- Nell’audit interno dell’azienda la contestazione rivolta ai vertici: hanno messo a disposizione dell’ex premier carte con segreti commerciali. Omettendo informazioni sui discussi mediatori scelti da Baffino per l’affare.
- La toga voleva comprare un introvabile Rolex. I guai giudiziari della dinasty Mazzotta.
Lo speciale contiene due articoli.
Quando La Verità pubblicò l’audio in cui l’ex premier Massimo D’Alema trattava armi con un ex paramilitare colombiano l’allora presidente di Leonardo Luciano Carta dispose un audit poi consegnato al ministero dell’Economia e, più recentemente, alla Procura di Napoli, l’ufficio giudiziario che sta indagando sulla vicenda e che contesta a otto indagati, tra cui l’ex ministro degli esteri, la corruzione internazionale, corruzione internazionale un reato aggravato perché commesso con il contributo di un gruppo criminale organizzato operante in più di uno Stato. Le conclusioni dell’audit sono contenute in un documento classificato e a diffusione limitata, che, però, adesso è stato acquisito nell’inchiesta penale.
Qualcuno ha scritto che quel rapporto assolveva Baffino e di fatto chiudeva le indagini interne a tarallucci e vino. Ma non è così. Va specificato che chi svolge l’audit non ha poteri di polizia giudiziaria e non deve perseguire i reati, ma deve verificare se siano state rispettate le procedure interne. Nel nostro caso la relazione conteneva una lunga serie di rilievi sul mancato rispetto delle stesse. Dalla ricostruzione emerge come D’Alema avesse contattato direttamente l’allora amministratore delegato Alessandro Profumo e lo avesse informato di avere un canale interessante per la vendita di armamenti in Colombia. A questo punto l’ad avrebbe ordinato all’allora direttore generale Lucio Valerio Cioffi di trasmettere a D’Alema documenti che riguardavano questa commessa. Un passaggio che sarebbe avvenuto senza le dovute cautele. Infatti si trattava di documenti classificati per cui non sarebbe stato firmato alcun «non disclosure agreement» (Nda) da parte dei destinatari delle carte che riguardavano caccia militari e sistemi radar.
Obbligo di riservatezza
Sarebbe stato indispensabile impegnare gli aspiranti acquirenti e i loro intermediari a non diffondere informazioni sensibili su questioni di cui erano venuti a conoscenza per motivi commerciali, elementi che avevano una certa riservatezza e che erano, come detto, rigorosamente classificati in ambito aziendale. Ma tutto ciò non è stato fatto e le precauzioni non scattarono a causa del rapporto personale tra Profumo e D’Alema. Senza andare troppo per il sottile, il 15 dicembre 2021 Dario M., della divisione aerei di Leonardo vicepresidente senior dei servizi commerciali & clienti aveva scritto all’ex premier: «Buonasera Presidente, scusandomi per il ritardo, Le invio in allegato alcune brochure che descrivono le soluzioni offerte da Leonardo divisione elettronica per radar aeroportuali e centri air traffic control». Alla presunta cricca giunse anche un dettagliato listino prezzi per 24 caccia.
L’affare degli M-346 proposti da Leonardo alle autorità colombiane era una sorta di global service. Il pacchetto messo nero su bianco nel documento di 15 pagine prevedeva infatti una flotta di 24 M-346 Fighter attack, supporto logistico integrato associato e sistema di addestramento a terra, la fornitura di infrastrutture per i centri di formazione e manutenzione.
Pacchetto completo
Inoltre Leonardo proponeva un servizio di «Turn key support» della durata di 10 anni svolto presso la base aerea del cliente in Colombia. Con tanto di simulatore di volo e aule multimediali. Costo totale: 2,132 miliardi di euro.
A margine dell’offerta dei caccia, ai colombiani erano state spedite le brochure di quattro altri prodotti. La prima riguardava le apparecchiature per una torre di controllo. Nel documento era evidenziato che il servizio veniva «eseguito e facilitato dallo streaming in tempo reale della vista da un gruppo di videocamere digitali ad alta definizione fisse e mobili situate presso l’aeroporto controllato da remoto».
C’era poi un secondo file che illustrava le caratteristiche di un sistema di controllo del traffico aereo in volo. A fianco delle apparecchiature per la torre di controllo non potevano mancare i radar. Quelli proposti erano di due diversi modelli, con diverse funzioni. I radar primari Atcr-33s ng, nel 2016 sono stati venduti da Leonardo anche alla Cina. L’altro modello proposto era un radar secondario, Atcr-44 blok 2. Si tratta della tipologia che interagisce direttamente con gli apparecchi in volo, attraverso uno scambio di segnali con il trasponder. Insomma, a fianco dei caccia veniva quasi proposto un aeroporto «chiavi in mano».
Il segreto aziendale è legato a questioni commerciali, ma richiede la tutela di determinate notizie perché se queste fuoriescono dai corretti canali possono creare un danno alla società. Ecco perché sarebbe stato necessario far firmare un Nda. Cosa che non è accaduta.
Ma nell’audit era anche evidenziata un’altra dolentissima nota.
Mancata condivisione
È stata contestata la mancata condivisione con le strutture competenti delle informazioni che avevano i vertici e che avrebbero garantito una maggiore «compliance» e sicurezza.
Infatti gli intermediari dell’operazione avevano caratteristiche che per policy aziendale li rendevano incompatibili con Leonardo. Per esempio Giancarlo Mazzotta era coinvolto in diverse inchieste giudiziarie e il Comune, Carmiano, di cui è stato sindaco è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Ma anche gli altri due indagati, Emanuele Caruso e Francesco Amato, presunti consiglieri del ministero degli Esteri della Colombia, non avevano curriculum consoni al ruolo. Per non parlare degli ex paramilitari coinvolti nell’affare a Bogotà e in contatto con i D’Alema boys: Edgardo Ignacio Fierro Florez e Oscar José Ospino Pacheco entrambi condannati per omicidio a pene pesantissime. Tutti controlli che non sono stati resi possibili dalla mancata comunicazione da parte di Profumo di queste informazioni alla struttura di sicurezza incaricata di questo tipo di attività.
Gli addetti di Leonardo avrebbero potuto fare prevenzione, anche perché il capo della sicurezza dipende dal presidente e non dall’ad.
Invece l’azienda si limitò a proporre un preaccordo capestro con un altro degli indagati, l’avvocato Umberto Bonavita, dove era previsto che il «promotore» venisse pagato anche in caso di insuccesso dell’operazione.
Leonardo avrebbe dovuto erogare un importo per compensare la Robert Allen Law di Miami, di cui faceva parte Bonavita, per un ipotetico report di marketing e per le spese sostenute per altre attività. Ai sensi del contratto la Robert Allen aveva comunque diritto al pagamento anche in caso di rescissione dell’accordo da parte di Leonardo. Una formula che sarebbe interessante sapere se sia stata utilizzata dalla società di piazza Montegrappa anche in casi in cui non compariva come sponsor D’Alema.
L’amico di Max sganciò 20.000 euro al giudice arrestato per corruzione
L’ex sindaco di Carmiano, in provincia di Lecce, Giancarlo Mazzotta, due mandati, il secondo dei quali interrotto dallo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose, è il globetrotter delle aule di giustizia nel team di Massimo D’Alema che lavorava all’affare per le forniture militari alla Colombia. Imprenditore, Mazzotta, come quasi tutta la sua famiglia. Con il figlio Paride, consigliere di Forza Italia, però, condivide anche la passione per la politica. Oltre alla presenza in qualche procedimento giudiziario. L’altro giorno, con l’arresto di Pietro Errede, l’ex pm del caso del piccolo Tommaso Onofri che a Lecce era diventato, secondo la Procura di Potenza che l’ha privato della libertà, il ras del Tribunale fallimentare, sono spuntati fuori i loro nomi. Ai due, che avevano grane con una società di famiglia, la Pgh Barone di Mare, il commercialista Massimo Bellantone (indagato) gli avrebbe fatto sapere che «per non incorrere in provvedimenti giudiziari più incisivi, bisognava sottostare alle richieste economiche della coppia Errede-Russi (Alberto Russi, avvocato e convivente del magistrato, indagato anche lui), individuando un commerciante di fiducia che avrebbe dovuto fornire al giudice un raro Rolex Daytona a prezzo vantaggioso. I Mazzotta, ricostruisce l’accusa, avrebbero consegnato al commercialista 20.000 euro nascosti in una busta con una maglietta. Mentre, «per rendere trasparente e apparentemente lecito il pagamento», sul conto di un gioielliere materano è arrivato un bonifico da 20.000 euro partito dal conto corrente della toga, che si è beccata un’accusa di corruzione. Mazzotta, in Procura a Potenza, ha spiegato che «via via», per ottenere «protezione giudiziaria», avrebbe dovuto sborsare «80-90 mila euro in nero». Uno dei figli, Hermes, tentò anche di registrare una conversazione con il compagno del giudice, «perché», ha detto Mazzotta in Procura, «era nero per il sopruso che stavamo subendo».
Per la Pgh Barone di Mare, però, Mazzotta è finito giudizio (da ottobre 2022) per un giro di false fatture e per una truffa alla Regione Puglia da 3 milioni. In gergo gli investigatori la chiamano «frode carosello», perché è fatta di aziende cartiere che si innestano una dietro l’altra. Con al centro una società riconducibile proprio a Mazzotta, che sarebbe stata interposta tra la Pgh Barone di Mare, committente della ristrutturazione della struttura turistico alberghiera Barone di Mare, a Torre Saracena, e le società appaltatrici direttamente contattate e gestite dall’ex sindaco di Carmiano. In questa inchiesta Mazzotta ci è finito anche con i figli Hermes e Greta. Ma da tempo Mazzotta fa la spola con la Procura. Attualmente è imputato anche in un altro processo. A fine gennaio dello scorso anno il gup di Lecce l’ha mandato a giudizio da custode giudiziario di un lido, il Cala Marin, sequestrato per presunti abusi edilizi. In concorso con il figlio Hermes è accusato di violazione dei sigilli, di frode processuale e di abuso edilizio e paesaggistico. Da solo, invece, è accusato di istigazione alla corruzione. Mentre Hermes è accusato di falsità ideologica. E sempre per il lido Cala Marin e la società che lo gestisce, resta ancora aperto un altro procedimento, con rinvio a giudizio disposto nel novembre del 2020, Giancarlo Mazzotta risponde come amministratore unico della Pgh Beach srl, insieme a tre funzionari del Comune di Melendugno, per queste ipotesi di reato: distruzione o deturpamento di bellezze naturali, occupazione abusiva di spazio demaniale e violazioni del codice dei beni culturali e del paesaggio e del testo unico in materia di edilizia.