
Istrionico e risoluto, Francesco Cossiga amava andare controcorrente. Da Ustica alla bomba di Bologna, diceva: «Non sempre c'è il retroscena e le cose sono più semplici di come si crede».Tutto cominciò quando dirigevo La Notte, alla fine degli anni Ottanta. Mi urtavano i continui attacchi, le perfidie, le malizie e i sottintesi da cui Francesco Cossiga - presidente della Repubblica - era tormentato: in particolare le allusioni alla sua salute mentale. L'intento dei suoi critici era evidente, a volte esplicito, dichiarato: indurlo alle dimissioni. E così un giorno scrissi un fondino, per esprimergli simpatia e stima. Non ricordo con precisione il contenuto del mio breve articolo, ma il titolo sì, che mi inventai lì per lì: «Uno, due, dieci, cento, mille Cossiga». In breve sostenevo che un uomo come Cossiga bisognava tenerselo caro, e peccato che non ce ne fosse un migliaio di altri simili, nella vita politica del nostro Paese. Cossiga mi ringraziò con una formula affabile, ma convenzionale: pensai che non fosse di suo pugno, sapevo che aveva l'abitudine di scrivere biglietti estrosi, bizzarri, spontanei. Non avevo avuto questo onore, e invece nacque un rapporto reciprocamente corretto e cortese, oserei dire amichevole. Qualche volta andai a trovarlo al Quirinale, gli attacchi contro di lui non erano affatto cessati, anzi l'accanimento era diventato più feroce. Una volta gli chiesi: «Cosa avresti fatto al posto di Leone, quando i delegati del Pc e della Dc gli chiesero, o ingiunsero, di dimettersi?». Cossiga replicò con uno sguardo beffardo e disse: «Semplice, avrei chiamato i carabinieri!» (Leone invece, sgomento, si dimise subito e lasciò il Quirinale. Era innocente di fronte a tutte le accuse che gli erano rivolte, ma cedette alla arrogante violenza degli alleati comunisti e democristiani). In seguito, lessi risposte più o meno uguali di Cossiga, quando gli rivolsero una domanda come la mia. Il Presidente però non ebbe mai la necessità di chiamare i carabinieri. Leone era un personaggio timido, uno studioso estraneo ai veleni della politica. Cossiga aveva un carattere forte, risoluto, sbeffeggiava perfino i suoi avversari. Era detestato, ma temuto.Qualche anno dopo commisi un errore professionale molto grave. Lasciai La Notte, dove mi trovavo benissimo anche se i popolari giornali del pomeriggio erano destinati a sparire, e accettai un'offerta principesca di un finanziere temerario e spregiudicato, Gianmauro Borsano. Si trattava di fondare e dirigere un nuovo giornale, La Gazzetta del Piemonte, nelle sue intenzioni erede di un quotidiano, La Gazzetta del Popolo, molto amata non solo a Torino, e purtroppo scomparsa, da tempo, dalla scena. Borsano aveva acquistato la squadra del Torino e astutamente, conoscendo la mia passione per il calcio, mi offrì la vicepresidenza, per superare le mie esitazioni.Per mia fortuna l'incarico non fu mai formalizzato: in seguito infatti tutti i consiglieri di amministrazione furono indagati, coinvolti - a prescindere - dai disastri che Borsano aveva combinato. Portai Borsano con me al Quirinale e fummo accolti con cordialità, alla vigilia dell'uscita della Gazzetta. Chiesi a Cossiga di promettermi di farci visita a Torino, in redazione, e lui me lo promise. Sinceramente, non me l'aspettavo. E invece, promessa mantenuta! Qualche settimana dopo, il Quirinale ci inserì nel quadro di una visita di Cossiga a Torino: c'eravamo noi, un giornalino neonato, e non c'era La Stampa, uno dei più grandi quotidiani italiani, di proprietà della famiglia Agnelli! Con Cossiga non ne parlai mai, ma intuii il retroscena: il risentimento che nutriva verso il grande giornale torinese, che non gli risparmiava critiche pungenti e frecciate. Ad accogliere il Presidente c'erano non solo i giornalisti e tutto il personale della Gazzetta, ma anche tutti i calciatori del Torino e il loro allenatore, Emiliano Mondonico. Devo dire che l'esperienza con la Gazzetta fu tormentosa e infelice, ma con il calcio mi divertii moltissimo: quarto posto in campionato e finalissima in Coppa Uefa (oggi Europa League): risultato mai più raggiunto dalla gloriosa squadra granata. La visita di Cossiga si svolse secondo tradizione. Fotografie, discorsi, scambi di regali... Ma c'è un episodio che merita di essere ricordato, per il divertimento dei lettori. All'arrivo di Cossiga, un suo timido ammiratore, agricoltore ad Alba, si era fatto avanti e aveva offerto al Presidente un gigantesco cesto di tartufi. Cossiga aveva ringraziato e benignamente aveva fatto cenno a un suo collaboratore di posare quel ben di Dio sul mio tavolo... Dopo un'ora, finita la visita, Borsano e io, insieme con la scorta, avevamo accompagnato il Presidente fino alla sua automobile. Tornai nel mio ufficio e notai subito che i tartufi erano spariti. Chiesi alla mia segretaria... «Direttore, è arrivato Borsano di corsa e se li è portati via!». L'attrazione che Cossiga esercitava su di me era incentrata, tra altri aspetti, sulla sua meravigliosa qualità di esprimersi controcorrente, secondo i casi con audacia e impertinenza, sempre con ironia. Una volta mi disse che la strage di Bologna era nata da un fortuito incidente, gli attentatori non avevano l'Italia nel mirino. Mi ero abituato a credere a tutto ciò che diceva, a rispettare battute e rivelazioni. Perciò scrissi tranquillamente di ciò che mi aveva detto. Nessuna reazione. C'erano argomenti di cui il nostro mondo preferiva non occuparsi. E fu così anche, tranne qualche eccezione, quando fu pubblicato un suo straordinario libro, La versione di K. Sessant'anni di controstoria (Rizzoli, Rai Eri). «Anche se talvolta misteri inestricabili si sono addensati in alcuni passaggi della vicenda italiana - scriveva - la mia impressione è che ormai nessuno creda più alla realtà così come è. E dunque c'è sempre una seconda realtà da ricercare. Non credo che sia un principio sbagliato, e non posso certo dirlo io che ancora non ho smesso di scavare, chiedere, provocare. Ma aspirare sempre alla quadratura del cerchio fa sì che spesso ombre riottose sfidino le leggi della percezione e affollino impazzite la scena fino a oscurarla del tutto». Come dire: attenzione che le cose sono più semplici di come si crede, ma proprio perché sono semplici non vogliamo crederci e andiamo alla ricerca del retroscena e del mistero, infilandoci in un tunnel senza via d'uscita. È così che la verità, a portata di mano, finisce per allontanarsi per sempre.Tragedie come Ustica, Piazza Fontana, il caso Moro, la strage di Bologna, andrebbero rilette senza frequenti, artificiosi scenari dietrologici. Molte facili convinzioni e vecchie ricostruzioni giornalistiche, e persino giudiziarie, potrebbero mostrare tutta la loro inconsistenza. Cossiga: «Ci si accanisce sulla strage di Bologna, si chiedono a gran voce giustizia e verità. Capisco. Come potrei non capire il vuoto e la disperazione prodotti da quell'esplosione del 2 agosto 1980? Ottantacinque morti, oltre 200 feriti: un bilancio insopportabile. Ma perché non credere a Giusva Fioravanti e a Francesca Mambro che si dicono innocenti per quello che è successo a Bologna, pur dichiarandosi responsabili di altri atti criminali? […] Per me fu un incidente, un drammatico incidente di percorso. Una bomba trasportata da terroristi palestinesi che non doveva essere innescata in quell'occasione e che invece, chissà perché, per un sobbalzo, una minaccia, un imprevisto, scoppiò proprio in quel momento». Questa audacia di analisi, mi attrae. Cossiga offre anche una interessante rilettura del rapporto mafia-politica, di quella contiguità fra Cosa nostra e la Democrazia cristiana siciliana della quale «molto si è detto e molto si è immaginato. Forse troppo». Argomento di grandissima attualità. La ricostruzione di Cossiga parte dallo sbarco alleato in Sicilia, e arriva alle prime elezioni amministrative, per ricordare ai troppi che lo hanno dimenticato che la mafia si presentava come apertamente antifascista e fece convergere i voti sulla più antifascista delle forze politiche: il Partito comunista. La circostanza mise in allarme i moderati. Allora, ecco Cossiga: «Fu il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo, a mettere in guardia la Dc. “Se volete i voti dovete andare a cercare quelli lì" disse. E con “quelli lì" intendeva i mafiosi. L'ingrato compito toccò a Bernardo Mattarella, vicepresidente dell'Azione cattolica…». Cossiga è convinto che non esistano «politici mafiosi», mentre «esistono uomini vicini alla mafia, collusi, ma non mafiosi». La spiegazione: Cosa nostra può ammettere nelle sue fila professionisti, medici, avvocati, ma non politici, rappresentanti cioè di un altro potere organizzato.Cossiga tante volte mi ha detto quanto sia impervio spazzare via i «luoghi comuni». Sia per pigrizia, comunque sono duri a morire. E concordo con chi ha scritto che nei libri «forniva il suo punto di vista, la sua visione sui cosiddetti “misteri italiani". In troppi, superficiali e altezzosi, lo liquidarono come “le solite cose del picconatore"». Eppure cose da leggere e rileggere. E proprio in omaggio a Cossiga, uno che di intelligence se ne intendeva, va proposto ai lettori questo scritto, uno degli ultimi. «L'Italia dei misteri. O forse l'Italia senza misteri. Siamo abituati da sempre a cercare un grande burattinaio, anzi “il grande vecchio", dietro spezzoni della nostra storia, dietro le tragedie che hanno travagliato il nostro Paese, dal dopoguerra a oggi. [...] Il fatto è che nessuno fino a oggi ha saputo dare una risposta a domande-chiave: perché l'Italia dal 1969 è stata funestata dal terrorismo e dalla violenza politica con centinaia di morti e migliaia di feriti? Perché le inchieste giudiziarie hanno dato finora molta importanza al ruolo dei Servizi segreti definiti “deviati", della P2, della Cia, con il risultato di non approdare ad una verità giudiziaria e ad una verità storica condivisa? Forse è ancora presto per parlare di Storia, in un Paese che non ha ancora superato il trauma e la lacerazione dell'8 settembre e soltanto adesso comincia a fare i conti con il Risorgimento».
Elly Schlein (Ansa)
Corteo a Messina per dire no all’opera. Salvini: «Nessuna nuova gara. Si parte nel 2026».
I cantieri per il Ponte sullo Stretto «saranno aperti nel 2026». Il vicepremier e ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, snocciola dati certi e sgombera il campo da illazioni e dubbi proprio nel giorno in cui migliaia di persone (gli organizzatori parlano di 15.000) sono scese in piazza a Messina per dire no al Ponte sullo Stretto. Il «no» vede schierati Pd e Cgil in corteo per opporsi a un’opera che offre «comunque oltre 37.000 posti di lavoro». Nonostante lo stop arrivato dalla Corte dei Conti al progetto, Salvini ha illustrato i prossimi step e ha rassicurato gli italiani: «Non è vero che bisognerà rifare una gara. La gara c’è stata. Ovviamente i costi del 2025 dei materiali, dell’acciaio, del cemento, dell’energia, non sono i costi di dieci anni fa. Questo non perché è cambiato il progetto, ma perché è cambiato il mondo».
Luigi Lovaglio (Ansa)
A Milano si indaga su concerto e ostacolo alla vigilanza nella scalata a Mediobanca. Gli interessati smentiscono. Lovaglio intercettato critica l’ad di Generali Donnet.
La scalata di Mps su Mediobanca continua a produrre scosse giudiziarie. La Procura di Milano indaga sull’Ops. I pm ipotizzano manipolazione del mercato e ostacolo alla vigilanza, ritenendo possibile un coordinamento occulto tra alcuni nuovi soci di Mps e il vertice allora guidato dall’ad Luigi Lovaglio. Gli indagati sono l’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone; Francesco Milleri, presidente della holding Delfin; Romolo Bardin, ad di Delfin; Enrico Cavatorta, dirigente della stessa holding; e lo stesso Lovaglio.
Leone XIV (Ansa)
- La missione di Prevost in Turchia aiuta ad abbattere il «muro» del Mediterraneo tra cristianità e Islam. Considerando anche l’estensione degli Accordi di Abramo, c’è fiducia per una florida regione multireligiosa.
- Leone XIV visita il tempio musulmano di Istanbul ma si limita a togliere le scarpe. Oggi la partenza per il Libano con il rebus Airbus: pure il suo velivolo va aggiornato.
Lo speciale contiene due articoli.
Pier Carlo Padoan (Ansa)
Schlein chiede al governo di riferire sull’inchiesta. Ma sono i democratici che hanno rovinato il Monte. E il loro Padoan al Tesoro ha messo miliardi pubblici per salvarlo per poi farsi eleggere proprio a Siena...
Quando Elly Schlein parla di «opacità del governo nella scalata Mps su Mediobanca», è difficile trattenere un sorriso. Amaro, s’intende. Perché è difficile ascoltare un appello alla trasparenza proprio dalla segretaria del partito che ha portato il Monte dei Paschi di Siena dall’essere la banca più antica del mondo a un cimitero di esperimenti politici e clientelari. Una rimozione selettiva che, se non fosse pronunciata con serietà, sembrerebbe il copione di una satira. Schlein tuona contro «il ruolo opaco del governo e del Mef», chiede a Giorgetti di presentarsi immediatamente in Parlamento, sventola richieste di trasparenza come fossero trofei morali. Ma evita accuratamente di ricordare che l’opacità vera, quella strutturale, quella che ha devastato la banca, porta un marchio indelebile: il Pci e i suoi eredi. Un marchio inciso nella pietra di Rocca Salimbeni, dove negli anni si è consumato uno dei più grandi scempi finanziari della storia repubblicana. Un conto finale da 8,2 miliardi pagato dallo Stato, cioè dai contribuenti, mentre i signori del «buon governo» locale si dilettavano con le loro clientele.






