
Il 30 settembre, in gran segreto, nuovi dpcm autorizzavano tecnologia Huawei, Zte e stavolta pure quella di fornitori Usa.La mattina del 30 settembre il Segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, partecipa a un simposio organizzato dall'ambasciata sulla libertà religiosa. Al suo fianco Pietro Parolin e l'arcivescovo Richard Gallagher. Nel pomeriggio Pompeo incontra il premier Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Al termine della bilaterale il braccio destro di Donald Trump usa parole molto dirette. «Nella mia discussione con il premier ho chiesto di fare attenzione alla privacy dei cittadini per quanto riguarda la creazione della rete 5G», spiega. In conferenza stampa alla Farnesina, Pompeo chiude con un avvertimento sul Partito comunista cinese: «Loro investono ma non sono qui per fare partenariati sinceri». Ne scaturirà un battibecco pesantissimo con l'ambasciata cinese a Roma, solo in parte depotenziato dagli incontri istituzionali dell'indomani, primo ottobre, in Santa sede.È però molto interessante seguire le mosse del nostro esecutivo nelle ore successive all'incontro con Pompeo, quando il Segretario di Stato si appresta a trascorrere la notte a Roma. Alle 19.30 del 30 settembre, poche ore dopo aver salutato l'inviato di Trump, Conte indice un Consiglio dei ministri. Poco conta l'ordine del giorno, perché come al solito (o meglio come avvenuto ad agosto) il tema del 5G viene affrontato a latere. Quella sera il presidente firma due Dpcm contenenti i relativi pareri del golden power per autorizzare contratti a Linkem e Fastweb. Nel primo caso i fornitori di tecnologia sono Zte e Huawei. Le prescrizioni sono le medesime rispetto al Dpcm con cui ad agosto il governo autorizzava Tim all'uso di tecnologia Huawei. Prescrizioni formalmente ineccepibile e perfettamente nel solco del toolbox Ue, le norme approvate lo scorso gennaio da Bruxelles. Fastweb, dal canto suo, riceve l'autorizzazione per operare tramite azienda italiana con fornitori Usa. Pure in questo caso le prescrizioni rientrano nei sentieri delimitati dall'Ue, ma non si può non notare che che sono praticamente le stesse richieste a chi utilizza Huawei o Zte. E non è un caso. Lo scorso 6 ottobre, quando Pompeo è già tornato negli Usa dopo la tappa in Croazia, si tiene un altro cdm. Il governo approva la Nadef mentre non riesce a chiudere la partita sullo stato di emergenza. Trova però il tempo di approvare un altro Dpcm sul tema del 5G. In questo caso l'operatore che si è in precedenza rivolto al comitato del golden power è WindTre. I fornitori sono Ericsson, che proviene da una nazione Ue, e Ampercom, società italiana con sede a Vimercate ma con tecnologia Usa. Anche questo Dpcm replica le prescrizioni utilizzate la sera del 30 e in occasione del 7 agosto. Quando Pompeo spiega di «stare attenti ai cinesi» sembra mandare un messaggio preciso. Il governo italiano lo estende a tutti i fornitori extra Ue. Ma gli Stati Uniti come la prenderanno? Come valuteranno il fatto di ricevere lo stesso trattamento rispetto alla controparte cinese? Dal canto nostro vale pena soffermarsi anche su altri due aspetti.È corretto ribaltare sulle aziende private gran parte della responsabilità che competerebbe alla sicurezza nazionale? Tanto più che le prescrizioni utilizzate a oggi sembrano riportare un baco di fondo. Alcune risposte agli stress test arriverebbero direttamente dal fornitore. Che garanzia c'è di trasparenza? Gli Usa accusano Huawei di condividere informazioni con il governo di Pechino, e se così fosse come potrebbe ammetterlo? La domanda è retorica e ci riporta ai passi futuri. Le norme sul golden power necessitano di conversione in legge. Il Copasir ha più volte acceso un faro sulle decisioni di Bruxelles in materia di dumping. Come l'Ue ha aperto una procedura sui produttori di cavi in fibra, così potrebbe farlo per chi ha sviluppato tecnologia 5G cinese. Se avvenisse ci troveremmo come un vaso di coccio stretti tra grosse biglie di ferro. Al momento è infatti chiaro che i giallorossi al di là delle dichiarazioni di facciata destinate alla visita di Pompeo continuano a tenere i piedi in due scarpe. Non aspettano nemmeno che il segretario Usa lasci l'Italia per approvare due Dpcm sul 5G. Tengono tutto segreto. Ma è un po' come se volessero bilanciare i pesi senza alcuna scelta politica. Eppure la componente del Pd, guidata dai ministri Enzo Amendola e Lorenzo Guerini, ha detto più volte di voler alzare il livello delle scelte sulle telecomunicazioni. Stop con i documenti di tipo amministrativo come i Dpcm, ma vere e proprie prese di posizione in sede di cdm. Anche su questo Conte li ha soddisfatti a metà. I più attenti hanno notato che il giovedì precedente alla visita di Pompeo il governo ha indetto una riunione per affrontare il tema del 5G. Ma era solo un meeting di maggioranza. Di partiti, quindi, e non di governo. Non è certo un dettaglio da sottovalutare per un esecutivo che si muove sui carboni ardenti della più grande guerra geopolitica dalla caduta del muro di Berlino. Una guerra nella quale se si sbaglia campo si resta a piedi per i prossimi 20 anni.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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