
Il giornalista: «I parrucconi d'ancien régime e i partiti alla canna del gas si compattano pur di impedire a Salvini di vincere le elezioni. Ma a forza di insultare i “barbari" finiranno per far infuriare gli elettori».Pierluigi Battista, che succede? Matteo Salvini ha compiuto un miracolo?«Un miracolo, dice?».Non ha visto? Ha messo d'accordo Beppe Grillo e Luigi Di Maio con il «partito di Bibbiano», Il Foglio con Il Fatto Quotidiano, il Rottamatore Matteo Renzi con il rottamato Massimo D'Alema…«Ah certo. L'ancien régime che si ricompatta per non far vincere Salvini. La democrazia parlamentare usata come scudo umano».Renzi invoca proprio quella.«Una delle caratteristiche di questa crisi pazza: si usano espressioni vuote».Ad esempio?«“Deve decidere il presidente della Repubblica"».Non è vero?«Certo che è vero. Ma quello che deve decidere è se c'è una maggioranza politica alternativa. E questo non mi pare sia emerso con chiarezza».Dice che non ci sono le basi per un'alleanza tra Pd e 5 stelle?«Io in linea di principio non sono contrario alle coalizioni tra diversi. Ma dev'essere una cosa seria. Questa è una barzelletta».Una barzelletta?«Ma sì. Niente a che vedere, ad esempio, con quello che succede in Germania».Graziano Delrio ha suggerito proprio di arrivare a un contratto alla tedesca.«Ma per favore. In Germania, se cristiano-democratici e socialdemocratici decidono di fare un governo insieme, passano dei mesi, durante i quali i partiti analizzano dettagliatamente i programmi. L'Spd ha lanciato un referendum tra i propri iscritti, la Cdu ha passato la proposta al vaglio dell'assemblea del partito. Qui si fa tutto in qualche giorno. Quella di Pd e 5 stelle cos'è? Una burla. La burla della democrazia parlamentare».Pierluigi Battista, editorialista del Corriere della Sera, ha il tono concitato. Le voci di accordo tra Partito democratico e Movimento 5 stelle per evitare di andare al voto sembrano averlo indignato. Basta scorrere il suo profilo Twitter, dove qualche giorno fa ha battagliato con Giuliano Ferrara: «Io voglio solo andare a votare», ha scritto al fondatore del Foglio, «tu vai con quelli che negano lo sbarco sulla Luna».Secondo lei dem e grillini, dopo essersi insultati per anni, potrebbero davvero governare insieme?«Impossibile. Ma non tanto per gli insulti in sé. È che sono arrivati alla totale delegittimazione reciproca. Il Movimento 5 stelle ha chiamato il Pd “il partito di Bibbiano".».Anche «un punto di riferimento per il crimine». Questa è di Alessandro Di Battista.«Appunto. Ma pure il Pd ne ha dette di tutti i colori: “Cialtroni", “buffoni"… C'è quasi un'inconciliabilità antropologica. È come se, nella prima Repubblica, dall'oggi al domani, il Pci e il Msi avessero deciso di fare un governo insieme, con qualche transfuga di altri partiti, per mettere all'angolo la Dc. Ci sarebbe sembrata una cosa seria?».In effetti... Però, appunto, questi si appellano al senso di responsabilità, alla necessità di sterilizzare l'aumento dell'Iva…«Quanta ipocrisia. Guardi, sarebbe la prima volta nella storia dell'Italia repubblicana che si forma un governo non per fare qualcosa, ma per non votare, perché si sa benissimo che si perderebbero le elezioni».Si scrive «democrazia parlamentare» ma si legge «abbiamo paura di andare al voto»?«C'è un vulnus della democrazia: il popolo guardato come qualcosa di cui diffidare».Possibile che capiti pure ai 5 stelle, quelli che invocavano la democrazia diretta?«Be', come il Pd, sono alla canna del gas».E non è comprensibile che un partito voglia evitare il tracollo?«Senta, io passo per salviniano - il che è assurdo: non voterò Salvini, probabilmente non voterò nessuno - ma il punto è che in democrazia gli avversari si sconfiggono politicamente».Nell'era dei leader carismatici e dei sondaggi, che lo stesso Renzi ha cavalcato e plasmato, si può ignorare l'opinione pubblica e pensare solo ai numeri in Parlamento?«Mi sta bene che si dica: non possiamo agire solo inseguendo i sondaggi. Ma allora che si vada alle elezioni! Mi sembra piuttosto che la questione sia: non andiamo a votare perché c'è uno che non siamo in grado di battere. Sta qui l'assurdità dei riferimenti alla democrazia parlamentare».Cioè?«Contrapporre, alla democrazia elettorale, una democrazia parlamentare concepita come una trincea in cui arroccarsi per arginare quello che loro chiamano il populismo. A meno che…».A meno che?«A meno che non si dica - e qualcuno lo sostiene esplicitamente - che Salvini è un nazista. E allora contro i nazisti qualunque mezzo è buono, pure un governo d'emergenza tra partiti incompatibili. Ma l'emergenza nazionale sarebbe che il 34% degli italiani vota Salvini?».Se qualcuno obiettasse che non possiamo votare ogni anno?«In Spagna votano continuamente. Non è un dramma. È la fisiologia democratica. In Grecia, Alexis Tsipras, che non mi pare sia un fascistone, quando ha perso le europee ha indetto nuove elezioni politiche. Si rivoterà in Austria, si voterà in Polonia. Si vota. Non c'è nessuno scandalo».In sostanza, solo da noi non si voterebbe.«Perché qui, appunto, si contrappone la democrazia parlamentare come il regno dell'ordine, alla democrazia elettorale come il caos. Il popolo sudato, il popolo del Papeete. E questo aggraverà la frattura che si è creata già il 4 marzo 2018».Il cordone sanitario anti Salvini finirebbe con il favorire lui?«L'inciucione non potrà che durare poco. E nel frattempo la gente si sarà eccitata: “Voi non ci date la parola perché sapete che voteremmo diversamente da come volete voi, per cui fate un pastrocchio in Parlamento? E noi vi facciamo vedere". Immagini una cosa».Che cosa?«Se anche Forza Italia si unisse all'inciucione. I 5 stelle finirebbero al governo con Silvio Berlusconi».Quello che loro e il Fatto hanno sempre dileggiato come Mister B.«Ecco, appunto. Se lo immagina? E con questo torno alla sua domanda iniziale».Quella sul «miracolo» di Salvini?«Esatto. Si ricompatta tutto l'ancien régime. Quelli che sembravano diversi e opposti si ricongiungono. E tutto questo per stare in sella qualche mese in più. Non a caso, sul voto, rispetto al 2018, c'è stato un sostanziale cambio di linguaggio».Ovvero?«Prima, quando ancora non si era profilata l'alleanza tra Lega e 5 stelle, si diceva: “Inutile tornare al voto, perché ci ritroveremmo nella stessa situazione". Cioè, nessuna maggioranza. Adesso una maggioranza molto probabilmente ci sarebbe, ma non si può andare a votare lo stesso. Solo e soltanto perché Salvini non deve vincere».Oltre che la paura di Salvini, conta anche il timore che nel 2022 i sovranisti possano mettere le mani sul Quirinale?«Certo. Ma qualcuno pensa che l'inciucio potrebbe reggere fino al 2022? Il governo Lega-5 stelle è durato poco più di un anno. E partiva da basi molto più forti».Negli ultimi giorni, però, è sembrato che Salvini, tornato ai toni concilianti con i 5 stelle, quasi a volersi rimangiare la crisi, temesse qualcosa. E se invece un governo giallorosso potesse durare? «Ma in che modo?».Deficit al 2,9% perché l'Europa sarebbe più tenera, distribuzione di mancette, Ong che smettono di sbarcare perché non hanno più motivo di esercitare pressione sul nemico politico… E la gente si convince: è meglio la pace con i partiti di sistema, che la mobilitazione permanente con i sovranisti.«Sì, può darsi. Ma io per adesso sono dell'idea che stiano tutti sottovalutando la rivolta della gente. Il 4 marzo è stato un segnale forte. E in caso di voto, a questo punto, su Pd e 5 stelle peserebbe un altro elemento».Quale?«Quello che ha detto Carlo Calenda: gli elettori ormai li percepiscono come alleati. Ciò che effetto avrebbe sia sugli equilibri interni ai partiti sia sui consensi? Quando gli elettori hanno scelto Pd o 5 stelle non sapevano di questa possibile intesa. Se l'avessero saputo, magari non li avrebbero votati».Di Giuseppe Conte che idea s'è fatto? Un anno fa scherniva Renzi («lui mio collega? È un professore?), adesso pare pronto a scendere a patti con lui.«Si sta giocando la partita della vita. E sa di avere appoggi importanti...».Il Colle?«Diciamo che sa di non essere solo».Il dramma della stampa. Chi finora ha bastonato i grillini, come convincerà i lettori che quegli stessi Luigi Di Maio, Alfonso Bonafede, Danilo Toninelli, reietti quando stavano con la Lega, saranno diventati statisti con il Pd?«Non li convincerà. Come nessuno convincerà gli elettori. L'effetto fortezza, l'effetto ponte levatoio, l'effetto ancien régime contro i sanculotti agita ancora di più chi si sente definire “barbaro". Ecco, il 34% degli elettori italiani viene considerato “barbaro". E secondo lei questi non s'incazzano? Lei parlava di mancette: pure gli 80 euro lo erano…».E gli elettori si sono incazzati lo stesso.«Proprio così».L'alterco con Ferrara?«Ma lasciamogli dire quello che vuole».Non è buffo che si ritrovi sulla stessa barca di Marco Travaglio?«Lo è. Ma, appunto, l'immagine è quella dei Borbone asserragliati a Gaeta, di parrucconi che si arroccano senza saper dire nulla sulla società italiana, su cosa farebbero per risolverne i problemi... È spaventoso. È disperante. Regalano a Salvini la bandiera della democrazia. È un suicidio culturale».
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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