2019-02-07
«La Tav e il voto sul processo a Salvini rischiano di far cadere il governo»
www.laverita.info
Rombano i trattori e marciano di nuovo su Bruxelles dove l’Italia già ieri si è fatta sentire ieri con il ministro per le risorse agricole e la sovranità alimentare Francesco Lollobrigida. Il ministro nel corso di Agrifish – è la riunione dei responsabili politici del settore agricoltura dei 27 – insieme con il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e l’amministratore delegato di Filiera Italia Luigi Scordamaglia ha presentato alla Commissione la candidatura ufficiale dell’Italia per ospitare l’autorità doganale e di controllo dell’Ue, che dovrà essere basata a Roma.
La ragione? Molto semplice. L’ha spiegata Vincenzo Gesmundo, segretario generale della Coldiretti che dall’assemblea d’autunno della prima organizzazione agricola italiana (oltre 1,6 milioni di imprese associate) ha lanciato due messaggi; basta con le politiche di Bruxelles che penalizzano l’agricoltura, basta con le frontiere colabrodo. «Occorre arrivare a un sistema di controllo che copra il 100% dei prodotti, concentrandosi in particolare sulle filiere che risultano già compromesse all’origine. Non è accettabile che l’agricoltura con il maggior tasso di distintività e potenziale venga continuamente esposta ad attacchi che ne mettono a rischio il valore» ha messo in rilievo Gesmundo, ricordando che solo il 3% delle merci che passano la dogana a Rotterdam, principale porto di sbarco delle importazioni agroalimentari d’Europa, subisce controlli.
Gesmundo ha lanciato anche un altro ammonimento che poggia su un sondaggio che mette sul banco degli accusati Ursula von der Leyen e l’Ue: «Serve», ha scandito, «un disordine virtuoso per trarne un nuovo ordine a partire dalla mobilitazione del 18 dicembre a Bruxelles, che vedrà la partecipazione di migliaia di agricoltori Coldiretti insieme a quelli da tutta Europa. Sarà solo l’inizio, saremo rumorosi». Ettore Prandini, che di Coldiretti è il presidente, ha aggiunto. «Non si possono imporre regole stringenti ai nostri produttori e poi spalancare le frontiere a chi produce senza rispettarle. È inaccettabile, se si confronta la mole di verifiche cui sono sottoposte le nostre aziende con la leggerezza riservata alle merci provenienti dall’estero. La mancanza di reciprocità delle regole finisce per mettere in ginocchio il made in Italy a tavola, con effetti rischiosi anche per la salute dei cittadini». Nel mirino ci sono le politiche con cui la leadership europea affronta oggi temi come innovazione, sicurezza alimentare, agricoltura e democrazia e una forte opposizione alle idee di Mario Draghi e associati che vogliono togliere il voto all’unanimità in Europa facendo venire meno il «principio di precauzione indispensabile».
A provarlo ci sono le cifre. La Coldiretti ha chiesto al Censis un sondaggio sul rapporto degli italiani con l’Ue. Per il 70% degli intervistati «le politiche della Commissione Von der Leyen sono lontane dagli interessi dei cittadini e delle imprese». Due su tre ritengono che «le élite decisionali sono poco trasparenti e lontane dal confronto democratico» e con la stessa percentuale sono convinti che «la tecnocrazia prevalga sul Parlamento europeo». Ancora più ampia la bocciatura dei tagli alla Pac visto che il 76% degli intervistati si dichiara «contrario ai tagli ai fondi agricoli e di welfare per destinarli al rafforzamento militare».
Un via libera alla manifestazione del 18 dicembre che coinciderà - lo ha annunciato il ministro per gli affari europei Tommaso Foti - «con la discussione del Mercosur nel Consiglio europeo. Su questo», ha spiegato il ministro, «manteniamo la nostra riserva rispetto alla reciprocità delle norme, come abbiamo già ribadito il no ai tagli della Pac; è una posizione che ripeterò al Consiglio Affari Generali a Bruxelles, dove sarà ancora in esame la bozza del quadro finanziario pluriennale».
Ce n’è abbastanza per riaccendere i trattori. Lo ha fatto capire Francesco Lollobrigida che, incassato il successo della dichiarazione Unesco della cucina italiana quale patrimonio immateriale dell’umanità, ora insiste per una maggiore tutela dei prodotti del made in Italy. Lollobrigida ha specificato che i dazi Usa non fanno bene, ma non hanno creato - almeno nell’agroalimentare - i disastri che si paventavano. E poi ha aggiunto che oggi semmai la sfida è far cambiare idea a una Commissione che sull’agricoltura e sulla necessità di assicurare la sovranità alimentare all’Europa non fa scelte corrette. «Non si può farsi invadere, in nome della solidarietà, da riso proveniente da Cambogia e Birmania, applicando dazi zero per aiutare la loro agricoltura. E del pari», sostiene sempre Lollobrigida, «devono esser contrastati i cattivi maestri che cominciano a dire che la Cina è un esempio di efficienza; bisogna rispondere: vai tu a vivere in un luogo dove le persone non godono delle libertà e della democrazia di cui godiamo noi». Da qui la richiesta sì di ricontrattare i dazi con gli Usa, ma di non sbagliare obbiettivo. Perciò il ministro dice degli agricoltori: «Fanno bene a manifestare, manifestano per l’Europa, non contro l’Europa».
Includere escludendo, il club degli intelligenti per decreto è sempre un giro avanti anche sul Natale. Dopo avere trasformato i pastori in migranti, i re Magi in attivisti pro Pal, la Madonna in una peripatetica, San Giuseppe in una drag queen e la stella cometa in un razzo su Gaza, non restava che cancellare Gesù Bambino. In attesa di farlo dal presepe, a Reggio Emilia lo hanno espulso dal canto più amato dai bimbi, Jingle Bells. Una deportazione canora in piena regola, messa a punto dai parolieri della scuola primaria San Giovanni Bosco (istituto comprensivo Ligabue) che hanno deciso l’epurazione religiosa dalla versione italiana per il consueto motivo peloso: non urtare la suscettibilità dei musulmani. I quali, peraltro, da anni vedono in questa gratuita sottomissione culturale uno dei segnali più evidenti della degenerazione dei valori occidentali.
Il laicismo intrinseco della canzone americana - nata nel New England per celebrare la festa del ringraziamento fra cavalli, slitte e campanelli - non bastava a soddisfare il fanatismo anticlericale progressista. Nel testo italiano c’è quel nome, Gesù, che in vista della recita di Natale infastidiva a pelle gli ayatollah del woke. Nessun problema, i Mogol da scuola elementare hanno cambiato due strofe. Invece di «Aspettando quei doni che regala il buon Gesù» ecco «Aspettano la pace e la chiedono di più». E ancora «Oggi è nato il buon Gesù» diventa «Oggi è festa ancor di più». Il Dio cristiano è sparito dai radar e le nuove rime somigliano a un’omelia del cardinal Matteo Zuppi.
Tutti contenti in collegio docenti, soprattutto la preside Francesca Spadoni che ai genitori perplessi si è limitata a dire: «Jingle Bells, canto laico e folcloristico, esiste in molteplici versioni. Il team docente, nell’esercizio della propria libertà d’insegnamento, ha semplicemente scelto una versione in linea con i suoi obiettivi pedagogici e didattici». Se valesse il principio, sarebbe interessante leggere la sua versione onirica della Divina Commedia o del 5 Maggio del Manzoni. Del resto, se Dio è morto (Friedrich Nietzsche) non si capisce perché debba resistere quel neonato nella mangiatoia. Poiché siamo a Reggio Emilia, farebbero prima a metterci la benemerita Francesca Albanese con il pugno chiuso, e come nenia utilizzare gli sfottò della medesima al sindaco Marco Massari.
Il Pd locale gongola. Non gli restava che cancellare Gesù Bambino dai canti di Natale, terremotare i simboli della cristianità. Il consigliere comunale dem Federico Macchi ha parlato per tutti con prosopopea da Luciano Canfora: «La scuola, che peraltro è laica, deve educare e nel testo proposto ai bambini (in particolare dove al posto dell’attesa dei doni si è sostituita l’attesa di pace) colgo proprio un meritorio invito a riflettere sui valori universali di convivenza, solidarietà e pace, temi che sempre dovrebbero caratterizzare la missione educativa dei nostri istituti». Già, perché Jingle Bells (titolo italiano Din don dan) è una pericolosa canzone bellicista.
L’annullamento culturale in nome di un’inclusione superficiale e sgangherata non ha nulla a che vedere con il libero arbitrio di uno Stato, ma fa parte dello sciocchezzaio progressista al quale si accodano timidi cattodem avvolti nei sensi di colpa. In questo caso il partito di maggioranza si sentiva in dovere di assecondare le richieste dell’assessora alle Politiche educative con delega alla Scuola dell’obbligo, Marwa Mahmoud (musulmana di origine egiziana), che un mese fa aveva catechizzato gli insegnanti invitandoli a «decolonizzare lo sguardo» e a promuovere «una formazione continua per superare approcci coloniali verso gli studenti». Detto fatto. Sbianchettare Gesù Bambino da Jingle Bells in italiano è il nobile risultato, ottenuto applicando il vecchio principio comunista «eliminarne uno per educarne cento».
L’iniziativa sta provocando inevitabili polemiche. Il capogruppo della Lega di Reggio Emilia, Alessandro Rinaldi, ha alzato il volume della radio: «Censurare Gesù dalle canzoni di Natale nelle scuole in nome dell’inclusione è una deriva inaccettabile. Una scelta sbagliata, ideologica e profondamente diseducativa. Il Natale ha un’identità chiara: è una festa cristiana». Il segretario provinciale di Fdi, Alessandro Aragona, definisce l’episodio «atto di autolesionismo culturale, la prova di una deriva ideologica della sinistra che mira a cancellare le radici storiche e della civiltà europea».
Il dossier è sulla scrivania del ministro Giuseppe Valditara, che potrebbe decidere di inviare gli ispettori per chiarire le responsabilità. Ma la reazione ministeriale sarebbe sproporzionata, addirittura superflua. In questi casi dovrebbero essere i genitori a prendere le distanze dal ridicolo. Anche perché la sacra famiglia, pur strapazzata dalla superficialità di chi pretende di includere escludendo 2.000 anni di cristianesimo, continua a parlarci. E giudica chi la sta violentando.
È ufficiale: Maurizio Landini, ossia colui che da tempo prova a paralizzare l’Italia rivendicando fantasiose scelte di politica economica, parla di tasse e redditi senza sapere nulla di tasse e redditi.
Pur di giustificare l’ennesima manifestazione a ridosso del fine settimana (senza weekend i cortei andrebbero deserti), in un’intervista concessa a Repubblica il segretario della Cgil spiega le ragioni dello sciopero di oggi con una serie di balle, inventando di sana pianta numeri a sostegno delle sue tesi. Cominciamo dalla magica soluzione con cui lui risolverebbe il problema delle risorse finanziarie per aumentare i redditi di lavoratori e pensionati. L’idea è la solita vecchia trovata della patrimoniale, che però Landini non applicherebbe sulla proprietà, ma sui redditi. «Chiediamo al governo di introdurre un contributo di solidarietà (meglio non chiamarla tassa, è poco carino, ndr) dell’1,3 per cento su 500.000 italiani con redditi netti annui sopra i due milioni: vale 26 miliardi».
Immagino che il segretario della Cgil abbia fatto i conti prevedendo redditi lordi intorno ai quattro milioni, perché un prelievo dell’1,3 per cento su redditi netti da due milioni applicato a 500.000 italiani dà esattamente la metà di quel che stima Landini. Ma il tema non è se il leader del principale sindacato abbia calcolato il contributo di solidarietà al netto o al lordo dello stipendio. Il problema è che in Italia non esistono 500.000 italiani che percepiscano né due né quattro milioni l’anno. Non so chi abbia raccontato questa balla al segretario, ma basta consultare le tabelle ministeriali per fasce di contribuenti per scoprire che nel nostro Paese a dichiarare più di 300.000 euro lordi (ossia meno di un decimo di quanto Landini vorrebbe tassare) sono 59.533 italiani, ovvero all’incirca un ottavo dei 500.000 a cui il leader Cgil vorrebbe prelevare l’1,3 per cento. Le statistiche del ministero non rivelano quanti siano i contribuenti che percepiscono quattro milioni lordi l’anno, ma basta girare la domanda a Chatgpt per vedersi rispondere che la fascia di chi si mette in tasca ogni anno due milioni netti è «una sottoclasse molto piccola di quella già piccolissima dei redditi molto elevati». Vado al sodo: se gli italiani che guadagnano 300.000 euro lordi sono meno di 60.000, a incassare quattro milioni saranno, forse, centinaia di persone. Dunque, la mirabolante soluzione di Landini è una «supercazzola» che, se introdotta, sarebbe un super flop, perché non porterebbe mai agli introiti da lui immaginati.
Ma Landini inanella anche altre sciocchezze degne di nota. Innanzitutto intima al governo di restituire 25 miliardi di tasse pagate da 38 milioni di lavoratori negli ultimi tre anni (guarda caso sono proprio gli anni in cui governa Giorgia Meloni: si vede che prima, pensionati e lavoratori non erano soggetti a scippi). Come spiega spesso numeri alla mano Alberto Brambilla, fondatore di «Itinerari previdenziali», centro di ricerca che si occupa di pensioni e redditi, il 43 per cento degli italiani non paga l’Irpef e il 12 per cento versa 26 euro. Dunque, dove stanno questi 38 milioni (i contribuenti in Italia sono 42 milioni) a cui sono stati scippati 25 miliardi? Nella fantasia del segretario. Il quale parla degli effetti del drenaggio fiscale, ma, come ha ben spiegato giorni fa il nostro Giuseppe Liturri, una recente ricerca della Bce ha dimostrato come le riforme fiscali del 2022-2023, unitamente alla riduzione dei contributi sociali, hanno quasi completamente azzerato il prelievo fiscale sui salari che viene applicato per effetto dell’aumento delle retribuzioni, con l’applicazione di aliquote più elevate. Anche qui lo dicono i numeri, quindi le decine di miliardi che sarebbero state sottratte a pensionati e lavoratori e di cui Landini chiede la restituzione sono un’altra super balla, perché dal 2022 l’aumento dei salari reali ha superato l’inflazione cumulata nello stesso periodo. Insomma, niente di quel che il segretario rivendica corrisponde al vero. Dunque, perché cerca di trascinare in piazza pensionati e lavoratori? Per difendere il suo salario prossimo venturo. Cioè per garantirsi una rendita di posizione quando non sarà più alla guida della Cgil.
Passi per l’opposizione puramente politica al centrodestra, che con diverse tonalità di rosso è sempre stata (purtroppo) un tratto distintivo della Cgil. Si può soprassedere pure sull’uso improprio di uno strumento di protesta che andrebbe centellinato come quello dello sciopero. E al limite viene scusato persino l’isolamento del sindacato di Corso d’Italia da Cisl e Uil, anche se l’ultima separazione, quella da Bombardieri, ha fatto storcere il naso a una buona parte dei dirigenti e della base cigiellina. Ma quello che davvero non va giù sul territorio e nei settori più riformisti del sindacato è la mancata presa di distanza dai fatti di Genova.
L’aggressione denunciata dai colleghi della Uilm che sono stati rincorsi e presi a calci e pugni da una ventina di pseudo-compagni con le felpe della Fiom andava condannata. Sarebbe bastato scusarsi, per un episodio rispetto al quale evidentemente Landini non ha nessuna responsabilità diretta, e il fuoco si sarebbe spento lì. Invece l’ex leader dei metalmeccanici ha preferito fare spallucce. Nessuna presa di posizione sul momento e nessuna dichiarazione di solidarietà nemmeno quando i soliti giornali del gruppo Gedi (prima La Stampa e poi La Repubblica) gli hanno concesso a stretto giro una doppia paginata per pubblicizzare lo sciopero di oggi. Ancora di venerdì. Ancora per andare addosso al governo. Ancora contro la manovra.
Per qualcuno la misura era colma da prima, per molti lo è diventata dopo i fatti che hanno segnato la vertenza sull’ex Ilva in Liguria. Per le federazioni che puntano sul dialogo e sulla necessità di portare a casa dei risultati per iscritti e lavoratori, la linea Landini è sempre stata indigesta, ma adesso non se ne può più. Si parte dalle telecomunicazioni per arrivare fino ai chimici, al tessile e ai trasporti, per non parlare di alcune Camere del Lavoro (Milano su tutte) e delle Poste. Tra i dirigenti di fascia alta di diverse categorie è iniziato un dialogo per capire cosa fare. Per evitare una deriva che al momento non conosce limiti. E da questo punto di vista lo sciopero di oggi sarà una cartina di tornasole.
Secondo molti è inutile, secondo altri andava accorpato con la protesta degli autonomi del 28. Sta di fatto che se dovessimo trovarci di fronte all’ennesimo flop e all’ennesima giornata di lavora persa in assenza di risultati concreti, quelle che al momento sono dei discorsi carbonari potrebbe trovare manifestazione pubblica. E nessuna ipotesi sarebbe esclusa. Soprattutto se i pensionati, che rappresentano da sempre una sorta di sindacato nel sindacato rosso dovessero propendere per lo strappo. A quel punto il rischio di messa in discussione della posizione del capo, diciamo pure, dell’esternazione di una linea alternativa, diventerebbe concreto.
Intendiamoci, la storia della Cgil parla di altro. Parla di compagni che difficilmente mollano il Lider Maximo, ma mai come in questo momento si sta formando una saldatura di insoddisfazione che tocca varie anime del sindacato. Anche il pubblico impiego. Che prima si è affidato alla opposizione senza se e senza ma al rinnovo dei contratti e poi si è ritrovata con il cerino in mano. Mollati dalla Uil e isolati sul fronte del no mentre tutti gli accordi venivano firmati. Cisl e Uil si sono potuti rivendere di aver ottenuto un incremento di 170 euro lordi per le buste paga di circa 3 milioni di lavoratori, e la Cgil? Oppure le Poste. Da sempre un feudo della Cisl, ma rispetto alle quali in questo momento Landini & C. sono completamente tagliati fuori da qualsiasi tavolo. E anche sulla manovra. Il compagno Maurizio chiama i suoi all’ennesimo sciopero in solitaria, mentre Daniela Fumarola (Cisl) può dire di aver avuto un’importante voce in capitolo su quasi tutti i dossier legati ai salari (riforma dell’Irpef in primis) della legge di bilancio e Bombardieri rivendicare che la detassazione degli aumenti contrattuali che «dà risposta a quattro milioni persone» è una misura che stava particolarmente a cuore alla Uil.
Il no a prescindere paga? In molti all’interno dello stesso sindacato rosso da tempo pensano di no e adesso potrebbero passare dalla critica celata all’azione: basta isolarsi, riprendiamo l’obiettivo dell’unità sindacale e pensiamo a rinnovare contratti e firmare accordi. Soprattutto in caso di altri altri passi falsi o azzardati di Landini. A partire appunto dai risultati dello sciopero e anche da quelli del referendum sulla riforma della Giustizia, con la Cgil che è pronta a fare da traino di un comitato ad hoc.
Il segretario ne è consapevole e sta serrando i ranghi. Ancora non è stato ufficializzato, ma la decisione di cambiare il numero due è presa.
Da un bel po’ di settimane ormai, Landini ha comunicato al segretario organizzativo, Luigi Giove, che le sue deleghe sarebbero passate a Pino Gesmundo.
Un fulmine a ciel sereno per chi dopo aver appoggiato il leader nella battaglia elettorale ed essere stato sempre fedele alle posizioni del capo si sarebbe aspettato tutt’altro trattamento.
Ma evidentemente al compagno Maurizio oggi serve qualcosa in più. E anche questo è un chiaro segnale di difficoltà per l’uomo che sognava di guidare una sorta di terzo polo rosso e adesso si ritrova con mezzo sindacato che non vede l’ora di non averlo più tra i piedi.
