventare Grande elettore del futuro Capo dello Stato, è pronto a giocare la sua mano al fianco degli (ex) odiati sovranisti. È anche alla ricerca di nuovi compagni disposti a sostenerlo nella sua battaglia per arginare l’azione della Procura di Firenze colpevole di fare indagini su di lui e sulla sua famiglia. In particolare a pesargli è l’inchiesta sulla fondazione Open, considerata dagli inquirenti la vecchia cassaforte del renzismo. Una tesi fortemente contestata dai suoi avvocati, Gian Domenico Caiazza e Federico Bagattini, nella memoria difensiva consegnata ieri da Renzi in Procura. Subito dopo l’ex sindaco di Firenze ha dichiarato: «I pm hanno speso centinaia di migliaia di euro pubblici per dimostrare che i nostri finanziamenti privati non sono formalmente corretti: noi con cinque pagine abbiamo replicato alle 94.000 pagine dell’accusa, ridondanti e piene di errori». Ma anche se ha sottolineato di non «scappare dalla giustizia», ha preferito non rispondere alle domande.
Il fu Rottamatore è apparso rinfrancato dal sostegno incassato, giusto due giorni fa, dal centrodestra nella Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari. Una maggioranza schiacciante di 14 voti a favore e 2 contrari ha approvato la proposta della relatrice di Forza Italia, Fiammetta Modena, che chiede all’aula di sollevare il conflitto di attribuzione presso la Corte costituzionale. «Negli atti oggetto dell’indagine, infatti, sono copiosi i riferimenti alla corrispondenza dell’indagato Renzi, nella sua veste di parlamentare dopo il marzo 2018, ma anche prima di questa data, quando egli scrive a parlamentari in carica o riceve da loro mail o comunque corrispondenza telematica» evidenziano gli avvocati.
I giornali vicini all’ex premier in questa battaglia hanno fatto passare queste presunte captazioni illegali come il Cavallo di Troia che farà saltare per aria l’inchiesta.
In realtà i legali chiedono più banalmente ai pm di «espellere dal fascicolo ogni qualsiasi corrispondenza acquisita senza il rispetto dell’articolo 68 della Costituzione».
E, in tutta onestà, questo materiale non ci sembra decisivo, in particolare quello riguardante il Renzi senatore. Tra le poche conversazioni relative al periodo in cui il leader di Italia viva sedeva già sugli scranni di Palazzo Madama c’è lo scambio di messaggi Whatsapp con l’imprenditore Vincenzo Manes, estratto dal telefono di quest’ultimo. Una chat risalente al 3 giugno 2018, probabilmente, come detto, poco rilevante nell’economia complessiva dell’inchiesta, ma estremamente impattante a livello mediatico. Renzi, infatti, scrive: «Mi ha invitato Bill Clinton mercoledì mattina ad Arlington per la cerimonia di Bob Kennedy, 50 anni dopo. Lui farà un discorso ufficiale. A me hanno chiesto di leggere discorso sul Pil». Per Matteo l’invito di Clinton è «una roba da seghe», ma c’è un problema. Il neo senatore deve infatti «votare contro i grillini martedì alle 17» e teme di non avere voli. Quindi chiede a Manes: «C’è qualche tuo amico riccone che viaggi dopo le 18 verso Washington?». In alternativa cerca un contatto «per prendere un aereo a poco» perché ritiene di non poter «evitare di votare la sfiducia a queste merde».
Il riccone non salta fuori e Renzi comunica a Manes che sta organizzando il volo privato «come fondazione». Un noleggio, a quanto pare, dal costo non proprio irrisorio. Due giorni dopo infatti, il presidente della fondazione Open Alberto Bianchi scrive a Luca Lotti (anche lui deputato): «134.900?! Ma ha perso la testa?». Il parlamentare dem risponde laconico: «Non ho parole».
Ma che le obiezioni degli avvocati non preoccupino molto i magistrati lo si evince dalla scarna risposta del 4 ottobre 2021 firmata dal procuratore aggiunto Luca Turco all’istanza dell’avvocato Bagattini sulla presunta violazione dell’articolo 68: «Ritenuto che gli stessi difensori evidenziano come l’utilizzazione di dati processuali sia stata operata non già nei confronti del loro assistito, bensì di altro indagato non soggetto alle guarentigie invocate, si dichiara il non luogo a provvedere all’istanza».
La sensazione è che l’inchiesta andrà avanti con o senza quei messaggi.
I legali, a parte contestare qualche sfondone nell’attribuzione dei ruoli politici di alcuni indagati, si premurano anche di chiedere di depennare dalla lista delle spese di Open per Renzi quelle destinate alla Leopolda, visto che per la Cassazione sarebbe stata una kermesse con «attività espressamente previste dallo statuto della Fondazione senza peraltro alcun collegamento con le attività del Partito democratico». Chiedono anche di non considerare come «finanziamento illecito» al «politico» Renzi le contribuzioni effettuate dalla fondazione al comitato a favore del Sì al referendum del 2016 in quanto quell’iniziativa aveva «una portata ampia e trasversale […] in alcun modo ascrivibile nelle logiche o iniziative “di partito”, né tantomeno “di corrente” e ancor meno “del singolo politico”».
Ed è proprio sull’idea dell’esistenza di una corrente renziana, ipotizzata dall’accusa, che i difensori si inalberano: «È di dominio pubblico (numerose le interviste, i discorsi, gli articoli sul punto) che il senatore Matteo Renzi non ha mai creato una propria corrente, anzi ha sempre avversato una tale logica […] al punto da dichiarare in più sedi: “Prima di strutturare una corrente del Pd, lascio il Pd e faccio un partito diverso”. Cosa che poi è oggettivamente avvenuta». A parte che si potrebbe obiettare che ha lasciato il Pd quando la sua corrente, terminata l’esperienza di governo e perse le primarie, è diventata minoranza dentro il partito, il fatto che nel Pd ci fosse un gruppo di parlamentari che faceva riferimento a Renzi è scritto nero su bianco in una serie di mail agli atti dell’inchiesta. Per esempio in uno scambio di messaggi tra l’indagato Marco Carrai e Michael Ledeen, storico e giornalista statunitense, considerato vicino alla Cia e coinvolto in passato in alcuni scandali internazionali. Nel carteggio, risalente al dicembre 2012,
Carrai esulta: «Abbiamo preso 50 parlamentari. Non male…». Dunque, secondo l’imprenditore sotto inchiesta, già nella composizione delle liste elettorali per le politiche 2013 esisteva una quota di candidati renziani. Un elenco di nomi, circolato anche via mail in un file Excel (intitolato esplicitamente «Parlamentari Renzi»), che nei mesi successivi il cognato dell’ex premier, Andrea Conticini (sotto inchiesta a Firenze per riciclaggio e mittente del documento) e il lobbista Patrizio Donnini (indagato nel procedimento Open per corruzione e altri reati) inizieranno a contattare dopo che il consiglio della fondazione Big bang (la mamma di Open) aveva deliberato di «inviare ai parlamentari eletti nel Partito democratico che si richiamano alle posizioni politiche di Matteo Renzi una lettera per invitarli a fornire il loro supporto concreto alle iniziative della Fondazione».
C’è infine la vexata quaestio della natura della fondazione Open, in particolare se sia, un’«articolazione di partito» ai sensi dell’articolo 7 della legge 195/74 sul finanziamento illecito oppure una comune e ordinaria associazione non riconosciuta che non svolge attività politica. Tale ulteriore sforzo è stato richiesto al Tribunale del riesame di Firenze dalla Corte di cassazione che ha, per la seconda volta, annullato il decreto di perquisizione e sequestro emesso dai pm di Firenze dopo l’impugnazione, prima al Riesame e poi in Cassazione, da parte di Carrai che, con il proprio legale, ha invece sostenuto l’erroneità dell’estensione della norma a fattispecie da essa espressamente non contemplate (anche perché le fondazioni legate alla politica sono un’«invenzione» abbastanza recente, conseguenza più o meno indiretta dell’abolizione del finanziamento pubblico). La Cassazione ha, infatti, preteso argomenti e prove che dimostrino «una concreta simbiosi operativa tale per cui la struttura esterna (Open, ndr) possa dirsi inserita sostanzialmente nell’azione del partito o dei suoi esponenti in modo che i finanziamenti ad essa destinati abbiano per ciò stesso un’univoca destinazione al servizio del partito».
Il Riesame con l’ordinanza del 21 settembre 2021, lunga cinquanta pagine, si è sforzato di dimostrare la sussistenza di tale «simbiosi» più che con il Partito democratico con la corrente renziana di esso, fungendo, la fondazione Open, a giudizio del Tribunale da «cassa spese» del «raggruppamento politico facente capo a Matteo Renzi», in assenza di altra concreta operatività in diversa direzione. Il Riesame ha concluso che la totalità delle uscite finanziarie della fondazione fosse destinata a promuovere l’attività politica di quel gruppo e ha rinvenuto poi nel finanziamento occulto erogato dal «gruppo Toto» l’ennesimo elemento caratteristico preteso dalla Cassazione, secondo la quale il finanziamento illecito dovrebbe essere «occultato dall’utilizzo di uno schermo intermedio destinato a consentire l’ulteriore passaggio verso il partito». Va detto che questo ulteriore requisito richiesto dalla Corte suprema non è tuttavia previsto dalla norma sul finanziamento illecito e porterebbe all’illogica conseguenza che l’erogazione non registrata dal donatore, laddove fosse diretta e non schermata, non sarebbe punibile benché chiaramente fuorilegge in base alla norma.
L’avvocato di Carrai, Massimo Dinoia, ha presentato il terzo ricorso. In caso di vittoria la parte dell’inchiesta sul finanziamento illecito cadrebbe definitivamente (in questo filone sono indagati Renzi, Carrai e Maria Elena Boschi), mentre il procedimento andrebbe avanti contro Lotti, Bianchi, Donnini e gli altri indagati accusati, a vario titolo, di corruzione, autoriciclaggio e traffico di influenze.