«Il mio profumo cattura l’essenza del mare»

«Il mio profumo cattura l’essenza del mare»
Acqua dell'Elba
  • L'architetto Fabio Murzi che nel 2000 ha dato vita con la sorella e un socio all'Acqua dell'Elba: «Non avevamo esperienza, ci dicevano che non ce l'avremmo fatta: ora esportiamo all'estero, gestiamo ben 26 boutique e stiamo lanciando una linea di creme solari».
  • Regenesi si dedica alla rigenerazione di materiali di post-consumo in oggetti e accessori moda dal design innovativo e completamente sostenibile.

Lo speciale contiene due articoli.


Il profumo del mare. La fresca brezza dell'isola. I sentori olfattivi della macchia mediterranea. Non è facile racchiudere tutto in un flacone di vetro. L'impresa impossibile è perfettamente riuscita a tre giovani avventurosi che nel 2000 crearono l'Acqua dell'Elba. «Mia sorella Chiara, Marco Turoni e io», racconta Fabio Murzi, presidente del marchio, «fummo ispirati dopo un giro in barca che ci portò davanti allo scoglio di Paolina dove fu ritrovata, nella stiva di un veliero del II secolo, una raffinata statuetta d'avorio, tappo che sigillava un'essenza preziosa, recuperato dalla Soprintendenza negli anni Sessanta e ancora oggi conservato al museo archeologico di Marciana Alta all'Isola d'Elba. Fu il nostro messaggio nella bottiglia, donatoci dal mare». In un settore controllato da poche multinazionali non era cosa semplice riuscire a inserirsi nel vasto mondo della profumeria. «La nostra è la storia di una piccola impresa italiana, di una manifattura artigianale di profumi. L'idea di partenza era quella di restituire l'emozione del profumo del mare e dell'isola ricreandolo in qualcosa di più di una fragranza, una vera e propria essenza».

Vi siete sempre occupati di profumi?

«Assolutamente no, noi facevamo tutt'altro. Mia sorella, come ogni donna, era appassionata di profumi ma non stava lavorando perché aveva un bimbo piccolo, Marco Turoni aveva 19 anni e si era appena diplomato mentre io facevo l'architetto. Abbiamo iniziato da zero e tutto è stato molto difficoltoso, nemmeno le associazioni di categoria ci sapevano indicare come costruire il laboratorio o dove comprare l'alcol per fare i profumi, che si acquista con delle autorizzazioni delle dogane e della Finanza. Quindi l'inizio è stato travagliato e complicato. Ma fu una sfida che ci appassionò da subito».

Il naso, creatore di profumi, ha un nome?

«Ci appoggiamo a maestri profumieri importanti. Il brief nasce da noi stessi e lo diamo a più di un naso essenziere che poi valutiamo direttamente. Ma la scelta finale è nostra. Un profumo è memoria e al profumo sono legati ricordi. Per noi sono il mare e l'Isola d' Elba».

Negli anni il vostro profumo si è modificato?

«Noi abbiamo una linea classica, uomo e donna, nata 20 anni fa. E questa è la particolarità dell'azienda artigiana. Poi abbiamo aggiunto altre linee ma non con la frequenza delle marche commerciali che ogni sei mesi escono con un nuovo prodotto. Dopo 20 anni, abbiamo dieci profumi. Ma bisogna innovare».

Le multinazionali cambiano di continuo, ma lei non pensa che un profumo dovrebbe identificare una persona, essere una sorta di biglietto da visita?

«Sono d'accordo. La maggior parte dei nostri clienti è molto fedele al profumo che ha acquistato magari tanti anni fa. Ci sono persone che non riescono più a trovare profumi che le aziende hanno tolto di produzione e sono costrette a orientarsi su altri senza esserne mai completamente soddisfatte. Poi c'è chi, soprattutto le donne, ama cambiare. Dopo un anno dal nostro inizio ci dissero che non avevamo futuro proprio perché non cambiavamo e non entravamo in profumeria con novità continue. Hanno avuto torto».

Dove si trova la vostra sede?

«A Marciana Marina, antico borgo marinaro. Qui sono i nostri laboratori e la nostra sede. Qui nasce l'idea che si innesta sui valori di cultura, tradizione e innovazione artigiana tipici della Toscana. Acqua dell'Elba riflette un unicum: la bellezza dell'ambiente insulare del Parco nazionale dell'arcipelago toscano. Portiamo avanti una ricerca costante e una produzione limitata per la difficoltà di reperire e selezionare le materie prime e per la lentezza dei processi produttivi».

Avete una rete di vendita capillare.

«Sì, 19 monomarca all'Isola d'Elba e sette nelle città turistiche più importanti: Roma, Firenze, Venezia, Siena, Lucca, Palermo. Oltre a 580 profumerie clienti. Non siamo ancora arrivati a Milano ma ci stiamo lavorando perché tanti nostri clienti sono milanesi. Da un paio d'anni abbiamo iniziato a esportare. È la fida del futuro cercare di crescere nei mercati internazionali».

E ora proponete anche nuovi prodotti solari.

«È una linea particolare che pone attenzione all'ambiente, alla natura e alla salute della pelle. Sono sette prodotti, tre protezioni corpo, viso, doposole e uno scrub, dotati del complesso ultra marine coral complex, tutti principi attivi che vengono dal mare, dal bacino del Mediterraneo: alga corallina, ricca di proteine e sali minerali, un cocktail marino abbinato all'acido ialuronico. Non contengono parabeni, siliconi, oli minerali e alla base dello scrub c'è sabbia marina che dopo l'uso torna all'ambiente».

Acqua dell'Elba ritorna con la sua esclusiva essenza alla terza edizione del Versilia yachting rendez vous.

«E lo fa in grande stile aggiudicandosi il titolo di “official scent" dell'intera manifestazione, in programma dal 9 al 12 maggio al porto di Viareggio. La presenza per il terzo anno consecutivo di Acqua dell'Elba continua sulla scia dei valori universali del mare che ci legano a questa importante manifestazione dell'alto di gamma del made in Italy, in cui crediamo fortemente. Essere partner del Vyr significa ribadire la linea ideale che ci unisce al mondo della nautica dove la cura del prodotto, l'attenzione al particolare e la dedizione per il lavoro da parte degli imprenditori, dei designer di yacht e delle maestranze dà vita a imbarcazioni uniche, così come noi facciamo quotidianamente nei laboratori, creando i nostri profumi. Al tempo stesso sottolinea l'elemento della nostra identità, la passione per il mare».

La collezione solari di Acqua d'Elba

Acqua dell'Elba

Con Regenesi, i rifiuti si trasformano in borse e accessori

Borse, accessori e molto altro. Linee di prodotto firmate da designer internazionali e basate su un ciclo virtuoso di produzione che trasforma i rifiuti in bellezza, unendo stile, funzionalità e design sostenibile. Un lusso accessibile, rigenerato e innovativo. Questa è Regenesi, azienda che dal 2008 si dedica alla rigenerazione di materiali di post-consumo in oggetti e accessori moda dal design innovativo e completamente sostenibile.

Nata nel maggio 2008, grazie a un'idea dell'imprenditrice Maria Silvia Pazzi, l'azienda rappresenta oggi un'eccellenza del Made In Italy nella produzione di accessori moda e oggetti di design per la casa interamente realizzati con materiali di scarto industriale, a cui Regenesi dona una nuova vita.

La Filosofia

Dal 2009 Regenesi investe al 100% nella trasformazione innovativa e sostenibile di materiali di post-consumo, scegliendo di scommettere su una produzione «responsabile» di accessori moda, oggetti per la casa, gioielli e prodotti nati dalle collaborazioni con altri brand, il tutto lasciando spazio alla creatività dei designer che reinventano dai rifiuti prodotti unici, sempre caratterizzati dall'impronta dell'italian style. I rifiuti diventano così materie prime dalle infinite qualità in grado di assumere forme nuove, funzionali e di grande stile.

La filosofia Regenesi è racchiusa nel concetto di bello applicato a un processo di trasformazione di qualità e ad alto valore tecnologico e ambientale, proponendo così un modo alternativo di considerare gli oggetti, sia nella loro vita precedente, sia in quella nuova e completamente sostenibile.

I materiali

Alluminio, plastica, pelle, tessuti, cartone, gomma e vetro, tutto rigenerato e trasformato. Ma non solo. Con 100 lattine, 300 bicchierini da caffè o con i pannelli di vecchi frigoriferi si producono oggetti di design. E altri con gli scarti di vera pelle provenienti da concia vegetale, lattice (estratto da piante di caucciù), acqua, sali ed agenti coloranti naturali. Ci sono le montature degli occhiali, manici di borse o di catarifrangenti di biciclette o ancora pezzi di veicoli rottamati. Tutto si riusa, si «regenera».

Il livello di innovazione raggiunto con la lavorazione e la trasformazione dei materiali permette di realizzare prodotti di alta qualità e dalle forme esteticamente sempre più coinvolgenti ottenendo così la «nuova vita migliore» che ogni materia vorrebbe. Mangiare da un piatto in materiale rigenerato o portare in salotto un tappeto realizzato con la gomma che solitamente riveste i campi da gioco, trasporta anche verso una nuova visione degli oggetti del nostro quotidiano.

Per il recupero dei materiali l'azienda sceglie di interfacciare piccole imprese che curano i processi ambientali e non usano materiali tossici.

I designer

Le collezioni Regenesi sono interamente realizzate da designer di fama internazionale. Ognuno di loro ha scelto un materiale in grado di emozionarlo e ispirarlo, e poi ha raccolto la sfida che un approccio al design di post consumo rappresenta rispetto alla tradizione.

Ogni interpretazione, prodotto e disegno nasce grazie all'unione tra il background dei designer e la loro personale visione della filosofia Regenesi, sempre nell'ottica di raggiungere un perfetto equilibrio tra stile, design sostenibile e funzionalità.

Alcuni dei designer Regenesi: Denis Santachiara, Matali Crasset, Marco Ferreri, Giulio Iacchetti, Setsu, Shinobu ito, Kaisli Kiuru e Annalisa Caricato.

Ad affiancare questo gruppo di lavoro c'è poi il progetto Regenesi's design Factory che, oltre a sviluppare il lavoro dei diversi noti designer, crea e disegna direttamente i propri progetti. Si tratta di un gruppo di giovani emergenti provenienti dalle scuole di design più importanti in Italia, tra cui il Politecnico di Torino e l'Università di Venezia.

Le collezioni

Dalla cucina all'ufficio agli accessori. Sono decine gli oggetti del design rigenerato.Una linea di sottopentole realizzati in alluminio rigenerato proveniente da rottamazione di autoveicoli; svuota tasche, portapenne e portaoggetti, tutti realizzati al 100% senza additivi o resine, con plastica riciclata e riciclabile; portablocchi, porta iPad e portabigliettini, in pelle rigenerata e prodotti interamente a mano da artigiani pellettieri italiani; pelle, legno e tessuti rigenerati danno vita a una linea di borse contemporanee.

Lamborghini by Regenesi

Nel 2013 Regenesi e Automobili Lamborghini hanno stretto una partnership per la produzione di una mini-collezione di accessori realizzati grazie al recupero di materiali provenienti dalle linee produttive di Lamborghini. Borse, porta iPad, portafogli e portacarte dal design essenziale, tutti in pelle rigenerata e riciclata dai sedili delle auto.

Dainese by Regenesi

Vissute, consumate e strisciate. Sono le tute Dainese, quelle dei campioni di motociclismo, oggi trasformate in accessori dal design inconfondibile e sostenibile. Pelle rigenerata al servizio dello stile per creare una linea composta da accessori moda per il viaggio, il tempo libero e il lavoro. La linea è realizzata grazie al recupero delle tute dei piloti di MotoGP che hanno dato vita a portachiavi, astucci per smartphone e tablet e portabiglietti da visita.

Il progetto, denominato Moto-recycling, trasferisce quindi in oggetti di uso comune il mito della velocità su due ruote e delle imprese passate dai motociclisti.

Regenesi

«La riforma renderà la giustizia imparziale. Nessun limite ai pm»
Gennaro Varone
Il pubblico ministero Gennaro Varone sulla separazione delle carriere: «Le correnti sono orientate proprio come un partito politico».

«Non è vero che la separazione delle carriere porrà il pubblico ministero sotto il controllo del potere esecutivo». Da questa frase comincia l’analisi di Gennaro Varone, pubblico ministero di recente tornato a Pescara dopo una parentesi romana durante la quale si è occupato di delicate indagini sulla pubblica amministrazione (comprese quella sulle mascherine intermediate dal giornalista Mario Benotti, che ora è al centro delle attenzioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, quella sull’ex socio dello studio di Giuseppe Conte, l’avvocato Luca Di Donna, e quella sulla mensa di Rebibbia).

Osimo 1975: la firma che chiuse la questione di Trieste
iStock

Il testo del prof Raoul Pupo, storico italiano già professore di Storia contemporanea all'Università di Trieste, è stato scritto per il Circolo della Storia, la nuova comunità nazionale che si è costituita un mese fa per la direzione scientifica dello storico Tommaso Piffer, e raggruppa circa duemila appassionati di tutta Italia. I contenuti sono aperti alla libera fruizione, info e adesioni circolodellastoria.it

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Il 10 novembre 1975: ad Osimo venne firmato il Trattato italo-jugoslavo che definiva il confine tra i due Stati ed offriva nuovi spunti per la già buona collaborazione economica fra i due Paesi. Nel 1977 l’entrata in vigore del Trattato fu comunicata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ne prese atto e depose la pietra tombale su ogni ipotesi di costituzione del Territorio Libero di Trieste, così come previsto dal Trattato di pace del 1947.

Ce n’era bisogno, dal momento che il Memorandum di Londra del 1954 aveva già di fatto realizzato la spartizione del mai costituito TLT? Certo che no, secondo i rappresentanti dei profughi italiani dalla zona B, cui la simulazione di provvisorietà contenuta nel Memorandum aveva alimentato l’illusione di poter, prima o poi, chissà in quale modo, recuperare la propria terra. Altroché, era invece il giudizio comune delle cancellerie occidentali, perché la provvisorietà formale del Memorandum era stata concepita soltanto per acquietare le rispettive opinioni pubbliche ed ormai, trascorsi vent’anni, l’effetto era stato raggiunto. Gli sloveni si erano rassegnati alla perdita di Trieste, divenuta nel frattempo un ottimo mercato per tutti gli acquirenti jugoslavi, mentre a diventare la tanto desiderata Novi Trst era stata Capodistria. In Italia molti pensavano che Trieste si trovasse dall’altra parte del ponte rispetto a Trento e la zona B non avevano proprio idea di che cosa fosse.

I rapporti bilaterali negli anni Sessanta nel complesso erano buoni. L’interscambio economico era ottimo, anche perché la Germania federale aveva interrotto i rapporti commerciali con la Jugoslavia dopo che il governo di Belgrado aveva riconosciuto la repubblica democratica tedesca. Fatto ancor più importante, la Jugoslavia costituiva un ottimo cuscinetto strategico per l’Italia che aveva così visto allontanarsi il fronte caldo della guerra fredda, mentre l’Italia e per suo tramite la NATO coprivano le spalle alla Jugoslavia.

Le incognite riguardavano il futuro e cioè il “dopo Tito”, perché erano in molti a chiedersi se la Repubblica Federativa sarebbe sopravvissuta alla morte del suo carismatico fondatore e leader. Alcuni scenari possibili erano davvero molto allarmanti.

Uno di questi era il riallineamento della Jugoslavia all’Unione Sovietica, paventato sia da una parte della stessa dirigenza politica jugoslava che dalla NATO ed in particolare dall’Italia, che si sarebbe ritrovata l’armata rossa alle porte di Monfalcone. Un altro ed ancor più inquietante scenario prevedeva il collasso della compagine federale, con la secessione delle repubbliche del nord ed il successivo intervento militare sovietico in difesa del socialismo ed occidentale a tutela dell’indipedenza slovena e croata: una situazione questa ad altissimo rischio, perché avrebbe potuto innescare un conflitto europeo. Ma anche se non si fosse arrivati alle armi, la frammentazione jugoslava avrebbe danneggiato gli interessi italiani, perché Slovenia e Croazia sarebbero state troppo deboli per fungere da efficace barriera contro le forze del patto di Varsavia.

In ogni caso, se la crisi fosse esplosa con un confine italo-jugoslavo ancora giuridicamente incerto, questo avrebbe concesso una formidabile leva al Cremlino nei confronti dell’Italia. Infatti, se la condizione della zona B era incerta, allora lo era anche quella della zona A e sul destino di Trieste i russi avrebbero avuto probabilmente non poco da dire.

Insomma, tutto consigliava di chiudere anche formalmente la partita, sia per contribuire alla stabilizzazione della Jugoslavia, sia per mettere definitivamente in sicurezza il confine orientale italiano. La spinta decisiva venne nel 1968 dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che suscitò grandissimo allarme anche in Jugoslava e venne seguita dalla proclamazione della “dottrina Breznev, che gettava ombre lunghe sul futuro dello Stato balcanico. In quella circostanza il ministro degli esteri italiano, Medici, oltre a rassicurare il governo di Belgrado che quello italiano non intendeva sollevare rivendicazioni territoriali approfittando della necessità di quello jugoslavo di concentrare le sue forze ai confini con i Paesi del Patto di Varsavia, prese l’iniziativa di proporre colloqui esplorativi sulla possibilità di superare il Memorandum. Partì così un negoziato, affidato all’ambasciatore Milesi Ferretti ed al plenipotenziario Perišić: nonostante il comune intento delle parti a giungere ad una soluzione formale che riproducesse sostanzialmente quella di fatto, l’iter negoziale si rivelò lungo e complesso fino a generare momenti di acuta tensione.

Le questioni da risolvere erano in effetti parecchie, dalle sacche territoriali occupate dagli jugoslavi lungo il confine dell’Isonzo, ai problemi delle viabilità nell’Isontino, alla delimitazione delle acque territoriali nel golfo di Trieste. I nodi politici fondamentali però due.

L’Italia riteneva di detenere ancora formalmente la sovranità su tutti territori che avrebbero dovuto dar vita al mai costituto Territorio Libero di Trieste in nome della “dottrina Cammarata”, in applicazione della quale, dopo l’estensione dell’amministrazione italiana alla zona A , aveva fatto di Trieste il capoluogo della regione autonoma Friuli -Venezia Giulia. Pertanto, intendeva ottenere quale contropartita alla sua rinuncia formale alla zona B la concessione da parte jugoslava di una piccola striscia della zona B medesima. Si trattava di una compensazione prevalentemente simbolica, dal momento che l’area era deserta, ma tornava utile per ampliare l’asfittico distretto industriale di Trieste. Per contro, gli jugoslavi non solo negavano la sussistenza della sovranità italiana sulla zona B in linea con la maggior parte della giurisprudenza internazionale, ma si consideravano essi stessi detentori della sovranità sulla zona fin dal 1954 e di conseguenza non erano affatto disposti a concessioni seppur solo simboliche.

Invece, il governo di Belgrado desiderava estendere le norme di tutela della minoranza slovena previste dall’Allegato al Memorandum anche alle altre province italiane, compresa quella di Udine in riferimento alla ex “Slavia veneta” e chiedeva gli venisse riconosciuto un droit de regard sull’applicazione di tale normativa. Roma invece non ne voleva sentir parlare, vuoi perché secondo il governo italiano in provincia di Udine di sloveni non ce n’erano proprio, neanche nelle valli del Natisone, del Torre e Resia, vuoi perché il “droit de regard” a favore dell’Austria stava procurando infiniti problemi all’Italia nella questione dell’Alto Adige.

Inoltre Aldo Moro, vero protagonista dell’interlocuzione con il governo jugoslavo, amava notoriamente le pazienti tessiture, capaci di assorbire senza troppe scosse novità altrimenti difficili da far accettare sia alle forze politiche che al corpo elettorale. Viceversa Belgrado aveva fretta di concludere, anche perché pressata dagli ambienti sloveni, mentre i ritmi blandi imposti dall’Italia venivano interpretati come sintomi di scarsa convinzione o, peggio, come segnali di una volontà di elusione – in linea con il tradizionale machiavellismo italico – celante il segreto desiderio di non condurre in porto le trattative

Ne seguirono alcuni tentativi di forzatura da parte jugoslava. Il primo avvenne alla fine del 1970, nell’imminenza della visita di Tito in Italia. Al rifiuto italiano di mettere ufficialmente in agenda la questione dei confini, che provocò il malumore jugoslavo, seguì un’indiscrezione stampa, d’incerta provenienza, che rendeva nota l’esistenza dei colloqui riservati. Ne venne un polverone politico-mediatico, che il governo italiano concluse con una dichiarazione ufficiale di Moro nella sua qualità di Ministro degli esteri, secondo la quale l’Italia non era disponibile a rinunciare ai “propri legittimi interessi nazionali”, intendendo la zona B; tale espressione dal governo di Belgrado venne considerata “a carattere specificatamente irredentista” e la visita di Tito fu rimandata di alcuni mesi.

La seconda e ben più grave forzatura arrivò nel 1974, quando il governo jugoslavo fece apporre lungo la linea di demarcazione fra le zone A e B alcuni cartelli stradali con la scritta “confine di stato” a sottolineare la piena sovranità jugoslava sulla zona B. Il governo italiano reagì con una nota durissima che evocava la perdurante sovranità italiana sulla zona B e ne nacque un putiferio, perché il governo di Belgrado decise di alzare l’asticella della crisi, passando dal livello diplomatico a quello delle campagne di stampa e, addirittura, delle dimostrazioni militari simboliche.

A quel punto, divenne evidente che il negoziato andava concluso per evitare un collasso generale dei rapporti italo-jugoslavi che nessuno voleva. Di fronte ai tradizionali incagli, la soluzione sul piano del metodo venne dall’attivazione di un canale negoziale alternativo, che era già stato preparato segretamente nel 1973 dai ministri degli esteri Medici e Minić, affidandolo al Direttore Generale del Ministero dell’industria Italiano, Eugenio Carbone, ed al Sottosegretario presso il Ministero del Commercio Jugoslavo, lo Sloveno Boris Šnuderl. Una scelta del genere già lasciava intuire la preferenza dei due governi per uno spostamento dell’asse del negoziato verso il terreno delle intese economiche, decisamente più praticabile rispetto ai vicoli ciechi dei contenziosi politico-territoriali, anche se ovviamente i due negoziatori vennero assistiti da rappresentanti dei rispettivi Ministeri degli esteri.

Il canale in effetti funzionò, anche perché i due grandi nodi vennero rimossi con una scelta politica dall’alto. In coerenza con l’opinione prevalente all’interno della carriera diplomatica, il governo italiano decise di rinunciare alla compensazione simbolica in zona B, puntando invece a più concrete compensazioni di natura politica – ad esempio, sulla questione delle minoranze – ed economica. A quest’ultimo riguardo, il negoziatore italiano riprese la richiesta di ampliamento della zona industriale di Trieste in territorio jugoslavo, spostando però la ricerca dei terreni necessari dalla zona B al Carso triestino, dove il confine era già definito e dove le aree disponibili erano assai più vaste. Prese corpo in tal modo, su richiesta italiana, l’ipotesi di creare un nuovo distretto industriale alle spalle della città, destinato a risolvere il problema del mancato sviluppo di Trieste vuoi in maniera diretta – generando cioè occupazione – vuoi indiretta, mediante l’incremento dei traffici portuali. A cavaliere del confine quindi sarebbe stata ricavata una zona franca, capace di attrarre investimenti per prodotti diretti all’esportazione facendo convergere le energie imprenditoriali delle aree più dinamiche dei due Paesi, il nord Italia e quella Slovenia che non vedeva l’ora di evadere dalle gabbie del sistema comunista. Da parte sua il governo di Belgrado rinunciò sia all’estensione delle norme di tutela della minoranza slovena alla provincia di Udine, sia al droit de regard, accontentandosi di due dichiarazioni d’intenti unilaterali simmetriche.

Alla fine del 1974 l’accordo era quindi raggiunto, ma dapprima la caduta del quinto governo Rumor e poi la richiesta italiana di attendere le elezioni amministrative del giugno1975, fecero slittare la ratifica parlamentare appena all’autunno. Di conseguenza, la firma giunse il 10 novembre in quel di Osimo.

Le cancellerie occidentali applaudirono, i due governi s’industriarono a presentare l’accordo come il primo raggiunto nello “spirito di Helsinki”, anche se un legame diretto fra il negoziato italo-jugoslavo e quello per la CSCE non c’era mai stato; l’URSS abbozzò; l’opinione pubblica italiana quasi non si accorse dell’accaduto, mentre quella locale triestina protestò, com’era largamente previsto, ma in una misura ed in forme che sorpresero un po’ tutti.

Piero Amara:  «Dai succhi ai milioni col petrolio. Anche io truffato da Mazzagatti»
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L’ex avvocato svela l’ascesa del manager di Gioia Tauro già accusato in Iran e imputato a Roma «Diventò fornitore di Eni grazie a me, ma si tenne le quote. In Calabria aveva relazioni pericolose».

The italian job è diventato un intrigo internazionale. L’agenzia di stampa Bloomberg, da alcune settimane, si sta dedicando agli affari petroliferi del manager calabrese Francesco Mazzagatti, il più pagato in Gran Bretagna (oltre 30 milioni di euro di stipendio nel 2024). Il suo tentativo di acquisire da Shell ed Exxon mobile, con la sua società Viaro Energy Ltd (controllata da Viaro investment Ltd), l’impianto di gas di Bacton, a nord-est di Londra, considerato la «spina dorsale» della struttura energetica inglese, ha attirato l’attenzione dell’agenzia governativa britannica Nsta (l’Autorità di transizione del Mare del Nord che regola l’attività delle industrie di petrolio e gas offshore). Ma anche l’acquisto della Rockerose energy ha portato all’apertura un’inchiesta.

Quando la sinistra era alleata con Hitler
Johann Chapoutot (Wikimedia)
Col saggio «Gli irresponsabili», Johann Chapoutot rilegge l’ascesa del nazismo senza gli occhiali dell’ideologia. E mostra tra l’altro come socialdemocratici e comunisti appoggiarono il futuro Führer per mettere in crisi la Repubblica di Weimar.

«Quella di Weimar è una storia così viva che resuscita i morti e continua a porre interrogativi alla Germania e, al di là della Germania, a tutte le democrazie che, di fronte al periodo 1932-1933, a von Papen e Hitler, ma anche a Schleicher, Hindenburg, Hugenberg e Thyssen, si sono trovate a misurare la propria finitudine. Se la Grande Guerra ha insegnato alle civiltà che sono mortali, la fine della Repubblica di Weimar ha dimostrato che la democrazia è caduca».

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