Molti hanno commentato l’intervento militare di Washington contro formazioni islamiste affiliate all’Isis-Africa nel Nordest della Nigeria come evento generato da motivi di politica interna americana – recuperare il consenso della componente dei repubblicani cristiani, scossa dallo scandalo Epstein, da parte di Donald Trump – e come più simbolico che concreto. Che la scelta di bombardare a Natale uccisori di cristiani abbia avuto un motivo di «gestione simbolica» è probabile. Ma che sia l’unico o il principale motivo dell’azione militare non lo è. La strategia statunitense ha un obiettivo molto più ampio: contrastare l’influenza della Cina sul Sud globale, in particolare Africa e Sudamerica.
Da tempo è osservabile una penetrazione statunitense con fini condizionanti in tutta l’Africa con priorità a quella atlantica. Esempi. Il (progetto di) corridoio ferroviario dall’interno dell’Africa mineraria australe con terminale il porto di Lobito in Angola, programma che vede l’Italia tra gli investitori insieme – se confermato – agli americani con probabile (sembra) contributo dell’Ue. L’accordo in strutturazione tra Stati Uniti e Marocco (forse Spagna) per creare un porto sulla costa del Sahara meridionale connesso con gli Stati dell’Africa centro-settentrionale produttori di minerali critici. La pressione crescente statunitense contro il Sudafrica per renderlo meno dipendente da Pechino. Ecc. Queste e altre mosse sono spiegate da una strategia di decinesizzazione dell’Africa (anche motivo di negoziato tra Russia ed America in Alaska) in generale e, in particolare, dalla priorità statunitense di rompere il monopolio cinese sulle terre rare secondo la linea del nuovo progetto Pax silica (impero minerario) in fase di elaborazione a Washington. L’obiettivo non è semplice perché, controstrategia cinese e banditismo locale a parte, più della metà dell’Africa mineraria rilevante è vulnerabile a irruzioni jihadiste organizzate da uno Stato islamico che dopo la confitta in Siria ed Iraq si è riorganizzato nel Sahel (semi)desertico e si sta strutturando in alcune parti dell’Africa sub-sahariana. Pertanto l’attacco all’Isis-Africa va visto come strategia sistemica e non come contingenza per motivi interni. L’Isis recluta gruppi di banditi o insorgenti locali offrendo loro mezzi e sinergie. Attaccandolo con certa pesantezza l’America manda un messaggio di dissuasione che limita il reclutamento jihadista. Inoltre, la collaborazione pur forzata del governo nigeriano con la volontà statunitense mostra utilità: i flussi di investimento estero in Nigeria sono calati a causa del suo disordine interno ed un intervento di riordino potrebbe farli riprendere. La Cina tende a fare accordi con le fonti di disordine, mantenendole tali in parecchi Stati africani, mentre l’America le elimina con la forza. Questo mi sembra il messaggio che Washington stia tentando di dare alla comunità africana.
Messaggio compatibile con l’azione compressiva americana verso il regime filo cinese e russo (dove Mosca però non sta interferendo) di Nicolàs Maduro in Venezuela. Qui Washington usa una «strategia del boa», stritolamento lento, per non causare una reazione «anti gringos» nel continente, combinata con una motivazione più simbolica che causa reale, cioè l’eliminazione delle infrastrutture venezuelane per il traffico di droga prodotta in nazioni contigue, queste bersagli successivi. In sintesi, la conduzione Trump vuole l’influenza su tutto il Sudamerica, Argentina, Cile ed altri già presi a seguito di elezioni interne, a cui va aggiunto il nuovo presidente dell’Honduras, nazione chiave della Mesoamerica tra Guatemala a Nord e Nicaragua a Sud. Il Messico dovrà allinearsi, il Brasile non potrà contrapporsi oltre misura, Panama pur tentando una neutralità tra America e Cina difficilmente potrà sottrarsi alla convergenza prevalente con la prima.
Sul piano globale, inserendo oltre ad Africa e Sudamerica la proiezione anticinese nel Pacifico e quella mineraria e geoestrategica verso la Groenlandia (territorio danese ad ampia autonomia) mi sembra evidente che l’America First della conduzione Trump non sia isolazionista, ma «imperiale globalista» nonostante la forte presenza dell’isolazionismo nella sua area di consenso, ma appunto convertito da una comunicazione tipo «salviamo i cristiani» e simili. Se così, mi chiedo quali e quanti alleati servano all’America per (ri)fare impero, valutando improbabile (pensiero controllato con diversi think tank statunitensi) che possa riuscirci senza alleanze: avrà bisogno di tante alleanze. Non con l’Ue, al momento, ma con nazioni europee e del G7 compatibili sì. L’ipotesi, poi eliminata, di includere la Russia nuovamente nel G8 entro un’azione di riduzione del potere globale cinese, fa ipotizzare che l’America cercherà alleanze diverse da quelle tradizionali basate sulla convergenza di Stati democratici. In sintesi, nella discontinuità di un cambio di mondo è osservabile la continuità del modello imperiale statunitense: una forma stellare come relazione tra un astro grande e tanti pianeti più piccoli, non permettendo a questi di unirsi per formare un aggregato maggiore. Siamo in fase di metastabilità dove lo scenario può prendere direzioni diverse, ma, pensando all’Italia, i vettori probabilistici più convenienti mi sembrano chiari:
- partenariato strategico bilaterale con l’America per la collaborazione in Africa;
- tenere l’Ue in posizione il più possibile convergente con l’America;
- massimo sforzo italiano per avviare un mercato mediterraneo integrato (Ekumene) ben connesso con il Pacifico e l’Atlantico.
Aggiornamenti, buon 2026.
L’impiego dei beni finanziari sovrani della Russia giacenti nell’Ue (circa 210 miliardi di euro) per un sostegno diretto alle spese difensive dell’Ucraina sarebbe stata una strategia sbagliata e controproducente per gli europei. Invece la decisione di prestare 90 miliardi di euro a Kiev ricavati da debito comune europeo, non toccando per il momento i beni russi pur restando questi non utilizzabili da Mosca, è stata una decisione realistica. Qui i motivi tecnici e una bozza collegata di scenario lungo.
Semplificando, il punto è che i beni russi possono entrare come risorsa condizionante nei negoziati di tregua tra Ucraina e Federazione russa e dare agli europei un posto di rilievo, anche se non primario, al tavolo dove Vladimir Putin vorrebbe trattare solo con gli Stati Uniti a conduzione Donald Trump. Se i beni russi fossero stati definitamente tolti alla proprietà di Mosca, Trump avrebbe mostrato l’incapacità di allineare gli europei, indebolendolo nei confronti di Putin. Ciò spiega perché Washington sia intervenuta pesantemente su alcuni europei - notizia non raggiunta o sottovalutata dai media - aggiungendo un peso decisivo alla decisione del Consiglio intergovernativo europeo. Germania sconfitta? Sarebbe un’esagerazione: Berlino si è adattata alla realtà, convergendo con la richiesta statunitense e prendendo atto delle difficoltà giuridiche di nascondere/coprire un furto nei confronti di una nazione con cui non esiste uno stato di guerra pur essendoci un conflitto con strumenti di sanzioni economiche reciproche. Secondo me gli strateghi di Berlino sono rimasti soddisfatti dalla postura iniziale di forte sostegno agli europei nordici-orientali - che temono realmente la pressione militare russa - in concorrenza/collaborazione con il Regno Unito per essere il loro protettore, aggiungendo la riconvergenza con l’Ue pur parziale di Ungheria, Cekia e Slovacchia con conduzioni politiche favorevoli a un compromesso con Mosca anche se a sfavore dell’Ucraina. In sintesi, Berlino ha preso una postura di «deterrenza indiretta» restando pronta a trasformarla in diretta se servisse. L’invio di truppe a sostegno della Finlandia e l’acquisizione del sistema antimissile israeliano Arrow sono segnali chiari oltre a quelli di un riarmo nazionale non solo difensivo, ma offensivo, per esempio robotica e mezzi esospaziali. Quindi interpreto la postura tedesca di rinuncia al progetto originario di usare i beni russi sequestrati per finanziare l’Ucraina come un adattamento alle contingenze, senza correzione di una politica di potenza in prospettiva.
Brava l’Italia a conduzione Giorgia Meloni che ha contribuito sostanzialmente a non peggiorare le relazioni con la Russia pur confermando il sostegno all’Ucraina? Certamente, tenendo conto della reazione di Mosca che costerebbe miliardi alle imprese italiane ancora operanti in Russia e a quelle che esportano beni non sanzionati. Va poi valutato che Italia e Germania sono consapevoli che trattare con una potenza nucleare ne richiede un’altra di forza equivalente, necessariamente l’America nel caso perché gli arsenali di Francia e Regno Unito sono troppo piccoli. A me sembra chiaro e faccio fatica a capire chi lamenta la rinuncia a incassare i soldi russi sequestrati. Inoltre, se la Russia esagerasse l’aggressività vi sarebbe un casus belli che renderebbe giuridicamente semplice acquisire i beni russi congelati, e che restano tali, nell’Ue, considerando probabile la convergenza con il deterrente di Washington in tale ipotesi. In sintesi, la rinuncia a finanziare via furto alla Russia l’Ucraina non è un indebolimento della deterrenza, ma un suo rafforzamento compatibile con una possibile tregua basata su scambi.
Ma un lettore potrebbe reagire dicendo perché mai l’Italia dovrebbe aumentare il suo debito partecipando al prestito comune europeo (eurobond) all’Ucraina. Per due motivi: tecnicamente il costo complessivo comune di 90 miliardi può essere ridotto e spalmato nel lungo termine e politicamente sarebbe controproducente non convergere con gli altri europei (e con l’America). Un motivo finanziario è che l’Italia ha bisogno di circa 15 miliardi dal programma europeo Safe per la sua spesa militare e di sicurezza evoluta (anche motivo del contenimento del deficit di bilancio per far cessare la procedura di infrazione, requisito di accesso al Safe). Va aggiunto poi che per le proiezioni italiane nel Mediterraneo costiero e profondo - vitali per l’export - c’è bisogno di convergenza con l’Ue e l’America.
Un altro lettore, questo un mio studente, mi ha chiesto quale sia l’obiettivo finale della politica estera italiana in relazione alla Russia e quindi la postura utile in materia di Roma. Ho risposto che se Putin andasse in crisi, la Cina sarebbe pronta a condizionare più decisamente la Russia creando un grave problema per le democrazie. E se non succedesse, un cambio nel potere a Mosca, che è in guai economici crescenti, potrebbe far emergere una figura più aggressiva. Questa analisi esce dallo schema pro o contro Putin e riguarda la nostra sicurezza: deterrenza per limitare l’aggressività di Putin, ma prudenza per non fare un favore geopolitico alla Cina o a qualche pazzo. Quindi tregua per poi lentamente riaprire i canali economici con la Russia. Lo studente, bravo, mi ha incalzato: non mi nasconda che lei, persona di finanza, alla fine punta a uno scenario di mercato integrato euroasiatico da Lisbona a Vladivostok. Certo che non lo nascondo. E dopo aver visto il nuovo progetto Pax Silica statunitense (togliere il monopolio sulle terre rare alla Cina) lo sottolineo. La Russia ci serve, con vantaggio reciproco, e una convergenza euroamericana per lo scopo è necessaria.
Strategia di geopolitica economica dal punto di vista dell’interesse nazionale italiano. Non si tratta di sovranismo chiuso, ma di tutela realistica della ricchezza nazionale corrente e prospettica che è dovere di un governo democratico con modello liberale mantenerla. L’impoverimento, infatti, è un precursore di domanda popolare di regimi autoritari o peronisti o socialisti oppure dissipativi. Per evitare l’impoverimento stesso, va fatta chiarezza sugli obiettivi esterni ed interni della strategia italiana.
L’attuale governo sta mostrando la consapevolezza di dover sostenere, con una politica estera molto attiva sul piano globale, il modello economico italiano basato sull’export che è messo a rischio - gestibile, ma comunque problematico per parecchi settori sul piano dei margini finanziari - dai dazi statunitensi, dalla crisi autoinflitta per irrealismo ambientalista ed eccessi burocratici dell’Ue, dai costi eccessivi dell’energia e, in generale, dal cambio di mondo in atto senza dimenticare la crisi demografica. Vedremo dopo le soluzioni interne, ma qui va sottolineato che l’Italia non può trasformare il proprio modello economico dipendente dall’export senza perdere ricchezza. La consapevolezza di questo punto è provata dalla riforma del ministero degli Esteri: accanto alla Direzione politica, verrà creata nel prossimo gennaio una Direzione economica con la missione di sostenere l’internazionalizzazione e l’export delle imprese italiane in tutto il mondo. Non è una novità totale, ma mostra una concentrazione di risorse e capacità geoeconomiche e geopolitiche finalmente adeguate alla missione di un’Italia globale, per inciso titolo del mio libro pubblicato nell’autunno 2023 (Rubbettino editore). Con quale meccanismo di moltiplicazione del potere negoziale italiano? Tradizionalmente, via la duplice convergenza con Ue e Stati Uniti pur sempre più complicata, ma con più autonomia per siglare partenariati bilaterali strategici di cooperazione economica-industriale (i trattati doganali sono competenza dell’Ue, condizione necessaria per un mercato unico europeo essenziale per l’Italia) a livello mondiale.
E con un metodo al momento solo italiano: partenariati bilaterali con reciproco vantaggio, cioè non asimmetrici. Con priorità l’Africa (al momento, 14 nazioni) ed il progetto di «Via del cotone» (Imec) tra Indo-Pacifico, Mediterraneo ed Atlantico settentrionale via penisola arabica. La nuova (in realtà vecchia perché elaborata dal Partito repubblicano nel 2000) dottrina di sicurezza nazionale statunitense è di ostacolo ad un Italia globale? No, perché, pur essendo divergente con l’Ue, non lo è con le singole nazioni europee, con qualche eccezione. Soprattutto, le chiama a un maggiore attivismo per la loro sicurezza, lasciando di fatto in cambio spazio geopolitico. Come potrà Roma usarlo? Aumentando i suoi bilaterali strategici e approfondendoli con Giappone, India, nazioni arabe sunnite, Asia centrale (rilevante l’accordo con la Mongolia se riuscisse) ecc. Quale nuovo sforzo? Necessariamente integrare una politica mercantilista con i requisiti di schieramento geopolitico. E con un riarmo non solo concentrato contro la minaccia russa, ma mirato a novità tecnologiche utili per scambiare strumenti di sicurezza con partner compatibili. Ovviamente è oggetto di studio, ma l’Italia ha il potenziale per farlo via progetti condivisi con America, europei e giapponesi nonché capacità proprie. Considerazione che ci porta a valutare la modernizzazione interna dell’Italia perché c’è una relazione stretta tra potenziale esterno e interno.
Obiettivi interni
La priorità è ridurre il costo del debito pubblico per aumentare lo spazio di bilancio utile per investimenti e detassazione stimolativi. Ciò implica la sostituzione del Pnrr, che finirà nel 2026, con un programma nazionale stimolativo (non condizionato dall’esterno) di dedebitazione: valorizzare e cedere dai 250 a 150 miliardi di patrimonio statale disponibile, forse di più (sui 600-700 teorici) in 15 anni. Se ben strutturata, tale operazione «patrimonio pubblico contro debito» potrà dare benefici anticipativi via aumento del voto di affidabilità del debito italiano riducendone il costo di servizio che oggi è di 80-90 miliardi anno. Già tale costo è stato un po’ ridotto dal giusto rigore della politica di bilancio per il 2026. Con il nuovo programma qui ipotizzato, da avviare nel 2027 per sua complessità, lo sarà molto di più dando all’Italia più risorse per spesa sociale, di investimenti competitivi e minori tasse.
Stimo dai 10 ai 18 miliardi anno di risparmio sul costo del debito e un aumento di investimenti esteri in Italia perché con voto di affidabilità (rating) crescente. Senza tale programma, l’Italia sarebbe condizionabile dalla concorrenza intraeuropea e senza i soldi sufficienti per la politica globale detta sopra. Ci sono tante altre priorità tecniche sia per invertire più decisamente il lento declino economico dell’Italia, causato da governi di sinistra e/o dissipativi, sia per rendere più globalmente competitiva l’economia italiana. Ma sono fattibili via un nuovo clima di cultura politica che crei fiducia ed ottimismo sul potenziale globale dell’Italia. Come? Più ordine interno, investimenti sulla qualificazione cognitiva di massa, sulla rivoluzione tecnologica, in sintesi su un’Italia futurizzante. L’obiettivo è attrarre più capitale e competenze dall’estero, comunicando credibilmente al mondo che l’Italia è terra di libertà, sicurezza, opportunità e progresso. Non può farlo solo la politica, ma ci vuole il contributo dei privati entro un concetto di «nazione attiva», aperta al mondo e non chiusa. Ritroviamo il vento, gli oceani.
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