L’impiego dei beni finanziari sovrani della Russia giacenti nell’Ue (circa 210 miliardi di euro) per un sostegno diretto alle spese difensive dell’Ucraina sarebbe stata una strategia sbagliata e controproducente per gli europei. Invece la decisione di prestare 90 miliardi di euro a Kiev ricavati da debito comune europeo, non toccando per il momento i beni russi pur restando questi non utilizzabili da Mosca, è stata una decisione realistica. Qui i motivi tecnici e una bozza collegata di scenario lungo.
Semplificando, il punto è che i beni russi possono entrare come risorsa condizionante nei negoziati di tregua tra Ucraina e Federazione russa e dare agli europei un posto di rilievo, anche se non primario, al tavolo dove Vladimir Putin vorrebbe trattare solo con gli Stati Uniti a conduzione Donald Trump. Se i beni russi fossero stati definitamente tolti alla proprietà di Mosca, Trump avrebbe mostrato l’incapacità di allineare gli europei, indebolendolo nei confronti di Putin. Ciò spiega perché Washington sia intervenuta pesantemente su alcuni europei - notizia non raggiunta o sottovalutata dai media - aggiungendo un peso decisivo alla decisione del Consiglio intergovernativo europeo. Germania sconfitta? Sarebbe un’esagerazione: Berlino si è adattata alla realtà, convergendo con la richiesta statunitense e prendendo atto delle difficoltà giuridiche di nascondere/coprire un furto nei confronti di una nazione con cui non esiste uno stato di guerra pur essendoci un conflitto con strumenti di sanzioni economiche reciproche. Secondo me gli strateghi di Berlino sono rimasti soddisfatti dalla postura iniziale di forte sostegno agli europei nordici-orientali - che temono realmente la pressione militare russa - in concorrenza/collaborazione con il Regno Unito per essere il loro protettore, aggiungendo la riconvergenza con l’Ue pur parziale di Ungheria, Cekia e Slovacchia con conduzioni politiche favorevoli a un compromesso con Mosca anche se a sfavore dell’Ucraina. In sintesi, Berlino ha preso una postura di «deterrenza indiretta» restando pronta a trasformarla in diretta se servisse. L’invio di truppe a sostegno della Finlandia e l’acquisizione del sistema antimissile israeliano Arrow sono segnali chiari oltre a quelli di un riarmo nazionale non solo difensivo, ma offensivo, per esempio robotica e mezzi esospaziali. Quindi interpreto la postura tedesca di rinuncia al progetto originario di usare i beni russi sequestrati per finanziare l’Ucraina come un adattamento alle contingenze, senza correzione di una politica di potenza in prospettiva.
Brava l’Italia a conduzione Giorgia Meloni che ha contribuito sostanzialmente a non peggiorare le relazioni con la Russia pur confermando il sostegno all’Ucraina? Certamente, tenendo conto della reazione di Mosca che costerebbe miliardi alle imprese italiane ancora operanti in Russia e a quelle che esportano beni non sanzionati. Va poi valutato che Italia e Germania sono consapevoli che trattare con una potenza nucleare ne richiede un’altra di forza equivalente, necessariamente l’America nel caso perché gli arsenali di Francia e Regno Unito sono troppo piccoli. A me sembra chiaro e faccio fatica a capire chi lamenta la rinuncia a incassare i soldi russi sequestrati. Inoltre, se la Russia esagerasse l’aggressività vi sarebbe un casus belli che renderebbe giuridicamente semplice acquisire i beni russi congelati, e che restano tali, nell’Ue, considerando probabile la convergenza con il deterrente di Washington in tale ipotesi. In sintesi, la rinuncia a finanziare via furto alla Russia l’Ucraina non è un indebolimento della deterrenza, ma un suo rafforzamento compatibile con una possibile tregua basata su scambi.
Ma un lettore potrebbe reagire dicendo perché mai l’Italia dovrebbe aumentare il suo debito partecipando al prestito comune europeo (eurobond) all’Ucraina. Per due motivi: tecnicamente il costo complessivo comune di 90 miliardi può essere ridotto e spalmato nel lungo termine e politicamente sarebbe controproducente non convergere con gli altri europei (e con l’America). Un motivo finanziario è che l’Italia ha bisogno di circa 15 miliardi dal programma europeo Safe per la sua spesa militare e di sicurezza evoluta (anche motivo del contenimento del deficit di bilancio per far cessare la procedura di infrazione, requisito di accesso al Safe). Va aggiunto poi che per le proiezioni italiane nel Mediterraneo costiero e profondo - vitali per l’export - c’è bisogno di convergenza con l’Ue e l’America.
Un altro lettore, questo un mio studente, mi ha chiesto quale sia l’obiettivo finale della politica estera italiana in relazione alla Russia e quindi la postura utile in materia di Roma. Ho risposto che se Putin andasse in crisi, la Cina sarebbe pronta a condizionare più decisamente la Russia creando un grave problema per le democrazie. E se non succedesse, un cambio nel potere a Mosca, che è in guai economici crescenti, potrebbe far emergere una figura più aggressiva. Questa analisi esce dallo schema pro o contro Putin e riguarda la nostra sicurezza: deterrenza per limitare l’aggressività di Putin, ma prudenza per non fare un favore geopolitico alla Cina o a qualche pazzo. Quindi tregua per poi lentamente riaprire i canali economici con la Russia. Lo studente, bravo, mi ha incalzato: non mi nasconda che lei, persona di finanza, alla fine punta a uno scenario di mercato integrato euroasiatico da Lisbona a Vladivostok. Certo che non lo nascondo. E dopo aver visto il nuovo progetto Pax Silica statunitense (togliere il monopolio sulle terre rare alla Cina) lo sottolineo. La Russia ci serve, con vantaggio reciproco, e una convergenza euroamericana per lo scopo è necessaria.
Strategia di geopolitica economica dal punto di vista dell’interesse nazionale italiano. Non si tratta di sovranismo chiuso, ma di tutela realistica della ricchezza nazionale corrente e prospettica che è dovere di un governo democratico con modello liberale mantenerla. L’impoverimento, infatti, è un precursore di domanda popolare di regimi autoritari o peronisti o socialisti oppure dissipativi. Per evitare l’impoverimento stesso, va fatta chiarezza sugli obiettivi esterni ed interni della strategia italiana.
L’attuale governo sta mostrando la consapevolezza di dover sostenere, con una politica estera molto attiva sul piano globale, il modello economico italiano basato sull’export che è messo a rischio - gestibile, ma comunque problematico per parecchi settori sul piano dei margini finanziari - dai dazi statunitensi, dalla crisi autoinflitta per irrealismo ambientalista ed eccessi burocratici dell’Ue, dai costi eccessivi dell’energia e, in generale, dal cambio di mondo in atto senza dimenticare la crisi demografica. Vedremo dopo le soluzioni interne, ma qui va sottolineato che l’Italia non può trasformare il proprio modello economico dipendente dall’export senza perdere ricchezza. La consapevolezza di questo punto è provata dalla riforma del ministero degli Esteri: accanto alla Direzione politica, verrà creata nel prossimo gennaio una Direzione economica con la missione di sostenere l’internazionalizzazione e l’export delle imprese italiane in tutto il mondo. Non è una novità totale, ma mostra una concentrazione di risorse e capacità geoeconomiche e geopolitiche finalmente adeguate alla missione di un’Italia globale, per inciso titolo del mio libro pubblicato nell’autunno 2023 (Rubbettino editore). Con quale meccanismo di moltiplicazione del potere negoziale italiano? Tradizionalmente, via la duplice convergenza con Ue e Stati Uniti pur sempre più complicata, ma con più autonomia per siglare partenariati bilaterali strategici di cooperazione economica-industriale (i trattati doganali sono competenza dell’Ue, condizione necessaria per un mercato unico europeo essenziale per l’Italia) a livello mondiale.
E con un metodo al momento solo italiano: partenariati bilaterali con reciproco vantaggio, cioè non asimmetrici. Con priorità l’Africa (al momento, 14 nazioni) ed il progetto di «Via del cotone» (Imec) tra Indo-Pacifico, Mediterraneo ed Atlantico settentrionale via penisola arabica. La nuova (in realtà vecchia perché elaborata dal Partito repubblicano nel 2000) dottrina di sicurezza nazionale statunitense è di ostacolo ad un Italia globale? No, perché, pur essendo divergente con l’Ue, non lo è con le singole nazioni europee, con qualche eccezione. Soprattutto, le chiama a un maggiore attivismo per la loro sicurezza, lasciando di fatto in cambio spazio geopolitico. Come potrà Roma usarlo? Aumentando i suoi bilaterali strategici e approfondendoli con Giappone, India, nazioni arabe sunnite, Asia centrale (rilevante l’accordo con la Mongolia se riuscisse) ecc. Quale nuovo sforzo? Necessariamente integrare una politica mercantilista con i requisiti di schieramento geopolitico. E con un riarmo non solo concentrato contro la minaccia russa, ma mirato a novità tecnologiche utili per scambiare strumenti di sicurezza con partner compatibili. Ovviamente è oggetto di studio, ma l’Italia ha il potenziale per farlo via progetti condivisi con America, europei e giapponesi nonché capacità proprie. Considerazione che ci porta a valutare la modernizzazione interna dell’Italia perché c’è una relazione stretta tra potenziale esterno e interno.
Obiettivi interni
La priorità è ridurre il costo del debito pubblico per aumentare lo spazio di bilancio utile per investimenti e detassazione stimolativi. Ciò implica la sostituzione del Pnrr, che finirà nel 2026, con un programma nazionale stimolativo (non condizionato dall’esterno) di dedebitazione: valorizzare e cedere dai 250 a 150 miliardi di patrimonio statale disponibile, forse di più (sui 600-700 teorici) in 15 anni. Se ben strutturata, tale operazione «patrimonio pubblico contro debito» potrà dare benefici anticipativi via aumento del voto di affidabilità del debito italiano riducendone il costo di servizio che oggi è di 80-90 miliardi anno. Già tale costo è stato un po’ ridotto dal giusto rigore della politica di bilancio per il 2026. Con il nuovo programma qui ipotizzato, da avviare nel 2027 per sua complessità, lo sarà molto di più dando all’Italia più risorse per spesa sociale, di investimenti competitivi e minori tasse.
Stimo dai 10 ai 18 miliardi anno di risparmio sul costo del debito e un aumento di investimenti esteri in Italia perché con voto di affidabilità (rating) crescente. Senza tale programma, l’Italia sarebbe condizionabile dalla concorrenza intraeuropea e senza i soldi sufficienti per la politica globale detta sopra. Ci sono tante altre priorità tecniche sia per invertire più decisamente il lento declino economico dell’Italia, causato da governi di sinistra e/o dissipativi, sia per rendere più globalmente competitiva l’economia italiana. Ma sono fattibili via un nuovo clima di cultura politica che crei fiducia ed ottimismo sul potenziale globale dell’Italia. Come? Più ordine interno, investimenti sulla qualificazione cognitiva di massa, sulla rivoluzione tecnologica, in sintesi su un’Italia futurizzante. L’obiettivo è attrarre più capitale e competenze dall’estero, comunicando credibilmente al mondo che l’Italia è terra di libertà, sicurezza, opportunità e progresso. Non può farlo solo la politica, ma ci vuole il contributo dei privati entro un concetto di «nazione attiva», aperta al mondo e non chiusa. Ritroviamo il vento, gli oceani.
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- La missione di Prevost in Turchia aiuta ad abbattere il «muro» del Mediterraneo tra cristianità e Islam. Considerando anche l’estensione degli Accordi di Abramo, c’è fiducia per una florida regione multireligiosa.
- Leone XIV visita il tempio musulmano di Istanbul ma si limita a togliere le scarpe. Oggi la partenza per il Libano con il rebus Airbus: pure il suo velivolo va aggiornato.
Lo speciale contiene due articoli.
Pur non essendo credente, da sempre raccomando a colleghi ricercatori e studenti in economia e geopolitica economica di includere nei loro studi le religioni, perché mostrano una relazione forte con tali settori disciplinari. Nelle contingenze di questa epoca vedo una correlazione fortissima tra un’estensione degli Accordi di Abramo abbozzati da Emirati e Israele nel 2019 su pressione della prima amministrazione Trump che continua nella seconda.
In quell’anno fui tra i relatori (per un tema economico) in un mega-convegno negli Emirati, ad Abu Dhabi, a cui parteciparono tutti i Paesi islamici (eccetto gli sciiti iraniani) e parecchi tra i presenti mi chiesero quale sarebbe stata la posizione dei cristiani, perché nelle cene si ipotizzava la creazione di un sito abramitico dove fossero contigue per simbolismo di pace una moschea, una sinagoga e una chiesa cristiana. Non seppi rispondere, ma dissi che l’ingaggio dei cristiani sarebbe stato fondamentale per una «geoeconomia abramitica» che desse struttura a un mercato del Mediterraneo costiero e profondo, connesso con l’Indo-Pacifico e con l’Atlantico. Lo chiamai Ekumene.
Feci un balzo sulla sedia quando, a fine agosto 2023, in occasione del G20 a New Delhi, America, Arabia, Emirati, Francia, Germania, India, Italia e Regno Unito siglarono un accordo preliminare per creare la «Via del cotone» (Imec) tra India e Mediterraneo (con sbocco ad Haifa) via penisola arabica come percorso più breve tra Indo-Pacifico ed Atlantico settentrionale. La probabilità di Ekumene stava aumentando.
Oggi dalle cronache vedo che papa Leone XIV in visita in Turchia ha fatto annunciare dal Vaticano il progetto di un ampio summit (interreligioso?) a Gerusalemme nel 2033 con formato giubilare. Poiché la creazione di Ekumene richiede l’abbattimento del più che millenario Muro del Mediterraneo tra cristianità e mondo islamico, mi sono chiesto se la Chiesa cattolica, sempre aperta al dialogo interreligioso, si stia muovendo verso una specifica convergenza abramitica con concreti effetti geoeconomici e geopolitici.
Lo spero, e qui fornisco un motivo di «salvazione in terra» ai cultori della «salvazione in cielo». Lo scenario geoeconomico su cui sto lavorando da anni con miei ricercatori vede una regione economica centrata sul Mediterraneo costiero e profondo, connessa sia con il Pacifico sia con l’Atlantico, come luogo di maggiore moltiplicazione della ricchezza nel mondo e per tutte le nazioni partecipanti, anche perché stimolativo di uno sviluppo enorme dell’Africa. Non è che questo scenario possibile lo veda solo il mio gruppo di ricerca. La Cina lo interpreta come una riduzione della sua influenza sul Sud globale (in effetti strategia statunitense). L’Iran vedrebbe il pericolo di compressione ed esclusione. Così come la Russia che punta a creare una fascia orizzontale tra Mar Rosso e Atlantico di suo dominio sia in collaborazione sia (motivo più forte) in competizione con la penetrazione cinese.
Infatti, nel settembre 2023, un mese dopo l’accordo di New Delhi detto sopra, Hamas attaccò Israele su ordine iraniano (probabilmente le milizie semi-indipendenti e non il regime politico) forse stimolato riservatamente da Pechino per generare una reazione bellica di Israele stessa che poi impedisse ai sauditi e ad altri sunniti di procedere sia con l’Imec, dove Israele era il terminale mediterraneo, sia con gli Accordi di Abramo. Per inciso, la Cina aveva avviato una pressione diplomatica per far convergere Iran ed Arabia e ridurre l’influenza statunitense.
In sintesi, la macroregione economica indo-pacifica-mediterranea-africana-atlantica è vista come uno dei futuri centri economici (potenziali) del pianeta non solo da ricercatori, ma, soprattutto, dalle maggiori potenze del globo. Per la media potenza geopolitica italiana, basata su un modello di forte dipendenza dall’export e internazionalizzazione delle sue imprese, il vantaggio di una posizione centrale in una futura Ekumene estesa sarebbe enorme. Per tale motivo, penso, la presidenza del Consiglio ha voluto gestire direttamente sia il progetto Mattei per l’Africa (14 nazioni) e dintorni, sia la posizione italiana nell’Imec nonché la strategia dei parteniariati a livello globale. È ragionevole pensare che se il Vaticano aderisse agli Accordi di Abramo, Roma otterrebbe una centralità sia spirituale sia geoeconomica.
E per quella geopolitica? La Roma italiana deve necessariamente avvalersi sia della convergenza dell’Ue (per i soldi) sia degli Stati Uniti (per moltiplicare la forza geopolitica), ma se si aggiungesse quella con la Roma cattolica una centralità sarebbe meno difficile da raggiungere, anche tenendo conto che la politica estera italiana non cerca supremazie, ma intelligentemente e realisticamente collaborazioni paritarie. Penso che una chiacchierata in materia tra governo italiano e Vaticano sarebbe utile.
Il principio di separazione tra Stato e Chiesa, in realtà, ha confini spugnosi e rende importante il dialogo tra «salvazione minore» e «salvazione maggiore». Dove il punto è rendere la religione uno strumento di convergenza e non di guerra. Vedo due fasi per i cristiani e gli islamici:
1) riconvergenza tra le varianti delle due fedi in ciascuna area, cioè riconvergenza intra-sunnita tra Islam wahabita (Saudi) e Fratelli musulmani (Turchia, Qatar) e, per quanto possibile, tra sunniti e sciiti (Iran) e per l’area cristiana riconvergenza tra cattolici, ortodossi e protestanti. Non cercando rinunce dottrinali, ma convergenze per la «salvazione in terra»;
2) passo strutturante precursore di una solida convergenza abramitica: pax, shalom, salam.
Il Papa in moschea. Senza pregare
Papa Leone sta effettuando il suo primo viaggio apostolico (dal 27 novembre al 2 dicembre) con prima tappa in Turchia per onorare la memoria del primo Concilio ecumenico della Chiesa, tenutosi nel 325 nell’antica città bizantina di Nicea e che corrisponde all’attuale Iznik, 130 chilometri a Sudest di Istanbul. Al celebre Concilio, indetto dall’imperatore Costantino per definire il dogma della divinità di Cristo, il pontefice ha dedicato un’articolata e profonda Lettera apostolica intitolata In unitate fidei. Proprio in questa Lettera, papa Prevost spiega lo scopo del viaggio apostolico in Turchia, che consiste nell’incoraggiare «tutta la Chiesa» a un «rinnovato slancio» nella «professione della fede». Quella fede biblica, professata in Oriente e in Occidente, che «da secoli costituisce il patrimonio condiviso tra i cristiani», la quale merita di essere «confessata e approfondita» in maniera «sempre nuova e attuale». Ieri, papa Leone ha visitato la Moschea Sultan Ahmed, detta la «Moschea blu», considerata «tra i luoghi più simbolici di Istanbul». Il pontefice è stato accompagnato nella visita dal ministro turco della Cultura, Mehmet Nuri Ersoy, dal mufti di Istanbul Emrullah Tuncel e dall’imam Kurra Hafiz Fatih Kaya. Tra i presenti alla visita, il cardinal Kurt Koch, prefetto del dicastero per la Promozione dell’unità dei cristiani e il cardinal George Koovakad, prefetto del dicastero per il Dialogo interreligioso e abituale organizzatore dei viaggi pontifici. Leone ha vissuto la visita al tempio sacro musulmano «in silenzio» e «in spirito di raccoglimento e di ascolto», dimostrando «profondo rispetto» del luogo e della fede «di quanti si raccolgono lì in preghiera». Non diversamente da come fecero i suoi predecessori Francesco, Benedetto e Giovanni Paolo, i quali visitarono moschee e sinagoghe prima di lui. Vatican news aggiunge che il muezzin Askin Musa Tunca presente alla visita papale ha dichiarato ai giornalisti che il pontefice avrebbe voluto «vedere di più» per «sentire l’atmosfera della Moschea». E in ogni caso papa Leone è parso al dignitario islamico «molto soddisfatto». Quello che però Vatican news omette di riportare, lo fa notare fin dal titolo il sito cattolico indipendente Silere non possum. Infatti, il muezzin Tunca, sempre nel colloquio coi giornalisti, ha dichiarato di aver detto al pontefice che «se voleva poteva pregare» (testuale) lì in moschea. Ma il Papa, a piedi scalzi, avrebbe replicato così: «No, osserverò in giro». E anche qui si vede lo spirito profondo e lungimirante di papa Leone. Non rinnegare nulla del vero «ecumenismo» e dell’autentico «dialogo interreligioso», sorto a seguito del Concilio Vaticano II. Inserendo però le «novità conciliari» all’interno di una teologia più sobria e dogmaticamente ordinata, che i cattolici chiamano la «sacra Tradizione». A margine del viaggio apostolico e dei suoi voli, è poi apparsa una notizia che sembra kafkiana, ma che pare fondata a proposito del caso Airbus. La celebre compagnia aerea infatti ha dovuto bloccare all’improvviso circa 6.000 velivoli per ragioni di «manutenzione straordinaria». E l’aereo A320 su cui vola il pontefice, e che oggi pomeriggio verso le 15 dovrebbe portarlo a Beirut e il 2 dicembre a Roma, potrebbe essere fermato per la «sostituzione di un componente». Senza però cambiare il programma ufficiale del pontefice riportato dai media vaticani.





