Quando 22 anni fa, costretto da un voto popolare, Massimo D’Alema fece le valigie appena quattro mesi dopo aver varato il suo governo bis, l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi affidò l’incarico di traghettare il Paese alla fine della legislatura a Giuliano Amato. Il dottor Sottile (questo il suo soprannome nel giro socialista) all’epoca era ministro del Tesoro e del Bilancio e prima ancora era stato per dieci mesi presidente del Consiglio, nel periodo di Mani pulite. Ricordo come titolai il giornale che allora dirigevo: «Ci tocca pure l’amaro Giuliano», perché il suo arrivo a Palazzo Chigi era un boccone difficile da mandare giù, soprattutto ricordando che pochi anni prima l’odierno garante della Costituzione (è il presidente della Consulta) aveva messo le mani in tasca agli italiani, rendendosi responsabile di un prelievo forzoso sui conti correnti. Però non ho mai pensato che a distanza di anni mi si sarebbe potuta presentare l’occasione di riprodurre lo stesso titolo. Non ci sono bastati una sfilza di governi tecnici e di premier non scelti dagli elettori, ma potremmo doverci sciroppare un altro esecutivo calato dall’alto e per di più guidato da un burosauro della prima Repubblica. La prima volta che Amato mise piede a Palazzo Chigi, come segretario del Consiglio dei ministri, era l’agosto 1983, con il governo Craxi. Poi fu ministro del Tesoro con Giovanni Goria prima e Ciriaco De Mita dopo. Quindi due volte premier, una ministro dell’Interno e l’altra delle Riforme costituzionali. Risultato, l’amaro Giuliano è in politica ininterrottamente da almeno quarant’anni, con incarichi vari come la presidenza dell’Antitrust, della Treccani e, appunto, della Corte costituzionale. Tutti ovviamente di rigorosa nomina partitica.
Ecco, a quanto pare potrebbe toccare a un tipo simile fare da traghettatore fra Draghi e chi vincerà le prossime elezioni. Una minaccia che sicuramente è stata messa in circolo dal Quirinale, allo scopo di convincere anche i più riottosi a tenersi stretto l’attuale inquilino di Palazzo Chigi. Già, perché se l’ex governatore della Bce non accettasse il bis, potrebbe essere Amato a rappresentarci. Mentre la crisi morderà alle calcagna, sarebbe lui a stabilire le politiche economiche. Il che ovviamente mi fa correre un brivido lungo la schiena. Non soltanto perché esattamente trent’anni fa varò notte tempo il sei per mille, con cui fece la cresta sui risparmi degli italiani, ma nel 2011, prendendosi una pausa fra un incarico e l’altro, concesse un’intervista al Corriere della Sera in cui sostenne che la patrimoniale era l’unica via d’uscita alla crisi economica italiana. Insomma, per nulla pentito del prelievo forzoso, era pronto a un nuovo scippo, dimostrandosi recidivo.
Dunque, l’idea che a Palazzo Chigi ci sia lui non può che far rizzare i capelli a chiunque ricordi come tutte le stangate fiscali, dalle sue del 1992 fino alle più recenti di Mario Monti, non abbiano mai risolto il problema della mancata crescita del Paese, ma semmai l’abbiano aggravata. Perciò, se davvero Mattarella affidasse a lui il compito di condurre l’Italia alle elezioni, ci sarebbe da temere il peggio, perché al primo balzo dello spread o crollo della Borsa siamo certi che l’amaro Giuliano metterebbe mano al portafogli. Ovviamente quello degli italiani, non di sicuro il suo da multipensionato.
Ciò detto, mettendo da parte per un attimo il futuro fosco che ci attenderebbe qualora il capo dello Stato scegliesse il presidente della Consulta, forse va spiegato e compreso ciò che è accaduto ieri. Non tanto per quanto riguarda i 5 stelle, i quali più si avvicinano le elezioni e più vedono segnato il loro destino. Che i grillini vogliano approfittare dell’ultimo scampolo di legislatura per rifarsi una verginità, sposando la battaglia del termovalorizzatore di Roma e tutto le altre sciocchezze sostenute da quando stanno al governo, c’era da immaginarselo. Meno prevedibile era la reazione di Draghi e la sua ferma intenzione di non cedere al ricatto di Giuseppe Conte. O meglio: un po’ ci aspettavamo che il presidente del Consiglio giocasse le sue carte per levar le tende. Anzi, lo avevamo scritto. Una prima volta all’inizio di maggio, quando raccontammo che l’ex presidente della Bce aveva fretta di fare i compiti delle vacanze, quasi puntasse a concludere il mandato prima delle ferie. Una seconda a fine giugno, per svelare le grandi manovre in atto allo scopo di rendere inutili le elezioni, anticipando le nomine ai vertici delle partecipate di Stato per evitare che a decidere sia un governo di centrodestra. Per altro, anche i sanpietrini di piazza Colonna sanno che la strada per Palazzo Chigi Draghi l’ha imboccata per arrivare al Quirinale. Ma una volta sbarrata la svolta in quella direzione, che senso ha restare a fare l’ostaggio di una maggioranza rissosa che da qui alla primavera farà di tutto per recuperare visibilità? Così, eccoci qua, più nel pantano di prima, con una guerra alla porta, una recessione in corridoio e neanche il tacchino sul tetto che tanto piaceva a Pierluigi Bersani. Certo, sarebbero meglio le elezioni. Tuttavia se queste fossero impossibili perché il capo dello Stato non le vuole e dovessi scegliere tra Amato e Draghi non avrei dubbi, ma solo nella speranza di un rimpasto che la faccia finita con il governo dei peggiori, tra cui il ministro della Salute. Il problema però è che i dubbi li ha l’ex presidente Bce e dunque non ci resta che attendere le prossime ore e augurarsi che il governo che verrà non sia come quello che va, ma nemmeno amaro come quello che il Quirinale ci vorrebbe regalare.