2021-10-20
Le amnesie, i pizzini e la pista Hong Kong. Così Arcuri traballa
Domenico Arcuri (Getty images)
La difesa dell'ex commissario non convince i pm di Roma.Offerta per i ventilatori dal socio in Cina del suo studio legaleIl giallo delle rimanenze nei depositi a un anno dalla maxi commessa: qualcuno sapeva?Lo speciale contiene due articoliEmergono nuovi interessanti filoni investigativi dal verbale di interrogatorio che Domenico Arcuri, ex commissario della struttura anti Covid e ad di Invitalia, ha reso sabato scorso davanti ai pm della Procura di Roma. Arcuri è indagato per peculato e abuso d'ufficio a causa della maxi fornitura di mascherine da 1,25 miliardi di euro intermediata da Mario Benotti e altri broker improvvisati, oggi tutti indagati per traffico di influenze illecite. Secondo gli inquirenti i reati contestati ad Arcuri e ai suoi coindagati sarebbero stati commessi tra Roma e Hong Kong.A un certo punto i pm Fabrizio Tucci e Gennaro Varone chiedono all'ad di Invitalia se abbia avuto rapporti «per forniture di mascherine» con l'avvocato Stefano Beghi o con lo studio Gianni-Origoni che ha un ufficio proprio a Hong Kong. Arcuri cincischia: «Conosco Stefano Beghi in quanto partner della Deloitte, di cui ero ad fino al 2007; in occasione della pandemia ha proposto una fornitura di ventilatori. So che era partner dello studio Gianni-Origoni. Non mi risulta abbia proposto un acquisto di mascherine. Se l'affare dei ventilatori fosse andato in porto avrei stipulato come sempre il contratto con il fornitore». Beghi è il responsabile dell'ufficio di Hong Kong dello studio Gianni-Origoni. Che, scopriamo, da un'ulteriore risposta dell'ex commissario, essere uno dei consulenti di fiducia proprio di Arcuri e di Invitalia: «Ho avuto rapporti con lo studio Gianni-Origoni & partners, perché è uno dei principali studi legali italiani ed è tra i fornitori di consulenze legali di Invitalia, da sempre. Aggiungo che Invitalia e io abbiamo a che fare con gli avvocati che lavorano in Italia dello studio Gianni». Beghi, a quanto risulta alla Verità, sarebbe anche uno dei consulenti di fiducia di Daniele Guidi, un altro dei broker indagati. E proprio Guidi è compagno di Stefania Lazzari, sul cui conto la Procura di Roma sta indagando. Il motivo? C'è traccia di un accordo tra la donna e il presidente della camera di commercio italiana a Hong Kong per una consulenza a favore dei consorzi cinesi che hanno spedito le mascherine in Italia. Ma Arcuri ha assicurato ai magistrati di non conoscere Guidi, né di sapere di suoi rapporti con Beghi. Tra i collaboratori dello studio Gianni-Origoni compare anche Giampiero Castano, ex responsabile del Mise per la gestione delle crisi aziendali, come ha riferito lo stesso Arcuri. Che ha spiegato ai pm: «Non ho ricordo di avere rapporti con Castano durante la gestione dell'emergenza. Non ho memoria di rapporti con Beghi o con appartenenti allo studio Gianni-Origoni per la fornitura di mascherine».Arcuri ha evidenziato vuoti mnemonici anche di fronte ad altre domande. Per esempio, i magistrati gli hanno chiesto di un'offerta di Alibaba, l'equivalente cinese di Amazon, un colosso da oltre 90 miliardi di euro di fatturato, proposta arrivata alla Protezione civile il 13 marzo 2020, una settimana prima che si insediasse la struttura commissariale, ma due giorni dopo l'annuncio dell'incarico ad Arcuri da parte di Giuseppe Conte: «Se so dell'offerta? No, perché al 13 marzo 2020 la struttura commissariale non esisteva. Forse la Protezione civile ci ha trasferito la proposta, ma non ne ho ricordo» ha risposto l'indagato. Il quale ha assicurato anche di essere rimasto all'oscuro dei particolari dell'accordo con i fornitori cinesi proposti da Benotti & C.: «Dello sviluppo di questa trattativa io non ne so nulla. Non era previsto che il commissario entrasse nel dettaglio delle trattative per le forniture».Sui rapporti con il giornalista, Arcuri fa confusione con le date: «Il 21 marzo, come sapete, Benotti afferma di avere possibilità di dare una mano al governo italiano per acquisire i Dpi» dichiara a verbale. E da lì sarebbe iniziata la trattativa con la sua struttura. In questo caso, a smentire l'ex commissario sono gli sms scambiati con Benotti da cui risulta che i due discutessero di mascherine e respiratori già tra l'11 marzo e il 15 marzo. Il manager svicola anche di fronte a questa domanda: «Benotti diviene promotore di una società cinese. Perché gli ha riconosciuto tale qualità, a preferenza dì altri soggetti?». Anziché rispondere l'ex commissario fa un elenco di aspiranti fornitori sponsorizzati direttamente o indirettamente da esponenti del centro-destra. Quello di Arcuri sembra un pizzino (subito ripreso con entusiasmo da qualche quotidiano) per i partiti e i politici che in questi mesi lo hanno criticato. Ma la più clamorosa scivolata riguarda le certificazioni che avrebbero dovuto essere presentate prima del saldo da parte della struttura. Arcuri assicura ai pm: «È vero che, in alcuni casi, le mascherine sono state pagate prima della validazione del Cts e tale circostanza è figlia della tragedia nella quale vivevamo; in ogni caso, i Dpi sono stati pagati dopo la certificazione delle Dogane». A questo punto gli inquirenti gli fanno una domanda che smentisce la risposta: «Le risulta che il pagamento avvenisse a ricezione del documento che attestava che la merce era sull'aereo in Cina?». Arcuri barcolla, ma non crolla: «A me risulta che il pagamento poteva avvenire a partire dalla ricezione del detto documento. Mi riservo di fornire dettagliato elenco dei documenti di riferimento». L'ex commissario palesa ricordi sbiaditi anche quando dice di aver «rarefatto» il rapporto con Benotti ben prima dell'ultimo incontro avvenuto il 5 maggio 2020. Anche in questo caso i magistrati gli rinfrescano la memoria e allora lui ribatte: «Dico meglio, ora che mi viene contestato che dalla messaggistica risultano ancora comunicazioni tra me e Benotti il 3 maggio: avevo maturato intenzione di prendere le distanze da lui, per le ragioni che ho spiegato prima». Infine i pm gli chiedono perché lui e i suoi collaboratori non abbiano ritirato dal commercio le mascherine difettose di Benotti e, invece, abbiano rispedito al mittente quelle fornite dell'imprenditore Giovanni Buini, coinvolto nel caso del presunto traffico di influenze illecite messe in atto alle sue spalle dagli avvocati Luca Di Donna e Gianluca Esposito. Ecco la versione di Arcuri: «Noi abbiamo invitato Buini a riprendere le mascherine, quando abbiamo avuto ragione di sospettare, sulla base di indagini giudiziarie, che esse non rispondessero ai requisiti di legge. […] Noi abbiamo fermato la distribuzione dei Dpi in presenza di fatti certi». Evidentemente non ritiene tali i risultati delle indagini della procura di Gorizia che, già a febbraio, aveva fatto sequestrare diversi lotti di mascherine giunte in Italia con l'intermediazione di Benotti & C.. La memoria di ferro del commissario, che snocciola inchieste giudiziarie, nomina politici «nemici» e sfodera davanti ai pm persino una mascherina farlocca che si è portato appresso messa in commercio da una profumeria, tentenna quando il discorso va su Esposito, l'avvocato indagato: «A vostra richiesta dico che non mi risulta che il rappresentante di Federfarma mi sia stato presentato dall'avvocato Esposito». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/le-amnesie-i-pizzini-e-la-pista-hong-kong-cosi-arcuri-traballa-2655326529.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-mascherine-pericolose-spedite-in-lombardia" data-post-id="2655326529" data-published-at="1634710980" data-use-pagination="False"> Le mascherine pericolose spedite in Lombardia Grazie al decreto di sequestro recapitato al commissario lunedì (che sarà notificato anche alle strutture di Protezione civile di tutte le regioni) siamo riusciti, seppur in modo incompleto, a verificare dove siano andate alcune delle mascherine considerate dalle Procure di Roma e Gorizia «molto pericolose» che facevano parte delle commesse cinesi per il tramite del giornalista Mario Benotti . Nel decreto, infatti, si trova un elenco (in parte illeggibile) dei dispositivi ancora nei depositi usati dalla struttura commissariale, aggiornato al 12 aprile. A quella data, diversi esemplari di tre dei quattro modelli, definiti «molto pericolosi» dalla Fonderia Mestieri (che ha effettuato i test per conto della Procura di Gorizia), giacevano in magazzino. Non sappiamo, e dalla struttura del commissario non ci hanno voluto rispondere, se da aprile siano stati distribuiti. Ben 2.067.000 di Ffp2 erano marchiate Wenzhou xilian electrical technology. La maggior parte si trovava in depositi della Lombardia: 595.500 a Vignate (Milano), 502.000 a Gorgonzola (Milano), 201.000 a Cesano Maderno (Monza), 195.000 a Caleppio di Settalla (Milano) 30.000 a Peschiera Borromeo. Nel Lazio, all'interno del deposito di Pomezia (Roma), erano presenti 367.500 pezzi. In Piemonte, due depositi, uno a Vercelli con 114.000 mascherine e il secondo a San Pietro in Mosezzo (Novara), con 61.500 Dpi. Delle Ffp2 della Wenzhou junyue bag making, risultavano presenti 554.740 pezzi: 225.000 a Pomezia, 222.000 a Vignate, in provincia di Milano, 18.000 a Peschiera Borromeo, 55.000 a San Pietro in Mosezzo, 4. 240 a Landriano, in provincia di Pavia. Erano 190.000 invece le Ffp2 della Anhui zhongnan air defence works che erano ancora in giro per l'Italia: 45.000 a Cesano Maderno, 49.000 a Peschiera Borromeo, 39.000 a Pomezia, 19.200 a Landriano, 38.000 a San Pietro in Mosezzo. Mancano all'appello le Ffp-Kn95 della Wenzhou huasai commodity, anch'esse stroncate dal test, ma non presenti nella parte leggibile della tabella. In totale quindi siamo riusciti a ricostruire la presenza di 2,8 milioni di mascherine che i test disposti dalla Procura di Gorizia hanno definito «molto pericolose», tanto da spingere la Procura di Roma, anche alla luce dei test su lotti di altri fabbricanti risultati «non conformi», al sequestro del residuo dell'intera fornitura da 801 milioni di pezzi, anche per poter effettuare ulteriori test. Al netto della pericolosità di alcuni lotti rimane un interrogativo: come mai a distanza di un anno dalla maxi commessa il 20 per cento delle mascherine acquistate era ancora nei depositi? Eppure dal sito della struttura commissariale nel 2020 risultano acquisti (stavolta con i fornitori diversificati) successivi: 119,4 milioni di Ffp2, 5,4 milioni di Ffp3, e la impressionante cifra di 870,7 milioni di mascherine chirurgiche. In totale quasi un miliardo di pezzi. Qualcuno aveva già intuito la pericolosità della mascherine cinesi procurate da Benotti & C.? Prima o poi qualcuno ci darà una risposta.