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2023-08-24
Lula spiazza gli ultrà di sinistra: «Il green è il nuovo colonialismo»
Il presidente brasiliano, Inácio Lula da Silva (Ansa)
Se c’è una cosa emersa dal summit dei Brics è l’ennesimo cortocircuito della sinistra italiana. Come noto, uno dei principali protagonisti del vertice è stato il presidente brasiliano, Inácio Lula da Silva: figura controversa che tuttavia piace assai ai vertici del Nazareno. Suo grande estimatore è, per esempio, l’attuale responsabile Esteri del Pd, Peppe Provenzano. Quest’ultimo, lo scorso 31 ottobre, scrisse un tweet per celebrare la vittoria elettorale di Lula contro Jair Bolsonaro, dichiarando: «È stata dura, sarà durissima. Ma la vittoria di Lula riapre il cammino della democrazia, dei diritti umani, della giustizia sociale e ambientale nell’America Latina». «Lula», aggiunse, «somiglia a quello che dice e vince. Noi no, o non abbastanza. È qui la chiave per l’alternativa». Insomma, Provenzano considera il presidente brasiliano come una fonte d’ispirazione per il suo stesso partito. Ma il Pd non è il suo unico ammiratore. Anche il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Angelo Bonelli, esultò per la sua vittoria elettorale. «Lula è presidente del Brasile! Una giornata bellissima per il Brasile e per il mondo», twittò il 30 ottobre. Tralasciamo qui di ricordare quando Lula, nel 2010, si rifiutò di estradare in Italia Cesare Battisti, salvo poi chiedere (un po’ ipocritamente) scusa nel 2021. Oggi vogliamo concentrarci su un’altra questione. E cioè sui testacoda della sinistra nostrana nel suo sostegno al presidente brasiliano.
Cominciamo dalle politiche ambientali. Pd e Alleanza Verdi e Sinistra si distinguono per un ambientalismo ideologizzato (basti pensare al loro sostegno della Nature Restoration Law). Forse però non sono del tutto a conoscenza delle posizioni del loro beniamino brasiliano. Nel suo discorso di martedì durante il summit dei Brics, Lula ha dichiarato: «Non possiamo accettare un neocolonialismo green, che impone barriere commerciali e misure discriminatorie con il pretesto della protezione dell’ambiente». Parole simili le aveva pronunciate pochi giorni prima, durante il vertice sull’Amazzonia, affermando: «Non possiamo accettare un neocolonialismo green che, con il pretesto di proteggere l’ambiente, impone barriere commerciali e misure discriminatorie e ignora i nostri quadri normativi e le nostre politiche interne».
Già a giugno, Lula aveva inoltre polemizzato con l’Ue sull’ambientalismo in riferimento a un’intesa di libero scambio con il Mercosur. «La lettera aggiuntiva che l’Ue ha inviato al Mercosur è inaccettabile perché punisce qualsiasi Paese che non rispetta l’accordo di Parigi», aveva tuonato, «Nemmeno loro hanno rispettato l’accordo di Parigi». Non solo. A metà agosto, secondo Reuters, il capo dello staff del presidente brasiliano, Rui Costa, aveva affermato che «non vi è alcuna contraddizione nel difendere una transizione ecologica e nuovi fronti di esplorazione petrolifera». Una posizione che è stata ripresa dai vertici del colosso petrolifero brasiliano Petrobras. Infine, secondo la rivista Nature, «la deforestazione nel Cerrado, una savana ricca di biodiversità nel centro del Brasile, è aumentata del 16,5% nell’ultimo anno - da agosto 2022 a luglio 2023 - rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente».
Ma l’ambientalismo non è l’unico cortocircuito. Lula sta infatti promuovendo una politica estera sostanzialmente antiamericana e filocinese. Il presidente brasiliano figura tra i promotori di una valuta alternativa al dollaro e, negli ultimi mesi, ha rafforzato i propri rapporti con Pechino, come evidenziato dalla sua visita in Cina ad aprile: una visita in cui sono stati sottoscritti 15 accordi. Lula starebbe anche valutando di usare lo yuan nelle transazioni con l’Argentina, mentre non ha risparmiato stoccate al Fondo monetario internazionale, sostenendo che i Brics «vogliono creare una banca più forte del Fmi, che abbia altri criteri per prestare denaro ai Paesi». Non a caso, pochi mesi fa, l’ex presidentessa brasiliana e alleata di Lula, Dilma Rousseff, è ascesa al vertice della New Development Bank: la banca dei Brics con sede a Shanghai. Sarebbe interessante capire che cosa pensa il Pd delle posizioni filocinesi di Lula.
Dobbiamo ritenere che al Nazareno vogliano ispirarsi alla politica estera del presidente brasiliano? Sarebbe strano e preoccupante: non solo tale linea ci porterebbe lontano dagli Usa, ma cozzerebbe con quello stesso atlantismo che, almeno fino all’anno scorso, i dem nostrani dicevano di sposare. Tutto questo, senza trascurare i rischi di sicurezza nazionale che il nostro Paese correrebbe qualora si avvicinasse eccessivamente al Dragone. Non ci si deve comunque stupire più di tanto: era maggio 2017, quando l’allora premier Paolo Gentiloni si recò, unico leader del G7, al forum sulla Nuova via della seta, tenutosi a Pechino.
D’altronde, non è che con i dem statunitensi la situazione muti granché. Considerato l’astio del Partito democratico americano per Bolsonaro a causa della sua amicizia con Donald Trump, Joe Biden aveva de facto puntato su Lula alle ultime elezioni brasiliane. Non proprio una strategia lungimirante, visto che, con la sua vittoria, l’America Latina si è ulteriormente allontanata da Washington in direzione di Pechino: quella stessa Pechino che, insieme a Nuova Delhi, si è detta favorevole ad allargare il gruppo dei Brics.
Tra i Paesi attenzionati, sotto questo punto di vista, figurano, tra gli altri, Tunisia, Emirati, Iran e Arabia Saudita: il che costituirebbe un problema, perché una tale situazione comporterebbe un’ulteriore perdita d’influenza di Biden in Nord Africa e Medio Oriente a favore di Pechino e Mosca.
Brics, India tiepida sugli altri ingressi
I Paesi Brics - Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica - «hanno adottato un documento che stabilisce le linee guida e i principi per la sua espansione, in vista dell’ammissione di nuovi membri», ha detto il ministro degli Esteri sudafricano Naledi Pandor, parlando a margine della seconda giornata del summit che si chiuderà oggi a Johannesburg. Pandor ha precisato che se i membri del gruppo si sono espressi formalmente a favore di un suo allargamento, rimangono divisioni e punti di vista diversi sul numero ammissibile e sui tempi di adesione. Nessun accordo, dunque, sulle alternative all’utilizzo del dollaro nelle transazioni internazionali.
Ieri è stata la volta delle dichiarazioni dei singoli leader durante la sessione plenaria del forum. Il presidente russo Vladimir Putin, collegato in videoconferenza al vertice (pende su di lui l’ordine di arresto della corte penale internazionale), ha utilizzato il suo discorso per difendere la guerra della Russia in Ucraina e lodare Cina, Brasile, India e Sudafrica, come contrappeso al dominio globale degli Stati Uniti. Ha accusato nel suo intervento l’Occidente di aver scatenato l’inflazione globale e di aver costretto alla fame i Paesi più vulnerabili ostacolando le vendite russe di grano e fertilizzanti attraverso le sanzioni. I cinque Paesi dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) «si oppongono all’egemonia e alle politiche neocoloniali» e «dovrebbero aumentare il proprio coordinamento interno per separare le proprie economie dal dollaro per facilitare il commercio tra i membri e altri Paesi non occidentali», ha aggiunto Putin. Ricordando che il prossimo vertice dei Brics si terrà nell’ottobre del 2024 a Kazan in Russia. Il leader cinese Xi Jinping, da parte sua, ha affermato che i Brics dovrebbero lavorare insieme per promuovere la prosperità e respingere le critiche al modello politico cinese e gli sforzi per isolarlo. E ha sollecitato «un rapido ampliamento» del gruppo a nuovi Paesi. Intanto il summit è servito a Pechino anche per fare nuovi affari.
Cina e Sudafrica hanno firmato 25 accordi che includono investimenti in energia, industrializzazione digitale ed esplorazione spaziale con equipaggio.
Quanto all’India, ieri la delegazione è stata impegnata più a festeggiare lo sbarco sulla luna della sonda Chandrayaan-3. Un successo arrivato, peraltro, a pochi giorni dallo schianto della sonda russa. ll premier Narendra Modi ha dichiarato di sostenere l’espansione dell’appartenenza al Brics e ha auspicato di andare avanti su questo sulla base del consenso generale. Ma al netto delle esternazioni pubbliche, la posizione indiana viene comunemente definita come tiepida rispetto all’ingresso di nuovi Paesi nel club, il cui allargamento è perorato da Russia e Cina. «Brasile, India e Sudafrica non vogliono che il loro peso diminuisca in un gruppo allargato», ha dichiarato Ziyanda Stuurman, analista senior per l’Africa di Eurasia Group, come riporta il Financial Times.
«Tuttavia, non vogliono nemmeno pagare il prezzo politico di ostacolare l’espansione, dato che la Cina sta spingendo fortemente in tal senso e diversi Paesi sperano di entrare a far parte del blocco», ha aggiunto. L’India punta a rappresentare tutti i Paesi in via di sviluppo anche al prossimo vertice del G20 che si terrà proprio a Nuova Delhi all’inizio di settembre. Dove il presidente Usa, Joe Biden, sosterrà il rafforzamento della capacità di finanziamento del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale.
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Il presidente brasiliano si scaglia contro le politiche che «impongono barriere e misure discriminatorie con la scusa dell’ambiente». Gli stessi dogmi difesi da Pd e Verdi, che fecero del sudamericano un paladino.L’allargamento dei Paesi Brics, perorato da Cina e Russia, rischierebbe di far perdere influenza a Nuova Delhi. Intanto, Narendra Modi festeggia lo sbarco sulla luna della sonda Chandrayaan-3.Lo speciale contiene due articoli.Se c’è una cosa emersa dal summit dei Brics è l’ennesimo cortocircuito della sinistra italiana. Come noto, uno dei principali protagonisti del vertice è stato il presidente brasiliano, Inácio Lula da Silva: figura controversa che tuttavia piace assai ai vertici del Nazareno. Suo grande estimatore è, per esempio, l’attuale responsabile Esteri del Pd, Peppe Provenzano. Quest’ultimo, lo scorso 31 ottobre, scrisse un tweet per celebrare la vittoria elettorale di Lula contro Jair Bolsonaro, dichiarando: «È stata dura, sarà durissima. Ma la vittoria di Lula riapre il cammino della democrazia, dei diritti umani, della giustizia sociale e ambientale nell’America Latina». «Lula», aggiunse, «somiglia a quello che dice e vince. Noi no, o non abbastanza. È qui la chiave per l’alternativa». Insomma, Provenzano considera il presidente brasiliano come una fonte d’ispirazione per il suo stesso partito. Ma il Pd non è il suo unico ammiratore. Anche il deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Angelo Bonelli, esultò per la sua vittoria elettorale. «Lula è presidente del Brasile! Una giornata bellissima per il Brasile e per il mondo», twittò il 30 ottobre. Tralasciamo qui di ricordare quando Lula, nel 2010, si rifiutò di estradare in Italia Cesare Battisti, salvo poi chiedere (un po’ ipocritamente) scusa nel 2021. Oggi vogliamo concentrarci su un’altra questione. E cioè sui testacoda della sinistra nostrana nel suo sostegno al presidente brasiliano. Cominciamo dalle politiche ambientali. Pd e Alleanza Verdi e Sinistra si distinguono per un ambientalismo ideologizzato (basti pensare al loro sostegno della Nature Restoration Law). Forse però non sono del tutto a conoscenza delle posizioni del loro beniamino brasiliano. Nel suo discorso di martedì durante il summit dei Brics, Lula ha dichiarato: «Non possiamo accettare un neocolonialismo green, che impone barriere commerciali e misure discriminatorie con il pretesto della protezione dell’ambiente». Parole simili le aveva pronunciate pochi giorni prima, durante il vertice sull’Amazzonia, affermando: «Non possiamo accettare un neocolonialismo green che, con il pretesto di proteggere l’ambiente, impone barriere commerciali e misure discriminatorie e ignora i nostri quadri normativi e le nostre politiche interne». Già a giugno, Lula aveva inoltre polemizzato con l’Ue sull’ambientalismo in riferimento a un’intesa di libero scambio con il Mercosur. «La lettera aggiuntiva che l’Ue ha inviato al Mercosur è inaccettabile perché punisce qualsiasi Paese che non rispetta l’accordo di Parigi», aveva tuonato, «Nemmeno loro hanno rispettato l’accordo di Parigi». Non solo. A metà agosto, secondo Reuters, il capo dello staff del presidente brasiliano, Rui Costa, aveva affermato che «non vi è alcuna contraddizione nel difendere una transizione ecologica e nuovi fronti di esplorazione petrolifera». Una posizione che è stata ripresa dai vertici del colosso petrolifero brasiliano Petrobras. Infine, secondo la rivista Nature, «la deforestazione nel Cerrado, una savana ricca di biodiversità nel centro del Brasile, è aumentata del 16,5% nell’ultimo anno - da agosto 2022 a luglio 2023 - rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente». Ma l’ambientalismo non è l’unico cortocircuito. Lula sta infatti promuovendo una politica estera sostanzialmente antiamericana e filocinese. Il presidente brasiliano figura tra i promotori di una valuta alternativa al dollaro e, negli ultimi mesi, ha rafforzato i propri rapporti con Pechino, come evidenziato dalla sua visita in Cina ad aprile: una visita in cui sono stati sottoscritti 15 accordi. Lula starebbe anche valutando di usare lo yuan nelle transazioni con l’Argentina, mentre non ha risparmiato stoccate al Fondo monetario internazionale, sostenendo che i Brics «vogliono creare una banca più forte del Fmi, che abbia altri criteri per prestare denaro ai Paesi». Non a caso, pochi mesi fa, l’ex presidentessa brasiliana e alleata di Lula, Dilma Rousseff, è ascesa al vertice della New Development Bank: la banca dei Brics con sede a Shanghai. Sarebbe interessante capire che cosa pensa il Pd delle posizioni filocinesi di Lula. Dobbiamo ritenere che al Nazareno vogliano ispirarsi alla politica estera del presidente brasiliano? Sarebbe strano e preoccupante: non solo tale linea ci porterebbe lontano dagli Usa, ma cozzerebbe con quello stesso atlantismo che, almeno fino all’anno scorso, i dem nostrani dicevano di sposare. Tutto questo, senza trascurare i rischi di sicurezza nazionale che il nostro Paese correrebbe qualora si avvicinasse eccessivamente al Dragone. Non ci si deve comunque stupire più di tanto: era maggio 2017, quando l’allora premier Paolo Gentiloni si recò, unico leader del G7, al forum sulla Nuova via della seta, tenutosi a Pechino. D’altronde, non è che con i dem statunitensi la situazione muti granché. Considerato l’astio del Partito democratico americano per Bolsonaro a causa della sua amicizia con Donald Trump, Joe Biden aveva de facto puntato su Lula alle ultime elezioni brasiliane. Non proprio una strategia lungimirante, visto che, con la sua vittoria, l’America Latina si è ulteriormente allontanata da Washington in direzione di Pechino: quella stessa Pechino che, insieme a Nuova Delhi, si è detta favorevole ad allargare il gruppo dei Brics. Tra i Paesi attenzionati, sotto questo punto di vista, figurano, tra gli altri, Tunisia, Emirati, Iran e Arabia Saudita: il che costituirebbe un problema, perché una tale situazione comporterebbe un’ulteriore perdita d’influenza di Biden in Nord Africa e Medio Oriente a favore di Pechino e Mosca.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lula-spiazza-ultra-sinistra-green-2664325002.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="brics-india-tiepida-sugli-altri-ingressi" data-post-id="2664325002" data-published-at="1692839600" data-use-pagination="False"> Brics, India tiepida sugli altri ingressi I Paesi Brics - Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica - «hanno adottato un documento che stabilisce le linee guida e i principi per la sua espansione, in vista dell’ammissione di nuovi membri», ha detto il ministro degli Esteri sudafricano Naledi Pandor, parlando a margine della seconda giornata del summit che si chiuderà oggi a Johannesburg. Pandor ha precisato che se i membri del gruppo si sono espressi formalmente a favore di un suo allargamento, rimangono divisioni e punti di vista diversi sul numero ammissibile e sui tempi di adesione. Nessun accordo, dunque, sulle alternative all’utilizzo del dollaro nelle transazioni internazionali. Ieri è stata la volta delle dichiarazioni dei singoli leader durante la sessione plenaria del forum. Il presidente russo Vladimir Putin, collegato in videoconferenza al vertice (pende su di lui l’ordine di arresto della corte penale internazionale), ha utilizzato il suo discorso per difendere la guerra della Russia in Ucraina e lodare Cina, Brasile, India e Sudafrica, come contrappeso al dominio globale degli Stati Uniti. Ha accusato nel suo intervento l’Occidente di aver scatenato l’inflazione globale e di aver costretto alla fame i Paesi più vulnerabili ostacolando le vendite russe di grano e fertilizzanti attraverso le sanzioni. I cinque Paesi dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) «si oppongono all’egemonia e alle politiche neocoloniali» e «dovrebbero aumentare il proprio coordinamento interno per separare le proprie economie dal dollaro per facilitare il commercio tra i membri e altri Paesi non occidentali», ha aggiunto Putin. Ricordando che il prossimo vertice dei Brics si terrà nell’ottobre del 2024 a Kazan in Russia. Il leader cinese Xi Jinping, da parte sua, ha affermato che i Brics dovrebbero lavorare insieme per promuovere la prosperità e respingere le critiche al modello politico cinese e gli sforzi per isolarlo. E ha sollecitato «un rapido ampliamento» del gruppo a nuovi Paesi. Intanto il summit è servito a Pechino anche per fare nuovi affari. Cina e Sudafrica hanno firmato 25 accordi che includono investimenti in energia, industrializzazione digitale ed esplorazione spaziale con equipaggio. Quanto all’India, ieri la delegazione è stata impegnata più a festeggiare lo sbarco sulla luna della sonda Chandrayaan-3. Un successo arrivato, peraltro, a pochi giorni dallo schianto della sonda russa. ll premier Narendra Modi ha dichiarato di sostenere l’espansione dell’appartenenza al Brics e ha auspicato di andare avanti su questo sulla base del consenso generale. Ma al netto delle esternazioni pubbliche, la posizione indiana viene comunemente definita come tiepida rispetto all’ingresso di nuovi Paesi nel club, il cui allargamento è perorato da Russia e Cina. «Brasile, India e Sudafrica non vogliono che il loro peso diminuisca in un gruppo allargato», ha dichiarato Ziyanda Stuurman, analista senior per l’Africa di Eurasia Group, come riporta il Financial Times. «Tuttavia, non vogliono nemmeno pagare il prezzo politico di ostacolare l’espansione, dato che la Cina sta spingendo fortemente in tal senso e diversi Paesi sperano di entrare a far parte del blocco», ha aggiunto. L’India punta a rappresentare tutti i Paesi in via di sviluppo anche al prossimo vertice del G20 che si terrà proprio a Nuova Delhi all’inizio di settembre. Dove il presidente Usa, Joe Biden, sosterrà il rafforzamento della capacità di finanziamento del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale.
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Di fronte a questa ondata di insicurezza, i labour propongono più telecamere nelle città più importanti del Paese, applicando così, in modo massiccio, il riconoscimento facciale dei criminali. Oltre 45 milioni di cittadini verranno riconosciuti attraverso la videosorveglianza. Secondo la proposta avanzata dai labour, la polizia potrà infatti utilizzare ogni tipo di videocamera. Non solo quelle pubbliche, ma anche quelle presenti sulle auto, le cosiddette dashcam, e pure quelle dei campanelli dei privati cittadini. Come riporta il Telegraph, «le proposte sono accompagnate da un’iniziativa volta a far sì che la polizia installi telecamere di riconoscimento facciale “live” che scansionino i sospetti ricercati nei punti caldi della criminalità in Inghilterra e in Galles. Anche altri enti pubblici, oltre alla polizia, e aziende private, come i rivenditori, potrebbero essere autorizzati a utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale nell’ambito del nuovo quadro giuridico».
Il motivo, almeno nelle intenzioni, è certamente nobile, come sempre in questi casi. E la paura è tanta. Eppure questa soluzione pone importanti interrogativi legati alla libertà della persone e, soprattutto, alla loro privacy. C’è infatti già un modello simile ed è quello applicato in Cina. Da tempo infatti Pechino utilizza le videocamere per controllare la popolazione in ogni suo minimo gesto. Dagli attraversamenti pedonali ai comportamenti più privati. E premia (oppure punisce) il singolo cittadino in base ad ogni sua singola azione. Si tratta del cosiddetto credito sociale, che non ha a che fare unicamente con la liquidità dei cittadini, ma anche con i loro comportamenti, le loro condanne giudiziarie, le violazioni amministrative gravi e i loro comportamenti più o meno affidabili.
Quella che sembrava una distopia lì è diventata una realtà. Del resto anche in Italia, durante il Covid, è stato applicato qualcosa di simile con il Green Pass. Eri un bravo cittadino - e quindi potevi accedere a tutti i servizi - solamente se ti vaccinavi, altrimenti venivi punito: non potevi mangiare al chiuso, anche se era inverno, oppure prendere i mezzi pubblici.
Per l’avvocato Silkie Carlo, a capo dell’organizzazione non governativa per i diritti civili Big Brother, «ogni ricerca in questa raccolta di nostre foto personali sottopone milioni di cittadini innocenti a un controllo di polizia senza la nostra conoscenza o il nostro consenso. Il governo di Sir Keir Starmer si sta impegnando in violazioni storiche della privacy dei britannici, che ci si aspetterebbe di vedere in Cina, ma non in una democrazia». Ed è proprio quello che sta accadendo nel Regno Unito e che può accadere anche da noi. Il sistema cinese, poi, sta potenziando ulteriormente le proprie capacità. Secondo uno studio pubblicato dall’Australian strategic policy institute, Pechino sta potenziando ulteriormente la sua rete di controllo sulla cittadinanza sfruttando l’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda la censura online. Un pericolo non solo per i cinesi, ma anche per i Paesi occidentali visto che Pechino «è già il maggiore esportatore mondiale di tecnologie di sorveglianza basate sull’intelligenza artificiale». Come a dire: ciò che stanno sviluppando lì, arriverà anche da noi. E allora non saranno solamente i nostri Paesi a controllare le nostre azioni ma, in modo indiretto, anche Pechino.
C’è una frase di Benjamin Franklin che viene ripresa in Captain America e che racconta bene quest’ansia da controllo. Un’ansia che nasce dalla paura, spesso provocata da politiche fallaci. «Baratteranno la loro libertà per un po’ di sicurezza». Come sta succedendo nel Regno Unito, dopo anni di accoglienza indiscriminata. O come è successo anhe in Italia durante il Covid. Per anni, ci siamo lasciati intimorire, cedendo libertà e vita. Oggi lo scenario è peggiore, visto l’uso massiccio della tecnologia, che rende i Paesi occidentali sempre più simili alla Cina. E non è una bella notizia.
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Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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