- La Corte d’appello dell’Aquila respinge il reclamo della famiglia e rimanda tutto al Tribunale dei minori. Lo stesso che aveva sospeso la responsabilità genitoriale.
- Parla Danila Solinas l’avvocato dei coniugi che vivevano nel bosco: «Le autorità hanno la facoltà di riunirli già ora» E sulla scuola parentale: «Chiedono solo l’applicazione di un diritto garantito dalla nostra Costituzione».
Lo speciale contiene due articoli
ll ricatto a fini rieducativi è stato legittimato. Ieri la Corte d’Appello dell’Aquila si è espressa sul reclamo presentato dagli avvocati della cosiddetta famiglia del bosco, e lo ha rigettato. Come noto, Nathan Trevallion e sua moglie Catherine sono stati privati dei loro figli un mese fa. I tre bambini sono stati portati in una casa protetta a Vasto dove possono vedere la madre negli orari dei pasti e il padre in momenti prestabiliti e per un tempo limitato. C’era la speranza che i bambini potessero rientrare in famiglia per Natale. Speranza condivisa da gran parte degli italiani e espressa sotto forma di appello da molti politici. Eppure la Corte d’appello ha respinto ogni istanza, rimandando la palla al tribunale per i minorenni dell’Aquila, cioè l’istituzione che aveva sospeso la responsabilità genitoriale a Nathan e Catherine e disposto il collocamento dei tre minori in casa famiglia.
Come spiegano i legali della famiglia, si tratta di una decisione che si potrebbe definire tecnica. La Corte era chiamata a valutare la correttezza del provvedimento con cui il Tribunale ha deciso di togliere i figli ai genitori, e ha stabilito che in quella ordinanza non c’erano errori clamorosi. Insomma, era tutto legittimo, i giudici hanno approvato le scelte dei loro colleghi. Comprensibilmente, la notizia ha suscitato risposte ardenti. «Per questi giudici una sola parola: vergogna. I bambini non sono proprietà dello Stato, i bambini devono poter vivere e crescere con l’amore di mamma e papà!», ha scritto sui social Matteo Salvini. «E così, neanche per Natale i bambini della cosiddetta famiglia nel bosco potranno tornare a casa con mamma e papà», dice il ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità Eugenia Roccella. «Di questa famiglia», prosegue il ministro, «abbiamo letto tutto e di tutto, con un’intromissione di apparati dello Stato in scelte e stili di vita che - aggiunge - ciascuno è libero di non condividere ma che ancora non si capisce cosa abbiano a che fare con una decisione, quella di separare i figli dai genitori, che dovrebbe essere assunta solo in casi estremi e di fronte a pericoli vitali». A dirla tutta, una speranza che i bambini tornino a casa per le feste esiste ancora, proprio perché in appello si doveva stabilire la correttezza dell’operato del Tribunale dei minori, il quale tuttavia ha ora la possibilità di esprimersi nuovamente e, volendo, di cambiare il giudizio sui genitori del bosco. Ma proprio qui, a ben vedere, sta il problema più grosso.
Secondo la Corte, infatti, bisogna tenere conto dei segnali di cambiamento offerti dai Trevallion, e che in effetti sono innegabili. Hanno accettato ospitalità in una nuova casa e faranno modifiche alla vecchia, si sono resi disponibili a fare entrare un insegnante della scuola pubblica in casa, hanno detto che faranno vaccinare i figli. Occorre chiedersi: perché hanno fatto tutto questo? Beh, facile: perché li hanno obbligati, hanno tolto loro i figli per costringerli a cambiare stile di vita anche se i bambini non erano maltrattati o infelici. Per la Corte di appello tutto ciò è giustificato, anche se non è mai stato nominato un mediatore famigliare, anche se non c’erano gravissimi rischi per la incolumità fisica o psichica dei piccoli. Dunque, nei fatti, la Corte ha legittimato il ricatto. Sappiamo, ora, che allontanare dei minori per rieducare una famiglia si può fare. Si può prendere per il collo i genitori e obbligarli a cambiare registro, pena la sottrazione dei minori, anche se non maltrattano o picchiano o vessano. Si possono ricattare un padre e una madre amorevoli facendo leva sul loro bene più prezioso. È un paradosso: se questi genitori non amassero i figli non sarebbero così sensibili al ricatto. Ma poiché li amano, si piegano. E si rassegnano a sperare di ottenere un po’ di pietà.
«Allontanamento non accettabile. I figli potrebbero tornare a Natale»
Avvocato Danila Solinas, come impatta la decisione della Corte d’appello dell’Aquila sulla famiglia del bosco che lei difende?
«È difficile da comprendere per i non addetti ai lavori. Ho ascoltato alcuni suoi colleghi che hanno parlato di una bocciatura del nostro reclamo. Non è assolutamente così: alla Corte d’appello si chiedeva di verificare i presupposti per l’emissione dell’ordinanza da parte del tribunale dell’Aquila».
Insomma doveva stabilire se la decisione era formalmente corretta.
«Come ho detto, doveva verificare i presupposti che dovevano sussistere nel momento in cui l’ordinanza è stata emessa. La Corte d’Appello ha il divieto di pronunciarsi su fatti nuovi. Era nient’altro che un giudizio di validazione dell’ordinanza».
Quindi la corte dice che fu giusto allontanare i bambini?
«No. Stabilisce che, in quel momento, l’ordinanza non presentava dei vizi abnormi, tali da produrre una modifica in questa fase. Non è quindi un giudizio nel merito, ma è come se fosse un giudizio - è impropria l’espressione ma vorrei che lei comprendesse - di legittimità sulla verifica dei presupposti. Dopodiché però, la Corte dice - ed è questo un elemento che per noi diventa dirimente - che i genitori hanno fatto una serie di passi in avanti: si sono adeguati a una serie di prescrizioni che sicuramente verranno valutate dal Tribunale per i minorenni, che resta l’unico organo competente a decidere sui minori».
Resta che il provvedimento di allontanamento è confermato…
«Secondo la Corte non vi erano errori macroscopici».
I giudici tuttavia notano che ci sono stati cambiamenti, e quindi esiste ancora una speranza che tornino assieme. È fiduciosa?
«Io mi limito ai fatti. Non devo avere fiducia in chi giudica, devo esigere e pretendere rispetto dell’applicazione delle norme. Sono sicura che - dinanzi a un cambiamento che è stato importante - si debba rispondere e si debba valutare positivamente quelle che sono le modifiche a un comportamento che era stato inizialmente censurato».
Quando dovrebbe decidere il Tribunale?
«Potrebbe decidere in ogni momento, da oggi in avanti. Aspettiamo che lo faccia con tempestività e che questi elementi, lungi dall’essere un espediente difensivo ma che hanno dei profili di concretezza apprezzabili da chiunque, vengano adeguatamente valutati».
Che cosa potrebbe decidere il tribunale?
«Potrebbe mantenere la responsabilità in capo ai servizi sociali e, pur tuttavia, stabilire che i genitori e i figli si ricongiungano. Quindi potrebbe essere una sorta di monitoraggio su quella che è la responsabilità genitoriale, piuttosto che prevedere che la responsabilità venga ridata in capo ai genitori nella sua interezza».
Tornare a casa significa andare nella nuova abitazione della famiglia?
«Sì, in attesa che vengano poi effettuati i lavori di adeguamento che sono stati richiesti per la loro casa».
E riguardo alla istruzione dei bambini che si farà?
«L’istruzione parentale, come ormai ripeto costantemente, è prevista dal nostro ordinamento e garantita dalla nostra Costituzione per cui non stanno inventando nulla. Vogliono avvalersi semplicemente di una possibilità, di un’eventualità, fornita dallo Stato».
Abbiamo letto che i Trevallion hanno aperto alla possibilità che un insegnante entri in casa.
«Ci può essere questa possibilità, la stiamo valutando di concerto con loro e, sicuramente, c’è un dialogo aperto anche con il sindaco. Vedremo come si evolverà, ma non c’è una preclusione».
Questo insegnante, di cui nei giorni scorsi si è molto scritto, andrebbe a integrare l’istruzione parentale?
«Sì, è un supporto, assolutamente».
Ma c’era davvero bisogno di togliere i bambini ai genitori per arrivare a questi cambiamenti? Non si poteva trattare con questa famiglia diversamente?
«Noi siamo subentrati in una fase successiva all’ordinanza, per cui tutto quello che è stato fatto prima non l’abbiamo gestito noi. Sappiamo dal carteggio processuale ciò che è stato fatto e ciò che è emerso. Di sicuro le dico che noi, se ci fossimo stati dall’inizio, avremmo specificatamente richiesto la presenza di un mediatore familiare, di un interprete, che poi ovviasse alle difficoltà che sono intercorse con gli assistenti sociali affinché ci fosse un dialogo che potesse essere costruttivo. Qui c’è un vulnus pazzesco e per me - per quanto mi riguarda è innegabile - proprio della comprensione di ciò a cui sarebbero andati incontro i Trevallion e di come invece avrebbero potuto interloquire diversamente. Per me l’allontanamento dalla casa familiare - più che per me, per la giurisprudenza di riferimento - è sempre da considerarsi l’extrema ratio, perché i minori hanno il diritto di stare, di vivere e di essere educati dai genitori».
Qui però non sembra che l’allontanamento fosse l’extrema ratio...
«Noi sosteniamo che non lo fosse, di sicuro per noi non era avallabile l’allontanamento. Abbiamo sostenuto che non fosse da approvare. Non possiamo negare però che ci siano state delle criticità in questo percorso. Ad esempio non è mai stato nominato un mediatore famigliare. Potevano nominarlo i servizi sociali».
Non sono nemmeno state fatte visite in casa da maggio a novembre, giusto?
«La collocazione temporale non gliela so indicare in questo momento perché non la ricordo, ma di certo si poteva fare molto di più. Questo posso dirlo. Si poteva e si doveva fare molto di più».
Quindi la conclusione è che esiste una speranza che possano tornare a casa per Natale?
«Di certo non è escluso. Il Tribunale ha una serie di elementi nuovi che deve valutare. E se questi elementi, come noi riteniamo, sono in linea con le prescrizioni che sono state impartite, ci aspettiamo un risultato positivo che non mi aspettavo dalla Corte d’Appello».
Per sgomberarli ci è voluto l’assalto alla redazione della Stampa. Perché, triste ma vero, è probabile che, senza l’aggressione al quotidiano diventato da qualche anno un tempietto cartaceo della sinistra italiana, i compagni di Askatasuna sarebbero ancora sereni nel loro stabile occupato a Torino. Invece hanno assaltato il giornale sbagliato, come ebbe a dire Annalisa Cuzzocrea: «Andrea Malaguti e io abbiamo fatto una prima pagina con scritto genocidio», spiegò la nota firma. «Non ci siamo preoccupati di come avrebbe reagito una parte dell’opinione pubblica. Tutto questo quei ragazzini che hanno imbrattato le sale riunioni non lo sanno… Questa è la cosa che mi ferisce di più, perché non sanno cosa hanno aggredito». Ci sono volute le parole allucinanti di Francesca Albanese che definì quell’assalto «un monito» per i giornalisti di tutta la nazione, ci è voluto il dibattito fiammeggiante sull’imam Shahin. Insomma, pare che stavolta i cari antagonisti l’abbiano fatta almeno un po’ fuori dal vaso, inimicandosi pure parte di coloro che fino all’altro giorno li difendevano.
Intendiamoci, sono anni che la destra piemontese, anche da poltrone istituzionali, chiede di mettere un freno alle intemperanze dei militanti. L’edificio in corso Regina Margherita 27 è stato occupato per la prima volta nel 1994, poi liberato spontaneamente e di nuovo rioccupato nel 1996. Da allora, gli esponenti del centro sociale hanno messo insieme un bel curriculum fatto di violazioni, violenze e altre belle cosine. L’ultimo processo è recentissimo, i componenti di Askatasuna hanno collezionato 18 condanne per danneggiamenti e violenze in Val di Susa e a Torino, con pene che vanno dai 5 mesi fino ai 4 anni e 9 mesi di reclusione. Nel 2015 erano piovute 47 condanne in area no Tav, altre 16 nel 2018. Poi ancora condanne per singoli militanti: chi si addestrava con le milizie curde, chi ha assaltato gli studenti di destra all’università e via malmenando.
Eppure, in tutti questi anni, nessuno è riuscito a far schiodare i simpatici antagonisti. Anzi, le istituzioni di sinistra li hanno protetti e coccolati fino a pochi giorni fa. Ancora ai primi di dicembre, il sindaco di Torino, Stefano Lorusso, subito dopo l’assalto alla Stampa, dichiarava: «Non ci sono i termini per l’interruzione del patto, andiamo avanti su questa strada per ripristinare la legalità». Già, il patto. Una collaborazione che il Comune progressista ha stretto con il centro sociale garantendogli di restare al suo posto.
Ieri, magicamente, il primo cittadino ha cambiato idea. Le forze dell’ordine hanno trovato sei persone nello stabile occupato, per altro in una parte considerata inagibile. «Tale situazione configura un mancato rispetto delle condizioni del patto di collaborazione che pertanto è cessato, come comunicato ai proponenti», ha spiegato Lo Russo. Ma che ci fossero occupanti si sapeva da tempo.
Il 5 dicembre, su Rai 3, la trasmissione Far West mostrò le immagini degli antagonisti presenti dentro l’edificio. «L’amministrazione comunale di Torino è stata smentita sulla televisione di Stato nazionale, che ha potuto documentare come dentro Askatasuna si rifugino ancora parecchi antagonisti, che rivendicano il centro sociale come casa loro», scrissero Maurizio Marrone e Augusta Montaruli. «Ricordiamo al sindaco che l’Asl e i vigili del fuoco hanno dichiarato quell’immobile di proprietà comunale inagibile. Si decida finalmente a stracciare il patto di collaborazione già palesemente violato, consentire lo sgombero e interrompere la spirale di violenza antagonista che tiene in ostaggio Torino». Non c’è stato niente da fare, nonostante una apposita legge regionale approvata dal centrodestra: Askatasuna è rimasto aperto. Poi, finalmente, qualcosa si è mosso.
«All’indomani dell’assalto alla Stampa, a nome della Regione Piemonte, avevo chiesto ufficialmente al Comune di Torino di cancellare il Patto per la concessione di Askatasuna», dice ora Marrone. «In tutti questi mesi quel centro sociale ha continuato a essere la base degli antagonisti, ma questa mattina grazie al lavoro della questura e della prefettura lo Stato ha colpito. Se il Comune avesse rispettato la mia legge regionale fin da subito, magari in questi due anni non ci sarebbe stata questa escalation di violenza».
Vero: bastava far rispettare la legge, ma alla politica di sinistra non è mai importato granché Le violenze dei centri sociali, le aggressioni e le brutalità sono sempre passate in secondo piano. Ci si scandalizzava per qualche coro nostalgico, si gridava all’emergenza fascismo per qualche saluto romano. Ma sugli antagonisti bellicosi silenzio. Ci è voluto - oltre alla determinazione della destra - l’attacco alla Stampa. E forse nemmeno quello basta fino in fondo. Da Askatasuna già arrivano minacce a Marrone e i compagni promettono battaglia. Poveretti, vanno anche capiti: sono stati abituati per 30 anni a fare quel che volevano, non gli si può mica chiedere di cambiare registro così all’improvviso...
Viene da domandarsi da chi siano davvero danneggiati i bambini del bosco. Dalla famiglia, da papà Nathan e mamma Catherine che li facevano vivere in una antica casa di campagna con bagno esterno? Oppure dalle solerti istituzioni che da qualche tempo li stanno trattenendo in una casa famiglia per il loro «migliore interesse»? La domanda a questo punto è più che lecita. I piccoli Trevallion stanno in una struttura protetta da circa un mese. Sono stati portati via da casa il 20 novembre, con un robusto dispiegamento di forze e solo grazie all’intervento dell’allora avvocato della famiglia, Giovanni Angelucci, si ottenne che la madre potesse seguirli. Da allora vivono sotto osservazione, vedono il padre molto poco e in orari prestabiliti, incontrano la mamma in occasione dei pasti. Il tribunale dei minori dell’Aquila continua a rinviare la decisione sulla loro sorte: potranno tornare a casa per Natale?
Viene spontaneo interrogarsi su questi tempi dilatati. Se la situazione dei Trevallion era così grave da condurre all’allontanamento dei bambini, possibile che ci voglia così tanto a stabilire se debbano o no ritornare con i genitori? Il buon senso ma soprattutto la legge dicono che i minori vanno allontanati dalla famiglia solamente in caso di grave emergenza, di rischi evidenti per la salute fisica o psichica dei piccoli. Ebbene, a quanto pare i rischi non sono poi così evidenti se serve un mese per giudicare. In compenso, sappiamo per certo che l’allontanamento da casa e genitori provoca traumi.
Non è tutto. Inizialmente, ai Trevallion fu rimproverato di aver esposto i bambini sul palcoscenico mediatico a causa di una intervista concessa alle Iene. Ebbene, martedì il Garante per l’infanzia e l’adolescenza dell’Abruzzo ha diffuso dichiarazioni piuttosto dure, spiegando che è stata «violata la privacy di questi bambini. Sono state pubblicate informazioni riservate, sulla scolarizzazione, sulle vaccinazioni o sullo stile di vita che dovevano transitare in un fascicolo non sui media. La riservatezza viene prima del diritto di cronaca».
Il fatto è che qualcuno queste informazioni le ha diffuse, sappiamo che cosa hanno scritto e detto gli assistenti sociali e la tutor della famiglia.
Lo dice anche Danila Solinas, una dei due nuovi avvocati dei Trevallion, che avevano cominciato il mandato scegliendo silenzio totale e collaborazione con i giudici, ma ora forse un po’ hanno cambiato idea, visto che i risultati si fanno desiderare. «Non parlo né di delusione né di aspettative disattese per il mancato ricongiungimento immediato», dice Solinas. «Non mi aspetto che il tribunale elargisca favori, ma che applichi la legge. Semmai mi chiedo come si concili il rigoroso rispetto della riservatezza dei minori con la diffusione di elementi sensibili che li riguardano». Già, come si concilia questa esposizione con il bene superiore dei bambini?
Per altro, quel che leggiamo delle valutazioni delle autorità non è incoraggiante. L’assistente sociale Veruska D’Angelo, per esempio, esprime valutazioni che sollevano qualche dubbio. «Si ribadisce», scrive, «che anche l’individuazione delle problematiche riguardanti la situazione abitativa, socioeconomica, igienico sanitaria, socioculturale ed educativo relazionale è stata condivisa e sottoscritta dai genitori e dall’avvocato, riconoscendo e condividendo dunque tali aspetti».
Secondo l’assistente sociale, il «disagio maggiore» dei piccoli Trevallion nel vivere con altri bambini «si può osservare quando si attivano fra loro confronti sia per le proprie esperienze personali che per le proprie competenze, in quanto si evidenziano deprivazioni di attività condivisibili con il gruppo dei pari, per esempio da un semplice gioco ad attività più specifiche come i compiti scolastici e le conoscenze generali».
Insomma, non conoscono i giochi che fanno gli altri. Davvero terribile. Leggiamo ancora: «Il loro sonno è stato turbato dalla presenza, all’interno della stanza, di oggetti di uso comune quali l’interruttore della luce e il pulsante di scarico dello sciacquone del bagno». E poi «L’igiene personale dei minori è apparsa subito scarsa e insufficiente. Gli operatori sono riusciti a fare la doccia ai bambini soltanto nella serata del secondo giorno di collocamento ma solo con acqua, non volendo usare i saponi messi a disposizione... Uno dei fratelli ha dimostrato timore nei confronti del soffione della doccia. Rispetto al cambio degli indumenti i bambini hanno spiegato che indossano gli stessi vestiti per un’intera settimana e in genere il sabato li cambiano».
Capito? Si sono cambiati i vestiti una volta la settimana e uno di loro aveva timore del soffione della doccia perché era abituato a lavarsi in altro modo. Sembra quasi uno scherzo: si devono allontanare i bambini da casa perché si cambiano solo una volta alla settimana? Meritano di essere separati da madre e padre perché non hanno la doccia ma si lavano in altra maniera? Bisognerebbe dirlo a tutti gli illustri ecologisti che negli anni passati hanno spiegato in tv e sui giornali che non si deve sprecare acqua.
In ogni caso, l’assistente sociale ci tiene a spiegare che i piccoli «reagiscono con gioia e gratitudine alle varie attenzioni che ricevono, dai vestiti puliti e profumati che annusano continuamente oltre ad annusare le persone che li circondano, alle varie attività ludiche proposte, esprimendo spesso di voler restare “al caldo”».
Si tratta degli stessi bambini che alle autorità hanno dichiarato di trovarsi benissimo a casa. Utopia Rose, la più grande, ha fornito un racconto idilliaco: «Ci piace giocare insieme, all’aperto. Costruiamo una casetta e ci occupiamo dell’orto. Amiamo lavorare la lana con i ferri, lo facciamo tutti e tre. Siamo vegani e mangiamo quasi tutte cose prodotte da noi. Io cucino a colazione i pancake per tutti. Ci piacciono molto le cose che mangiamo e ci piace prepararle insieme, come i panini con le uova delle nostre galline. I parenti che vivono in Australia li vediamo in videochiamata con il tablet».
Non risulta che, da maggio a novembre scorso, gli assistenti sociali abbiano visitato con frequenza la casa della famiglia. Non risulta nemmeno che ci siano state altre audizioni dei bambini. Sembra che tutto si basi soltanto sulla valutazione di alcuni esperti i quali appaiono molto interessati a normalizzare i Trevallion, a rimarcare quanto piacciano le comodità ai bambini, a sottolineare tutte le stranezze mostrate da questi. A che cosa è servito allontanarli? A osservarli per un mese come bestioline allo zoo e a esporli alle feroci valutazioni del pubblico? Forse è il caso di domandarselo.





