Lo considera un risarcimento morale?
«Anche quello economico non mi sarebbe dispiaciuto. L’avrei usato per fare del bene».
La sua carriera politica scorreva magnificamente.
«Fino al 13 ottobre 2015. Erano le sei di mattina. Dieci finanzieri suonarono il campanello. Sembrava la scena di un film sui narcos. In un attimo, la mia vita crollò. Uscii di casa. Fuori c’erano già i giornalisti e le telecamere».
Ex senatore e sottosegretario alle Infrastrutture, allora era vicepresidente della Lombardia. Le contestarono corruzione, concussione e turbativa d’asta.
«Non capivo. Non riuscivo a rendermi conto. Guardavo quel mandato d’arresto sbigottito: “Ma perché si sono inventati queste accuse?” dissi. E loro: “Faccia la borsa e ci segua”. Mi ritrovai a San Vittore».
Chi erano i suoi compagni di cella?
«Uno scontava cinque omicidi, l’altro una condanna per droga. Furono gentili. C’erano i letti i castello: mi chiesero se volevo dormire sopra o sotto».
Quarantuno giorni di reclusione.
«Li passai leggendo e rileggendo le quattrocento pagine dell’ordinanza, giorno e notte. Continuavo a interrogarmi su come avessero potuto interpretare con tanta malafede tutte quelle banali telefonate».
Quante?
«Trecentomila. Mi intercettavano ormai da quattro anni. Avevano cominciato mentre ero coordinatore regionale del Popolo delle libertà e organizzavo le manifestazioni in difesa di Berlusconi, su sua richiesta».
Con il megafono in mano, denunciava «l’uso strumentale della giustizia».
«Riuscivo a portare davanti al tribunale di Milano anche mille persone. Arrivavano pullman pieni di gente per protestare».
L’inchiesta le sembrò una rappresaglia?
«Le intercettazioni scattarono pochi giorni dopo la fine di quelle manifestazioni».
Non fu una coincidenza?
«Viene da pensar male. Di sicuro, la vicinanza a Berlusconi l’ho pagata cara».
Qual era il suo assillo in carcere?
«La famiglia. Per dieci giorni non ho potuto parlare con nessuno. Cosa pensavano mia moglie, i miei figli, i miei nipoti? Non avevo pace».
I giornali la chiamavano il «faraone di Arconate».
«Ero solo un sindaco amato e rispettato».
Veniva definito ricchissimo e spregiudicato.
«Vengo da una famiglia di contadini. Mia madre mi lavava nella stalla, la parte calda della casa. E usavo l’acqua per ultimo, visto che ero il più piccolo di quattro figli. Sono stato l’unico che ha avuto la possibilità di studiare: prima alle superiori, poi all’università. Ho insegnato per 24 anni, dopo ho avviato una piccola impresa e ho cominciato a fare politica».
Berlusconi commentò il suo arresto?
«Guardavamo la piccola televisione di un compagno di cella. Spuntò al telegiornale e disse: “Mantovani è una persona perbene”».
Dopo altri 142 giorni ai domiciliari, tornò in consiglio regionale. I 5 stelle, per protesta, occuparono l’aula.
«Vennero con i fischietti e le arance in mano. Urlavano come ossessi. Gente disumana. Me li ricordo tutti: nome, cognome, indirizzo».
E i suoi compagni di partito?
«Molti ne approfittarono per prendere le distanze. Fui abbandonato da Forza Italia. Solo Berlusconi mi chiese di ricandidarmi nel 2018. Ma ero sotto processo: rifiutai. Lui insistette: “Devi tornare a Roma. Ho bisogno di avere accanto amici che portano nella carne le ferite della malagiustizia”».
Alla fine, però, non venne candidato.
«Il suo cerchio magico non mi mise in lista. Fui escluso».
Nel 2019, in primo grado, prese cinque anni e sei mesi.
«Purtroppo, non fu una sorpresa. Il giudice era lo stesso che aveva condannato Berlusconi».
Seguì il processo?
«Con una rabbia indescrivibile. Vedevo i testimoni sfilare, seguivo gli interrogatori, ascoltavo le domande. L’obiettivo era evidente. E veniva pure palesato con disinvoltura. Mi ripetevo: “Perché interpretano falsamente cose che hanno spiegazioni tanto banali?”».
Ad esempio?
«L’intercettazione che veniva reputata la prova regina. Il mio architetto parlava con un suo amico: “Il capo mi sta girando due lavori, per la prima volta nella sua vita”, raccontava. Loro si convinsero che aveva detto “villa”, invece che “vita”».
Era l’accusa principale: una ristrutturazione privata in cambio di lavori pubblici.
«Che non ebbe mai, tra l’altro. Solo nel processo d’appello, finalmente, l’ennesima relazione tecnica rese ancora più lampante l’intercettazione. Ricordo ancora il giudice che, dopo avere riascoltato la telefonata in aula, si voltò verso il procuratore generale: “Ha sentito? Ha detto vita”».
Venne assolto nel 2022. Intanto, s’era iscritto a Fratelli d’Italia.
«Spero che la mia storia sia servita a far riflettere sulla cattiva giustizia».
Sente questa riforma anche un po’ sua?
«È di Giorgia Meloni. Posso aver dato un piccolo contributo, forse».
Avete parlato della vicenda?
«Mi è sempre stata molto vicina. È una donna di grande valore, sia politico che umano».
Si è ricandidato a Bruxelles, nel 2024.
«Ho ripreso i miei 40.000 voti, quelli di una volta. Sono un sopravvissuto».
Ha chiesto un risarcimento di mezzo milione di euro per ingiusta detenzione.
«Che motivo c’era di mettermi in carcere? Non esisteva pericolo di fuga e nemmeno di inquinamento delle prove. E come potevo reiterare ipotetici reati avvenuti dieci anni prima? Hanno fatto una cosa spaventosa. È stato un assassinio politico».
La Corte d’appello, in quella causa, ha citato il refuso che lei scovò nell’ordinanza mentre era detenuto.
«Alla fine di un taglia e incolla delle accuse c’era scritto, tra parentesi: “Vedi se modificare questa parte”».
Sarebbe stato un suggerimento del gip al pm?
«Il dubbio viene. Ma hanno chiarito che non era la sede opportuna per discuterne».
Comunque le hanno negato l’indennizzo, tacciandola anche di arroganza.
«Pur di non ammettere l’ingiusta detenzione, si sono appellati a quisquilie».
E adesso?
«Andrò avanti».
La riforma prevede l’Alta corte, al posto della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, per valutare i supposti illeciti dei magistrati.
«Bisognerà anche arrivare alla responsabilità civile. O quantomeno individuare provvedimenti disciplinari che non siano sanzioni ridicole: ad esempio, la perdita di qualche mese di anzianità. Chi ha sbagliato in maniera fragorosa, va mandato in archivio a ordinare fascicoli».
Come andrà il referendum?
«Vinceremo. Per la maggioranza degli italiani, la magistratura sbaglia. E spesso non si tratta di piccoli errori, ma di sbagli devastanti. Dietro ci sono famiglie distrutte, lacrime, vergogna, fallimenti e suicidi».
Ai tempi dell’inchiesta, veniva considerato un aspirante governatore. Vorrebbe ricandidarsi per il Pirellone?
«Deciderà Giorgia. Io sono a disposizione del partito».
Non si sottrae.
«Diciamo che sarei preparato. Conosco bene la regione. Questo lo sanno tutti. Ero il vicepresidente, ma allora fui costretto alle dimissioni».
La sua carriera politica è ripresa.
«Ho perso sette anni. Quelli non me li ridarà indietro nessuno».
Ha ricominciato a organizzare l’indimenticabile festa d’estate a Villa Clerici. La Russa e Santanchè non mancano mai.
«Assieme a tantissimi altri parlamentari. Ignazio e Daniela sono amici veri».
Cos’ha detto davanti ai politici accorsi?
«Che la vita continua. Spero che la mia storia dia un po’ di speranza a chi vive drammi del genere. Non bisogna abbattersi. Oppure, peggio ancora, patteggiare. Comunque, vale la pena di continuare a combattere. La libertà non è solo un diritto, ma un vessillo da sventolare sempre».
Riassuma l’insegnamento.
«Per la quarta volta, l’anno scorso sono stato rieletto sindaco di Arconate con la mia lista civica. Si chiama Forza e Coraggio».