Con Fausto Biloslavo e Saif Abouabid approfondiamo il caso del leader dei palestinesi in Italia finito sotto inchiesta. È un supporter di Hamas o contro di lui sono state montate accuse false per compiacere Israele?
Al netto della falsità secondo cui l’Unione europea ci ha regalato ottanta anni di pace, è tutto vero, tutto sottoscrivibile. Quanti invitano a versare sangue in nome di non ben precisati valori europei e spingono al conflitto senza quartiere contro le nuove e sempre diverse incarnazioni del nazismo farebbero bene a dare il buon esempio e a scendere in campo per primi, e in prima linea, cosa che con tutta evidenza sì guardano bene dal fare.
Siamo dunque solidali con Serra, empatizziamo con il suo sdegno. Ed egli, purtroppo per lui, dovrà accontentarsi del nostro appoggio, perché a ben vedere i più grandi fan del conflitto, soprattutto in Ucraina, sono proprio quelli che appartengono alla sua area politica. Politici, giornalisti, analisti e commentatori che da anni smaniano per il crepitio dei mitragliatori e si eccitano al fischio delle bombe. Sono gli stessi che hanno trattato e trattano ogni invito alla pace come intelligenza col nemico, ogni appello a fare ricorso alla diplomazia come un favore a Putin.
Serra tuttavia questo aspetto della questione tende a dimenticarlo. Forse perché fu proprio lui, mesi fa, a convocare una manifestazione «pro Europa» a cui si aggregarono sostenitori del riarmo di ogni ordine e grado e fior di progressisti bellicosi. In compenso, il bravo editorialista si rifugia in un vecchio cliché. La guerra, dice, la fanno soprattutto gli uomini, dunque se esiste è in gran parte colpa nostra, di noi maschi. Badate bene: non dei maschi liberali, progressisti e bellicisti, dei volenterosi britannici e d’ogni altra provenienza. No: di tutti i maschi, dei maschi in quanto tali.
«Di questo “scontro frontale di una virilità guerriera” che travolge nel suo farsi non solamente il presente, ma cancella ogni altra ipotesi differente di convivenza e perfino di conflitto», spiega Serra, «ha molto scritto Lea Melandri, e alla cultura femminista non sono certo serviti giri di parole o forzature ideologiche per inquadrare l’evidenza: la guerra è una pratica arcaica ed è una pratica maschile. Doppia circostanza che fa riflettere, inevitabilmente, sulla giustapposizione dei due concetti, arcaico e maschile, e giustifica e sollecita ogni possibile ragionamento su come e quanto muterebbero, le sorti dell’umanità, alla luce di una più forte presenza e influenza della cultura femminile nella società, nei luoghi di pensiero e nelle stanze del potere».
Certo, se le donne avessero più spazio si battaglierebbe di meno, come no. Se, per esempio, a gestire negli anni passati il pantano ucraino fossero state donne come Hillary Clinton e Victoria Nuland, di sicuro oggi non si combatterebbe. Se a capo dell’Unione europea ci fossero donne come Ursula Von der Leyen o Kaya Kallas, o perfino Pina Picierno, la tregua l’avremmo già ottenuta da un pezzo. I maschi vogliono la guerra, le donne fanno la pace. Ora tutto si spiega: la parte maschile di Serra organizza manifestazioni pro riarmo, la parte femminile compensa scrivendo articoli pacifisti.
Questo malconcio 2025 ci ha regalato una grande scoperta: in Italia esistono ancora tracce di libertà di pensiero. Esiste ancora qualcuno che apre bocca secondo coscienza e non per tornaconto piccino, ci sono intellettuali che scrivono e parlano seguendo i propri valori e proteggendo la propria dignità, e non per ottenere una poltroncina in questo o quell’ente mutualistico. Lo ha ricordato a tutti Marcello Veneziani, scrivendo per La Verità un articolo formidabile e affilato sull’establishment destrorso che ha incendiato alcune code di paglia. Quel pezzo avrebbe potuto suscitare una discussione più approfondita e coraggiosa, suggerire qualche riflessione magari faticosa ma comunque opportuna sull’impatto che questo governo sta avendo sul sistema culturale della nazione. Invece ha generato rispostine offese per lo più trascurabili, scatti d’ira da aspiranti gerarchi di provincia e molte invidie: non tutti, d’altra parte, possono permettersi certe licenze. Nel complesso isterismi facilmente spiegabili con il narcisismo diffuso, ma comunque piuttosto tristi.
Se a destra la manifestazione dell’indipendenza di pensiero ha prodotto sconcerto e un filo d’irritazione, a sinistra ha causato brividi di sconcerto e profondo stupore. Particolarmente emozionato Massimo Giannini di Repubblica, il quale ha intuito di aver assistito a qualcosa di importante ma non ha capito bene di che si tratti. Il noto editorialista ieri ha pensato di parassitare il pensiero di Veneziani e di aggrapparsi ai commenti di altre voci libere come Mario Giordano, Franco Cardini e Giordano Bruno Guerri per sputare un po' di veleno sul governo. «Se rimettiamo insieme le parole e le opere della premier e della sua milizia», ha scritto Giannini, «qual è la svolta culturale che segna il cambio d’epoca? La Ducia Maior: qualche frasetta sciolta di Roger Scruton in Parlamento, qualche citazione a caso di Thomas Eliot al meeting di Rimini. I gerarchi minori: qualche intemerata su Peppa Pig da Mollicone, qualche pièce teatrale di Mellone. Per il resto, fuffa ideologica e poltronificio».
Liquidati i nemici politici, Giannini si è messo a parlare della sinistra, e lo ha fatto secondo il più classico copione della rampogna progressista. Funziona così: prima si ribadisce l’inevitabile superiorità morale, poi si finge di avanzare una critica per dimostrare d’essere fedelissimi ma pure un po' pensosi. «Nonostante le disfatte elettorali, la rive gauche è ancora popolata di scrittori e attori, registi e opinionisti», dice Giannini. «Ma con due differenze fondamentali rispetto all’altra sponda. La prima è che nessuno li alleva: non c’è più il Pci di Berlinguer, che organizzava gli stati generali della cultura convocando intellettuali di ogni ordine e grado. La seconda è che nessuno li criminalizza: se di qua sono di casa la critica distruttiva al Pd e la satira abrasiva sul campo largo, di là non capita mai nulla di simile».
A ben vedere, sono false entrambe le affermazioni. Vero che non esiste più il Pci con la sua cultura d’apparato, ma è vero pure che a intrupparsi i creativi sinistrorsi ci pensano da soli, seguendo alla lettera le indicazioni di un comitato centrale evanescente ma sempre autoritario che si è incistato nei loro cervelli: fedeli alla linea anche quando la linea non c’è. E infatti non appena qualcuno esce dal seminato, subito i rimasugli del progressismo intellettuale lo crocifiggono in sala mensa. Che si tratti di Massimo Cacciari, Giorgio Agamben, Carlo Rovelli, Lucio Caracciolo, Angelo D’Orsi, Luca Ricolfi o altri venerati maestri, poco importa: chi tradisce la paga cara, e solo dopo appropriata quarantena può tornare a dirsi presentabile.
Ed è esattamente qui che sta il punto. Giannini e gli altri del suo giro non hanno i galloni per fare la morale a chicchessia. S’attaccano alla stoffa altrui - quella di Veneziani nello specifico - perché difettano della propria. Se la destra non ha brillato per originalità, la sinistra in questi anni si è risvegliata dal coma soltanto per chiedere la censura di questo o quell’altro, per infangare e demonizzare, per appiccare roghi e costruire gogne. Infamie di cui hanno fatto le spese autori di ogni orientamento: di destra, soprattutto, ma pure di sinistra, se indipendenti e intellettualmente onesti.
Giannini resta comprensibilmente ammirato dalla tempra dei Veneziani, dei Cardini e dei Giordano perché dalle sue parti non esiste, e se esiste è avversata con ferocia (altro che le sfuriate infantili viste a destra negli ultimi giorni). E infatti l’editorialista di Repubblica che fa? Prende le parti del nemico solo nella misura in cui sono utili alla sua causa. Non celebra l’onestà e il piglio avventuroso: li perverte per metterli - per altro senza riuscirci - al servizio della sua ortodossia. Sfrutta l’indipendenza altrui per ribadire la propria servitù.
Tutto ciò sarebbe decisamente poco interessante se non donasse una lezione anche alla destra, ai patrioti e ai conservatori o sedicenti tali. Il problema, per usare un nannimorettismo oggi di moda, non è Giannini in sé, ma Giannini in noi. Tradotto: per imporre l’egemonia soffocando la libertà basta e avanza Repubblica. E se il carro dei vincitori somiglia a quello dei perdenti, tanto vale perdere, almeno ci si risparmia la spocchia.





