Martino Cervo
(Rimini, 1981). Malgrado il luogo di nascita, è ravennate. Impara il mestiere a Libero, diretto da Vittorio Feltri, dove si occupa di varie cose a Milano e Roma. Sotto la direzione di Maurizio Belpietro diventa caporedattore centrale. Dal 2014 e per due anni abbondanti dirige il Cittadino di Monza e Brianza. Viene scelto nel 2017 dallo stesso Belpietro (che pure l'aveva già conosciuto) come vicedirettore, pochi mesi dopo il debutto della Verità. Nel frattempo, ha scritto un paio di libri su Obama (con Mattia Ferraresi) e Willi Münzenberg.
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«Razzisti!». «Sostituzione etnica!». «Ci vuole più Europa!». «Blocco navale!». Il cosiddetto dibattito sull’immigrazione è diventato da qualche anno una specie di rissa tra tifoserie vagamente allucinate, mentre la realtà corre e cambia portando problemi giganteschi di convivenza, di leggi, di equilibri economici, sociali, previdenziali, culturali. Eppure, poco più di vent’anni fa, prima dell’11 settembre, sarebbe stato possibile impostare l’intera faccenda entro binari più ragionevoli e sensati. Nel senso che i pensieri e le parole per evitare il tritacarne degli slogan inutili ci sarebbero stati. Giacomo Biffi, Giorgio Gaber e Giovanni Sartori da punti di vista, con ruoli e linguaggi e scopi decisamente diversi tra loro, hanno dato vita a un dialogo, diretto e indiretto, proprio sui temi dell’immigrazione, del rapporto con l’altro, del senso della convivenza tra diversi. Il primo, grande cardinale, si attirò insulti e strali per aver osato dire che l’accoglienza va declinata nell’ambito del possibile, che non tutti gli immigrati sono uguali, e che integrare chi abbia una concezione di donna, di famiglia e di educazione troppo diversa non è sempre facile. Lo applaudì giusto Giovanni Sartori, mente critica di sinistra, riconoscendo i tratti di una sana laicità che in nulla faceva a botte con la posizione religiosa. E poi c’è Gaber, capace di mettere in parole e musica il tema dell’altro. Ce n’è di che imparare molto, oltre vent’anni dopo.
Metti un cardinale (Biffi), un politologo (Sartori) e un grande artista a dialogare - a distanza - di immigrazione, pluralismo e accoglienza. Il dibattito che l’Italia non ha mai fatto sul serio.
- Colonna sonora: Chopin, Preludio opera 28 n.15; Giorgio Gaber, “L’incontro”, Un’idiozia conquistata a fatica, 1997; Erik Satie, “Gymnopédie n.1”, 1888
- Fonti: Giacomo Biffi, “Sulla immigrazione”, Elledici, 2000; Giovanni Sartori, “Ma quanto è laico, Eminenza!”, su “L’Espresso” del 28 settembre 2000
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I grandi racconti di Alice sono ovviamente anche bellissime storie per bambini. Ma un ulteriore piano di lettura apre a un livello differente, in cui Lewis Carroll fa decisamente un discorso «per grandi». Nel seguito del suo libro più noto, il grande scrittore – siamo nel 1871 – parla profeticamente delle battaglie woke, estrema propaggine violenta del politicamente corretto. L’ansia di non ferire la suscettibilità, il furore di emendare storia, cultura e arte da elementi impuri od offensivi, sono sì il segnale di una cultura occidentale allo stadio terminale, ma anzitutto i figli di una tentazione fenomenale: quella di combattere sul linguaggio una battaglia per dominare la realtà. Abbattere le statue, ripulire i racconti di Roald Dahl, cacciare i professori che si permettono di dire che i sessi sono due, registrare i cosiddetti figli di coppie omogenitoriali, sono varie manifestazioni di una guerra di potere in cui la parola punta a definire e sostituire il mondo per determinarlo. E Humpty-Dumpty, l’uovo parlante con cappello, braccia e gambette, nel suo dialogo paternalista con la piccola Alice fa esattamente questo: cerca di dominarla piegando le parole a significare quel che decide lui. «Naturalmente non puoi capire, finché non te lo spiego», dice. La bambina, che scema non è, si accorge che qualcosa non torna e chiede: ma il problema è se le parole possano avere diversi significati. E costringe Humpty a un momento di perfetta sincerità: «Il problema è chi comanda, tutto qua».