Per giustificare l’invio di armi all’Ucraina, Mario Draghi ha parlato della necessità di difendere la democrazia e la libertà. Un concetto che ha poi ribadito anche Sergio Mattarella, il quale per il 25 aprile ha rispolverato Bella ciao, dicendo che quello russo è un attacco alla democrazia nata dalla Resistenza. Peccato che i primi a mettere sotto i tacchi la democrazia siano proprio il presidente del Consiglio e quello della Repubblica. Anche a voler sorvolare sull’articolo 11 della Costituzione, che ripudia la guerra oltre che come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli anche come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, resta il nodo del Parlamento. Fino a prova contraria, la nostra è una Repubblica democratica e la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. Per quale ragione, dunque, il popolo e il Parlamento che lo rappresenta sono stati tenuti fuori da una decisione che impegna il Paese in una guerra, seppur combattuta per procura? Quando a fine febbraio il Consiglio dei ministri varò un decreto per consentire l’invio di armi a Kiev, il premier se la cavò spiegando che si trattava di «un intervento di sostegno e assistenza al popolo ucraino, consentendo la cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari alle autorità governative dell’Ucraina». Ipocritamente si evitò di parlare di mitragliatrici e lanciarazzi, facendo credere che si trattava di un aiuto a scopo difensivo. E, senza entrare troppo nel merito per evitare domande imbarazzanti, questo votarono le Camere, tenute volontariamente all’oscuro sia dal governo che dai partiti di ciò che stava per essere imbarcato in direzione di Kiev. Spacciare uno Stinger per un mezzo difensivo era già un po’ azzardato, ma ancor di più lo era inviare casse di armamenti cedendole a organizzazioni non governative. All’epoca, quando ancora non era chiaro in quale conflitto ci stavamo infilando, il Parlamento scelse di chiudere gli occhi e di fingere che tutto fosse in regola con il dettato costituzionale.
Del resto, era già successo nell’aprile di 23 anni fa, in piena guerra del Kosovo. All’epoca, il presidente del Consiglio era Massimo D’Alema, uno che in materia di armi poi avrebbe dimostrato una certa esperienza, mentre il vicepresidente era tal Sergio Mattarella, il quale di lì a qualche mese invece avrebbe dato prova anche di un certo interesse per le Forze armate, divenendo ministro della Difesa. A ricostruire alcuni delicati passaggi della storia della nostra Repubblica ci ha pensato l’ex generale Mario Arpino, che nel 1999 era capo di stato maggiore della Difesa. «Il governo, come accade spesso, era traballante e la decisione di partecipare alle operazioni reali (in Serbia, ndr) era stata, come al solito, sofferta, contrastata e mal digerita anche in seno alla maggioranza. Bastava un nonnulla per provocare uno sconquasso. L’ordine politico era di non parlare di operazioni di attacco, ma solo di difesa. Tanto che il ministro in carica, Carlo Scognamiglio, per cavarsela durante un’intervista aveva curiosamente definito l’attività dei nostri Tornado come “difesa integrata”. Suona il telefono, alzo la cornetta e mi passano l’interlocutore, che, senza preamboli, attacca così: “…Sono Mattarella. Ho saputo che un suo dipendente, il comandante del gruppo Tornado di Piacenza, al rientro della squadriglia dalla missione ha rilasciato un’intervista dove ha raccontato di aver lanciato dei missili contro postazioni radar serbe… È inammissibile. La ritengo personalmente responsabile…”». In pratica, il Parlamento, anzi il Paese, doveva restare all’oscuro di quel che stava succedendo. Gli aerei italiani stavano bombardando Belgrado, in violazione della Costituzione e perfino dei sentimenti degli italiani, i quali non avevano certo alcuna voglia di sostenere una guerra, seppur limitata e sbilanciata a favore delle forze della Nato. Però non si doveva sapere. Così come poi si sarebbero giustificati provvedimenti ingiustificabili con la frase «Ce lo chiede l’Europa», all’epoca si fece alzare in volo la squadriglia di bombardieri dell’Aeronautica italiana dicendo «Ce lo chiede l’America».
Oggi, con Mattarella presidente, la storia si ripete. Prima si è fatto passare in Parlamento un generico sostegno alle vittime di un’invasione e ora si decide l’invio di armi pesanti, non più difensive ma offensive, aggirando le Camere e, quel che è grave, l’opinione degli italiani. Tutti i sondaggi evidenziano una netta contrarietà all’invio di carrarmati, cannoni e altri mezzi d’attacco. Addirittura, per evitare che all’interno della maggioranza ci sia qualche crisi di coscienza, il governo pare abbia intenzione di non fare neppure un nuovo decreto, ritenendo valido il precedente, in modo che nessuno abbia da obiettare. L’ordine è lo stesso che Mattarella ricordò al capo delle Forze armate: l’opinione pubblica non deve sapere. Tutto secretato, dice il ministro della Difesa Lorenzo Guerini al Copasir. Siamo in guerra, ma è meglio non dirlo, almeno fino a che un missile non ci pioverà in testa.