2021-06-17
Prodi, il Quirinale e pure il Vaticano. Ecco i filo cinesi che contano davvero
Sergio Mattarella e Papa Francesco (Ansa)
Grillo, Conte e D'Alema sono solo alcuni degli amici della dittatura rossa ad essere usciti allo scoperto. La «lunga marcia» di Pechino per penetrare il nostro Paese era iniziata già ai tempi dell'Ulivo.I filocinesi d'Italia? Sono tanti e potenti, e stanno tutti venendo fuori. Dopo tre anni in cui i due governi a maggioranza grillina guidati da Giuseppe Conte hanno stretto una rete di legami tra Roma e Pechino, ora il governo di Mario Draghi cerca d'imporre un' inversione dimarcia. Draghi spinge per riportare il Paese in una collocazione più lontana dal regime di Pechino, schierandolo in quel fronte occidentale che vede l'aggressività della Cina come minaccia per la libertà globale. Come insegna la fisica, però, ogni spinta provoca controspinte. Così la pressione di Draghi ha costretto gli amici di Xi Jinping a esporsi, e se ne sono schierati alcuni di peso. Il primo è stato Beppe Grillo, che con la sua verve da provocatore è corso a far la riverenza all'ambasciatore cinese Li Junhua proprio mentre il G7 era al culmine, e poi ha usato il suo blog per negare la pulizia etnica che da anni Pechino conduce contro la minoranza islamica di 10 milioni di Uiguri, e per criticare la «propaganda atlantista» che lancia sospetti più che ragionevoli sui laboratori cinesi come origine della pandemia di Covid. Nelle stesse ore, Massimo D'Alema s'è fatto intervistare da New China Tv ed è riuscito nell'impresa di appuntare al petto del dittatore Xi Jinping - e dei suoi predecessori fino a Mao Zedong - un'improbabile medaglia umanitaria: «Credo che la cosa più importante che la Cina è riuscita a fare è togliere almeno 800 milioni di persone dalla povertà». Questo ha dichiarato l'ex presidente del Consiglio, nonché primo premier postcomunista d'Italia, dimenticando milioni di oppositori morti o reclusi nei campi di concentramento cinesi, e tutti gli altri orrori di uno dei più sanguinari totalitarismi della storia. Poi D'Alema ha aggiunto, ammirato: «Nessuno nella storia dell'umanità era riuscito a realizzare una così immensa trasformazione».Si parla di trasformazioni (meglio, di trasformismo) ed ecco viene in mente un altro grande filocinese: e cioè Conte, l'ex presidente del Consiglio che nella primavera 2019 per primo in Europa ha messo la firma sotto i protocolli con cui Xi Jinping spinge per la creazione di un ponte infrastrutturale tra Pechino e il Vecchio Continente. Il giorno in cui Grillo è andato a fare la riverenza all'ambasciatore cinese, Conte doveva essere con lui, ma aveva percepito il rischio di una polemica e s'era tirato indietro. Resta il fatto che per tutto il 2020, sotto Conte, Palazzo Chigi ha celebrato un'ininterrotta apoteosi della Cina come salvifico fornitore di mascherine e di respiratori. Peccato sia scoperto che le mascherine made in China erano per metà farlocche e che i respiratori, di cui guarda caso proprio D'Alema aveva spinto l'acquisto attraverso l'amico supercommissario Domenico Arcuri, non funzionassero. Sono questi i grandi filocinesi di oggi. Cui si aggiunge qualche esponente nei media, come Marco Travaglio che giorni fa, per difendere Grillo, ha scritto che «basta leggere i numeri dell'economia per capire che l'Italia può fare a meno più degli Stati Uniti che dalla Cina». Di certo non è il solo giornalista ad aver scoperto inclinazioni filopechinesi, se si pensa alla quantità di accordi siglati due anni fa tra Cina e Italia nella tv e nella carta stampata sotto l'attenta regia di Vito Crimi, allora sottosegretario grillino alla presidenza del Consiglio con delega all'editoria: nell'elenco c'erano l'Ansa, l'Agi, il Sole 24 Ore, la Rai… Certo, dietro e prima di tutto questo c'è una lunga marcia, più lunga ancora di quella del compagno Mao. Una marcia iniziata poco prima del 2000, quando Romano Prodi stava per concludere la sua missione da presidente dell'Ue. È da allora che Prodi dice che Pechino abbia realizzato «un comunismo sui generis in cui conta la meritocrazia», ed evidentemente è un modello che gli piace. Per questo può dirsi l'alfiere della via italiana alla Cina o, per chi la vede nell'altro modo, dell'invasione cinese dell'Italia. Prodi ha lavorato per quell'obiettivo anche da capo dei governi dell'Ulivo, ed è questa forse la sola cosa (con l'antiberlusconismo) che lo vede d'accordo con D'Alema. Ancora un anno fa, del resto, era Prodi a premere perché il governo Conte accelerasse sugli accordi con la Cina per il 5G , la tecnologia per le telecomunicazioni che oggi si teme sia il «cavallo di Troia» tecnologico con cui colossi come Huawei potrebbero regalare una messe di dati strategici al governo di Pechino. Anni fa era stato l'ex ministro prodiano dei Lavori pubblici Paolo Costa, nonché ex presidente dell'Autorità portuale di Venezia, ad aprire i porti italiani all'occupazione cinese. A spendersi per le intese con la Cina sulla Via della seta, nel 2019, è stato un altro filocinese di peso: l'economista Michele Geraci, allora sottosegretario allo Sviluppo economico per la Lega, ma che il capo dello Stato Sergio Mattarella nel 2015 aveva nominato Cavaliere dell'Ordine della stella d'Italia per le sue attività tese a creare un «ponte culturale» verso la Cina. Due anni fa è stato Geraci ad adoperarsi per la strana visita di Xi Jinping a a Palermo, la città di Mattarella, che a sua volta ha accolto il presidente cinese al Quirinale con una cerimonia dei corazzieri a cavallo, solennità che non aveva riservato ad esempio a Donald Trump. La stessa deferenza filocinese ha mostrato fin dall'inizio del suo pontificato papa Francesco. Nel 2020 il suo Vaticano ha rinnovato un accordo che ha dato al Partito comunista cinese il diritto di nominare il capo della Chiesa nella Repubblica popolare. A nulla sono servite le proteste di Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong, il quale un anno fa prediceva che l'accordo avrebbe «ucciso la Chiesa in Cina». Da allora, gli arresti di religiosi sono continui. In maggio un vescovo, sette sacerdoti e dieci seminaristi sono stati fermati e costretti alla «rieducazione politica». La Chiesa non ha detto una parola. Da questo punto di vista, forse il filocinese più potente d'Italia sta in Vaticano e si chiama Jorge Bergoglio.
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