Il mercato dei missili cresce. «Si vis pacem, para bellum». Se vuoi la pace, prepara la guerra: il motto è vecchio ma molto utile con la differenza che oggi sempre più le piattaforme di difesa missilistica trovano nuova vita grazie ai programmi congiunti tra mare, cielo e terra. E il business si sviluppa su un piano tridimensionale. Cartina al tornasole è l'andamento dei conti di Mbda, azienda europea di missili e sistemi missilistici, partecipata al 25% da Leonardo. Il gruppo ha chiuso il 2017 con 4,2 miliardi di euro di nuovi ordini e ricavi per 3,1 miliardi di euro. Con un trend in forte crescita che dura ormai da cinque anni.
Il mercato dei missili cresce. «Si vis pacem, para bellum». Se vuoi la pace, prepara la guerra: il motto è vecchio ma molto utile con la differenza che oggi sempre più le piattaforme di difesa missilistica trovano nuova vita grazie ai programmi congiunti tra mare, cielo e terra. E il business si sviluppa su un piano tridimensionale. Cartina al tornasole è l'andamento dei conti di Mbda, azienda europea di missili e sistemi missilistici, partecipata al 25% da Leonardo. Il gruppo ha chiuso il 2017 con 4,2 miliardi di euro di nuovi ordini e ricavi per 3,1 miliardi di euro. Con un trend in forte crescita che dura ormai da cinque anni. Nel 2017 l'azienda ha anche portato a casa un portafoglio complessivo di 16,8 miliardi di euro. Conseguenza diretta nuove assunzioni in Europa e pure in Italia: 1.200 complessivi di cui 120 negli stabilimenti lungo la Penisola. «Il nostro sviluppo si basa su tre pilastri», spiega Antoine Bouvier, amministratore delegato del gruppo, «il primo è il mercato domestico, quello italiano, tedesco, francese e inglese. Il nostro obiettivo è sviluppare per ogni singolo Paese sistemi su misure in accordo con le necessità nazionali. Ogni progetto presentato da Mbda in Francia è stato confermato. Lo stesso vale per altri programmi nelle differenti nazioni». Il secondo pilastro è promuovere e sviluppare progetti trasversali legati al gruppo e quindi legati a sistemi bilaterali o multilaterali all'interno dell'Unione europea. «Credo che nessun altro sia in grado di implementare progetti con tale logica», prosegue Bouvier, riferendosi a joint venture tra Italia e Spagna, tra Italia, Uk e Polonia, ma anche Francia e Germania. Si tratta di iniziative partite da Mbda che hanno finito con il coinvolgere anche il sostegno delle controparti governative a livello bilaterale. Almeno 25 Paesi dell'Ue hanno aderito all'iniziativa di cooperazione strutturata permanente (Pesco) che dovrebbe facilitare il lancio di programmi di collaborazione. In questo contesto, Mbda ha preso parte al primo programma di ricerca in tema di difesa (progetto Ocean 2020) finanziato dal nuovo fondo europeo per la difesa, che ha lo scopo di esaminare le future tecnologie di sorveglianza e di interdizione marittima. Inoltre, nel 2017 sono stati portati avanti numerosi progetti di cooperazione tra Londra e gli altri mercati europei coperti da Mbda come ad esempio l'armamento dei velivoli Typhoon con la Germania, la difesa terra-aria con l'Italia e la difesa aerea locale per le fregate F110 con la Spagna. Sul piano delle singole nazioni, il 2017 è stato caratterizzato in Francia dalle prime consegne dei missili da crociera navali e dei missili a media portata per il campo di battaglia. In Gran Bretagna, dall'ordine per ulteriori missili Meteor per proseguire le attività di integrazione sul caccia F 35. In Germania, dall'apertura formale delle negoziazioni per il programma di difesa antiaerea e anti-missile Tlvs; infine, in Italia, dalla scelta del missile Camm-er per la sostituzione dell'Aspide nel sistema nazionale di difesa antiaerea. Sul fronte della cooperazione in Europa, Francia e Uk hanno dato il via alla concept phase del programma del Futuro missile anti nave da crociere, con l'obiettivo di preparare il lancio dei missili Scalp. INFOGRAFICA!function(e,t,n,s){var i="InfogramEmbeds",o=e.getElementsByTagName(t)[0],d=/^http:/.test(e.location)?"http:":"https:";if(/^\/{2}/.test(s)&&(s=d+s),window[i]&&window[i].initialized)window[i].process&&window[i].process();else if(!e.getElementById(n)){var a=e.createElement(t);a.async=1,a.id=n,a.src=s,o.parentNode.insertBefore(a,o)}}(document,"script","infogram-async","https://e.infogram.com/js/dist/embed-loader-min.js"); «Il terzo pilastro è infine basato sull'export al di fuori dell'Europa», prosegue Bouvier, «che per noi deve valere almeno il 50% del giro d'affari». L'anno scorso gli ordini per l'export anno consentito di raggiungere ricavi per 2,6 miliardi, un miliardo in più rispetto al fatturato domestico. Nel paniere sono finiti il sistema di difesa costiero Mcds preso dal Qatar e l'armamento delle corvette realizzate da Fincantieri, ma non tengono conto dell'armamento per gli Eurofighter, il cui contratto sarà operativo nel 2018. Vanno aggiunti anche gli acquisti dell'Egitto, del Cile e degli Emirati arabi uniti. Per quanto riguarda il sistema Camm-er che ha subito uno stand by temporaneo nell'ultima manovra e che attende il prossimo governo per l'avvio della parte operativa. «Facciamo conto di proiettare lo stesso sistema anche su altri mercati», commenta Pasquale di Bartolomeo, direttore generale per l'Italia e responsabile vendite del gruppo, «per spingere il piede sulla flessibilità della nostra offerta così come per offrire all'Italia con un solo programma il corto e il medio raggio per la difesa dei perimetri». Mbda infine si frega le mani attendendo l'integrazione tra Fincantieri e la francese Stx. Quando diventerà operativa il gruppo missilistico si troverà come interlocutore naturale di tutti i progetti congiunti. Il panorama della difesa europea è sempre più complesso e intrecciato. Di certo il valore aggiunto (vale per i missili come per l'elettronica) diventa ogni giorno di più una leva fondamentale. Abbiamo dubbi sul fatto che Leonardo potrà avere voce in capitolo sugli accordi con Stx, ma almeno potrà rientrare dalla porta dei missili. Un vantaggio. Viene da dire per fortuna che l'ex numero uno di viale Montegrappa, Mauro Moretti, alla fine non ha venduto la quota in Mbda.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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Fabio Giulianelli (Getty Images)
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