2019-04-14
No, purtroppo i rom non sono uguali a noi
A «Piazzapulita» un cittadino romano dichiara: «Anche se italiani, restano diversi». Il pubblico in studio applaude, Corrado Formigli s'indigna: «Idee pericolose». Ma loro si considerano una nazione a parte. E per le istituzioni sono una minoranza da tutelare. «Alcuni rom sono italiani, ma uguali a noi non è il termine più giusto», dice Simone, romano di Casal Bruciato, durante la puntata di Piazzapulita. Il pubblico si scioglie in un applauso, e il conduttore Corrado Formigli non se ne fa una ragione. Prima, durante la diretta, rimprovera i presenti in studio. Poi ribadisce la sua indignazione su Twitter: «L'applauso sul fatto che un rom non è uguale a noi, anche se è cittadino italiano, mi fa paura», scrive. «Cosa sta succedendo? E quanto è pericoloso alimentare questo tipo di pensiero? Non si può applaudire qualcuno che certifica che due esseri umani non sono uguali». Il fatto, però, è che c'è poco da sconvolgersi. Formigli, in trasmissione, ha posto una domanda diretta («Se i rom hanno la cittadinanza italiana sono uguali a te o no?») che richiede una risposta diretta. Una risposta brutale, se volete, ma vera. No, purtroppo i rom non sono uguali a tutti gli altri. Se hanno la cittadinanza, ovviamente, sono italiani. Ma, proprio come ha detto con semplicità Simone, «uguali non è il termine più corretto». Attenti: qui il razzismo non c'entra proprio nulla. A certificare la diversità è, tra gli altri, l'Unione europea, che considera i rom «la principale minoranza in Europa». Anzi, è lo stesso popolo romanì a ritenersi diverso. Non per nulla, chi non appartiene alla comunità viene chiamato «gagè», termine che indica la non appartenenza alla «dimensione romanì». Come ha spiegato lo storico Leonardo Piasere, «i gagé sono gli altri per definizione». Il problema sta tutto qui. Si può parlare fino allo sfinimento di «integrazione» e di «uguaglianza», ma è evidente che una minoranza etnica, in quanto tale, tenderà a percepirsi come diversa dagli altri cittadini, e a rivendicare la sua particolare identità. Proprio a tutelare questa identità servono le numerose misure che l'Ue, nel corso degli anni, ha adottato nei confronti della popolazione romanì. Ed è sempre per questioni identitarie che, in Italia, è così difficile risolvere l'enorme disastro rappresentato dai campi rom. Intendiamoci: non c'è niente di male a voler proteggere la propria cultura. Di più: è fondamentale che ogni popolo possa far valere il proprio carattere e possa preservare la propria anima. Santino Spinelli, intellettuale e musicista rom, ha dichiarato in un'intervista qualche tempo fa: «Io sono orgogliosissimo di essere rom poiché appartengo ad un'etnia che è depositaria di una storia, di una lingua, di una cultura, di una letteratura, di un'arte, di una gastronomia, di una ricchezza di tradizioni, di racconti e di proverbi che sono un patrimonio per l'intera umanità. Il mondo culturale e artistico romanò va conosciuto per essere apprezzato». Parlando appunto di questo «mondo culturale», Spinelli ha spiegato che si tratta di «una nazione senza Stato e senza territorio. I confini di questa nazione sono delineati dalla diffusione stessa, in tutti i continenti, delle comunità romanes con il loro bagaglio linguistico e culturale». Dunque sì, «i rom non sono uguali a noi». Loro stessi si definiscono «nazione». E, chiaramente, questa nazione non è esattamente la stessa a cui fanno riferimento gli altri italiani. Come dicevamo, hanno tutto il diritto di proteggere la loro originalità, e non vanno certo discriminati in virtù della loro appartenenza. Non vanno giustificati e non si dovrebbero ripetere episodi come quello avvenuto a Napoli, dove sette bambini e due donne rom sono stati presi a sputi e insultati all'uscita di un cinema (dove li avevano accompagnati due operatrici di una cooperativa sociale) da una banda di ragazzini. Come spesso avviene quando si parla di minoranze, tuttavia, la giusta difesa di una identità si trasforma facilmente in vittimismo. La nostra società è ossessionata dai diritti (o presunti tali) dei gruppi minoritari, che sono sempre descritti - a prescindere - come vittime di persecuzione e di razzismo. Per timore di urtarne la sensibilità e di passare per cattivi, succede che alle minoranze si riservino trattamenti di favore. Ecco perché anche gli italiani «non si sentono uguali ai rom». Se questa uguaglianza ci fosse, chi esce da un campo rom o da un centro di accoglienza non otterrebbe 18 punti utili a scalare la graduatoria delle case popolari, come accaduto a Casal Bruciato. Se l'uguaglianza ci fosse, non sarebbe tollerata l'illegalità costante in cui almeno 26.000 rom vivono nelle varie baraccopoli più o meno riconosciute dalle istituzioni. Non esisterebbero le varie forme di assistenzialismo che lo Stato, i Comuni, le Regioni e la Ue garantiscono alle varie comunità romanes. Non sono molti (per usare un eufemismo) gli italiani che vivono in campi a spese della collettività e pretendono, per uscirne, affitti agevolati, magari un lavoro o altri aiuti economici.Dunque no, non siamo uguali. E finché i piagnistei e l'indignazione pelosa continueranno a esistere, non lo saremo mai.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)