Chissà in quanti ricordano Comunardo Niccolai, difensore del Cagliari campione d'Italia nel 1970 che viene ingiustamente ricordato per le sue autoreti, poche ma decisive. L'analisi del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza licenziato dal cdm di martedì sera sembra la replica di almeno due di quelle clamorose autoreti. La prima è la candida ammissione di un percorso di austerità che supera le più pessimistiche previsioni, la seconda è la rappresentazione parziale del nostro saldo con la Ue che costituisce un assist per la sua ricostruzione integrale e fornisce un saldo finale negativo per l'Italia. Evidentemente i ministri Roberto Gualtieri, Vincenzo Amendola e Giuseppe Provenzano ci tenevano a fare bella figura come assist-men, però nella propria porta.
Sorvoliamo rapidamente sulla moltiplicazione dei pani e dei pesci costituita dai 310 miliardi di investimenti ora previsti dal Pnrr. I tre ministri, sono partiti dai 209 miliardi del Next generation Ue e hanno aggiunto un cuscinetto di sicurezza di 13 miliardi di ulteriori investimenti nel timore che la Commissione (come già avvenuto con il patent box, risparmio fiscale per le imprese che posseggono brevetti e know how) possa tagliare qualcosa. E siamo a 222 miliardi. Poi, non paghi, hanno pure aggiunto altri investimenti già previsti dal prossimo quadro finanziario pluriennale (Qfp) della Ue 2021-2027 per circa 88 miliardi, e siamo così a 310 miliardi. Ma quanti sono gli investimenti aggiuntivi, quelli cioè che non abbiamo già inserito nei saldi di finanza pubblica e quindi decisivi per capire la crescita aggiuntiva che ne deriverà? Meno della metà: 144 miliardi.
Ma perché questa autolimitazione? Il governo non avrebbe potuto sfruttare tutti i 127 miliardi di prestiti Ue per investimenti aggiuntivi, come chiesto da Matteo Renzi? E qui viene il «non possumus» dettato da Bruxelles. Non si può fare troppo debito, oltre quello già programmato. Il grafico in pagina mostra il sentiero di riduzione del debito/Pil già previsto dalla Nadef, confermato nel Documento programmatico di bilancio (Dpb) inviato alla Commissione a ottobre e che campeggia a pagina 34 del Pnrr. In esso si prevede che il debito/Pil scenda dal 158% del 2020 al 133% del 2031. Si ottiene tale risultato ricominciando a fare avanzo primario dal 2023 (0,1% del Pil) e proseguendo fino al 2026 (2,5% del Pil), dopodiché si mantiene tale saldo fino al 2031. Per avere un'idea della gravità del problema e della insostenibilità della promessa che stiamo facendo alla Ue, con il governo del senatore Mario Monti l'Italia conseguì un saldo primario del 2,3% nel 2012 e, da allora fino al 2019, è sempre stato stabilmente tra 1,5% e 1,8%. Non ha funzionato allora e non potrà funzionare nemmeno in futuro, come sostenuto da tanti economisti. Ma il governo è stato costretto a impegnarsi perché l'articolo 15 del regolamento Rrf (Recovery and resilience facility) richiede esplicitamente che il governo illustri nel piano come intende conseguire gli obiettivi di finanza pubblica previsti dal semestre europeo e, a scanso di equivoci, nel Pnrr si dichiara che, per conseguire quella riduzione di debito/Pil, si richiede che «la spesa corrente e le entrate siano programmate in chiave prudenziale onde assicurare un significativo avanzo del saldo primario di bilancio». Da notare che nella Nadef erano indicati due sentieri di riduzione del debito/Pil, Gualtieri ha scelto di «omaggiare» la Commissione con quello più ripido.
Ma la volontà di gonfiare gli importi, ammaliando gli italiani, ha giocato un brutto scherzo al governo. Infatti, il Pnrr riporta che il Qfp per complessivi 1.085 miliardi in sette anni determinerà entrate per l'Italia pari a 99 miliardi. Peccato che sia stata dimenticata la colonna delle uscite che viene fornita sul piatto d'argento dall'articolo 21 del decreto legge Milleproroghe, con il quale si «dà esecuzione» all'importantissima Decisione sulle risorse proprie. Cioè quanti soldi verseremo al bilancio Ue per coprire i 1.085 miliardi. Al di là dello stupore per l'approvazione di un simile provvedimento nascosta tra le pieghe di un decreto nella notte di Capodanno, qui rileva il fatto che l'Italia contribuirà a esso per l'1,4% del reddito nazionale lordo, cioè per una quota annua oscillante tra 21 e 23 miliardi, da cui la nostra stima di 150 miliardi nel settennio. Il saldo netto negativo per noi dovrebbe essere pari a circa 50 miliardi. Un dato tutto sommato coerente con il saldo negativo di 37 miliardi del precedente settennio, che non può che peggiorare a causa della Brexit e dell'aumento del bilancio e del conseguente aumento (dal 11% al 13% circa) dell'incidenza del nostro reddito nazionale su quello Ue.
Stesso ragionamento per i contributi al Ngeu: mentre i prestiti saranno rimborsati dai rispettivi Stati membri debitori, i bond emessi per finanziare i 390 miliardi di sussidi dovranno essere rimborsati a carico del bilancio Ue, le cui entrate potranno aumentare fino al 2% del reddito nazionale. È ragionevole ipotizzare che l'Italia versi, in proporzione al reddito, circa 50 miliardi, portando il saldo netto positivo del Ngeu a 31 miliardi. Per ottenere un saldo netto finale di -21 miliardi. Ma ne vale la pena?