Ieri è stata l’ennesima «giornata decisiva» per l’esame parlamentare del disegno di legge sulla riforma del Mes. Tanto decisiva che l’esame è stato posticipato alla prossima settimana, come accaduto già altre due volte, da quando (fine giugno) è all’esame della Camera.
Intanto non si placa l’eco del duro attacco del Presidente Giorgia Meloni a Giuseppe Conte, presidente del Consiglio all’epoca dei fatti, a proposito dell’ormai famosa firma apposta il 27 gennaio 2021 sul testo riformato da parte dell’ambasciatore plenipotenziario presso la Ue, Maurizio Massari, su richiesta del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Avvenuta «col favore delle tenebre» e senza mandato parlamentare, secondo la Meloni.
Ma la vicenda della data della firma - che in sé non ha effetto vincolante ed ha l’unico scopo di sigillare il contenuto del testo alla fine della fase negoziale di un Trattato, per poi far partire la fase di ratifica - cede il passo al costante e pervicace aggiramento, se non proprio tradimento, della volontà parlamentare durante tutta la fase negoziale. In sostanza, lungo tutta la precedente legislatura (XVIII), le linee di indirizzo del Parlamento non sono state pienamente rispettate né dal ministro Giovanni Tria e né, soprattutto, dal successore Roberto Gualtieri.
Ci sono infatti ben tre risoluzioni parlamentari (giugno e dicembre 2019 e dicembre 2020) che hanno preceduto altrettante riunioni del Consiglio europeo, in cui, sia pure con toni via via più sfumati, il Parlamento aveva indicato che la riforma del Mes doveva inquadrarsi in una logica di pacchetto con riforma del Patto di stabilità e completamento dell’Unione bancaria. Quindi il negoziato non poteva dirsi concluso se non al momento della definizione congiunta di un accordo su tutti i temi. Cos’era la «logica di pacchetto» se non un accordo onnicomprensivo, in cui magari si compensavano vantaggi e svantaggi di ogni dossier?
Invece ieri abbiamo letto di tutto. C’è qualche «professore di mandolino» che ha sventolato la risoluzione del 9 dicembre 2020, spacciandola come atto con cui il Parlamento «ha votato a favore del Mes». Falso. Quella risoluzione era un atto di indirizzo politico per l’imminente Eurosummit, non una norma di legge. Un atto complesso, che bisogna leggere per intero, non solo stralciando due righe in modo strumentale. E, con riferimento all’Eurosummit, vi si legge certamente che «si impegna il Governo a finalizzare l’accordo politico... sulla riforma del Mes». Ma non è l’unico impegno. C’è quello «a sostenere la profonda modifica del Patto di stabilità, la realizzazione dell’Edis (assicurazione dei depositi bancari), il superamento del Mes». Seguito da un clamoroso assist anche all’attuale Parlamento e al governo Meloni: «Lo stato di avanzamento dei lavori su questi temi in agenda sarà verificato in vista della ratifica parlamentare della riforma del trattato del Mes».
Da cui consegue che, dato lo stato embrionale e disastroso dell’avanzamento dei lavori su quegli altri dossier, il Parlamento oggi non ha solo una ma ben tre ragioni per non procedere alla ratifica. Parola della maggioranza parlamentare della XVIII legislatura, e condizione essenziale posta all’epoca per autorizzare Conte a chiudere il negoziato sul Mes. L’assenza di risultati sugli altri dossier, era da solo, motivo ostativo per quella firma. Il pacchetto non c’era più e sul tavolo era rimasta solo la firma sul testo di una riforma che invece avrebbe dovuto restare in discussione fino alla fine.
Sorvoliamo sul fatto che già il 14 gennaio, con le dimissioni di due ministri di Italia viva, il governo fosse di fatto privo di maggioranza parlamentare. In ogni caso ci sembra davvero di poco conto il fatto che il fax sia stato inviato dalla Farnesina a Bruxelles il 20, quando il governo Conte era ancora formalmente nei pieni poteri e quindi prima delle dimissioni, formalizzate il 26 gennaio. Ricordiamo che lo stesso giorno, come da prassi ormai consolidata, Conte inviò a ministri, viceministri e sottosegretari una direttiva (atto interno non pubblicato in Gazzetta Ufficiale) che descriveva il raggio d’azione per «il disbrigo degli affari correnti». Si tratta di un perimetro d’azione non disciplinato da alcuna norma ed interpretato con una certa flessibilità dal presidente del Consiglio di turno. Quello disegnato da Conte era limitato ad assicurare la continuità amministrativa (urgenze e gestione dell’emergenza sociale e sanitaria connessa alla pandemia). Niente di più. Quindi sorgono rilevanti dubbi sul fatto che la decisione di firmare la riforma del Mes, ancorché disposta a mezzo fax il 20 gennaio, fosse un atto rientrante in quel perimetro. Le dimissioni nel frattempo intervenute avrebbero dovuto suggerire, se non imporre, al ministro Di Maio di comunicare all’ambasciatore Massari che quel mandato a firmare proveniva da un soggetto non più dotato del potere necessario. Perché ciò che conta è il momento della firma, non il momento precedente in cui è maturata quella decisione.
Ma, quand’anche quella firma fosse stata legittima in punto di diritto, come si fa a non vedere il macigno della mancanza di opportunità politica? Il 26 gennaio, la maggioranza politica che il 9 dicembre - tra contrasti e distinguo enormi, da cui partì la crisi - fornì un certo indirizzo politico, non c’era più. Rispetto per il Parlamento e prudenza avrebbero suggerito di astenersi dal compiere atti eccedenti l’ordinaria amministrazione. Se un amministratore delegato si dimette, non può chiudere le trattative per la vendita dell’azienda, anche se - previamente autorizzato dall’assemblea dei soci - ha fissato l’appuntamento prima delle dimissioni. Cancella l’agenda e si ferma in ufficio ad aprire la corrispondenza.