(iStock). Nel riquadro, Andrea Furlan e la madre Cristina Calore
Andrea Furlan, impiegato in un supermercato nel Padovano, è paralizzato da quando, 12 anni fa, un rapinatore (mai trovato) gli sparò in testa. La giustizia italiana, prodiga coi malviventi, non gli ha riconosciuto un euro.
Come se non bastassero le tragedie che ti sconvolgono la vita improvvisamente, ecco i tempi della giustizia che sono anch’esse una tragedia ma di quelle che si potrebbero evitare. La vera tragedia, per Andrea Furlan, è avvenuta 12 anni fa nel suo posto di lavoro, il supermercato Prix di Albignasego, in provincia di Padova. È lì che uno dei due banditi, armato, fa partire un colpo di pistola che perfora la testa del ragazzo riducendolo in stato vegetativo. Tragedie che ti sconvolgono la vita e ti domandi: perché? Perché a me? L’altra tragedia - quella che invece si dovrebbe evitare - è ritrovarsi con lo Stato che latita, che non riesce a dare un nome e una fisionomia al killer e che soprattutto si presenta nella veste del temporeggiatore.
Sono 12 anni che Cristina Calore, la mamma di Andrea, attende giustizia e un risarcimento, ma per ora pare non esserci verso. E anche qui ti domandi: perché? Perché a me? Già, perché non si riesce ad avere giustizia? Ti dicono: perché le telecamere presso il supermercato, quel giorno, non funzionavano e quindi diventa difficile. Ma davvero lo Stato non riesce a dare il giusto risarcimento a una vittima? Diventa difficile rispondere e nello stesso tempo confortare quando poi ti informano di casi in cui persino chi attenta alla vita delle persone riesce a ottenere un risarcimento del danno. Lo prevede la legge.
Intanto, in quel pezzo di Italia, sulla legge cala il crepuscolo dei rinvii. Come quello di pochi giorni fa della Corte d’Appello, l’ennesimo, che ha il sapore amaro della beffa. Cristina attende giustizia ma è stanca; come non esserlo quando vedi come hanno ridotto il tuo Andrea; e ripensi che l’ultima cosa che Andrea in salute aveva fatto era stato scendere dallo spogliatoio del supermercato giù al primo piano dove aveva lasciato la bicicletta. Poi… il colpo di pistola diretto alla testa. Una esecuzione criminale. Da lì l’inferno. Per quel ragazzotto che divorava la vita nulla è stato più come prima: non si muove più, non parla più, per qualsiasi attività ha bisogno di un sostegno. Ed è per questo che pensi: se tutto è ingiusto, se del rapinatore e del complice non si è mai saputo nulla, possibile che chi dovrebbe rappresentare il giusto prende tempo? Solo l’Inail ha riconosciuto ad Andrea un assegno di invalidità. Ma l’Inail non rappresenta la giustizia.
Quindi dove sono gli operatori del giusto che riparano i torti? Eccome se te lo domandi: il giudice civile in primo grado ha negato il risarcimento perché il supermercato Prix non deve nulla ad Andrea. Ma come, è lecito domandarsi? «C’erano delle telecamere in quel supermercato, ma non funzionavano», ha commentato mamma Cristina. «Io non credo che i titolari del supermercato abbiano delle colpe, hanno però delle responsabilità ed è mio dovere andare avanti». Già, possibile che un giudice non abbia il coraggio di dire all’assicurazione: «Tocca a te pagare»? O le assicurazioni sono diventate intoccabili? (Domanda retorica).
Fatto sta che la famiglia non si arrende. Né l’avvocato Matteo Mion è un tipo che si accontenta: si va in appello. Già, ma quando? Boh… per ora sembra che la giustizia si sia impastata di quella gomma ciccosa che ci mettiamo in bocca, che s’appiccica ai denti, che si dilata e perde sapore. L’avvocato Mion sta facendo il possibile per anticipare i tempi dell’appello e non si capacita dei tanti rinvii: cosa pensare? Davvero tutto può ridursi a fatalità? Davvero non c’è un buco in questo muro di gomma? Davvero è impossibile pensare a un appiglio che consenta quel risarcimento che diventa il minimo per gestire i risvolti della tragedia? In casa di Andrea tragedia e burocrazia stanno togliendo energie e speranze.
Che si facessero un giro lì, in quella casa dove la vita ha cominciato a girare da un altro verso. Vogliono vedere come si gestisce una persona a cui un criminale ha bucato la testa? Vogliono vedere le due persone che si prendono cura di questo ragazzo che passa dal letto alla carrozzina? Vogliono provare la fatica di prendersi cura di una persona che vive senza vita? Mamma Cristina e il papà di Andrea non hanno problemi a dar prova di quel che per loro è la quotidianità. Delle loro sofferenze e delle paure legate al «dopo di noi».
Eccome se i genitori ci sperano nell’appello, invece altro giro a vuoto, altro rinvio. Altro perché da tre anni non c’è ancora stata nemmeno la prima udienza. «Ci sentiamo presi in giro», ha commentato la madre. «È l’ennesima volta che rinviano l’inizio di un processo. Ci sentiamo raggirati, è come se a un certo punto lo Stato fosse diventato nostro nemico: ogni volta questa data si sposta di sei mesi in avanti, come se davanti a noi ci fosse tutto il tempo del mondo, come se mio figlio potesse aspettare i tempi infiniti».
La burocrazia ha i suoi tempi, il suo traffico da regolare: c’è da comprendere, signora mia. E quante cose debbono comprendere la mamma e il papà di Andrea? Debbono comprendere che il colpevole non si trova ed è già un cazzotto alla bocca dello stomaco. Debbono comprendere la decisione di primo grado del giudice civile. Debbono comprendere che i tribunali sono pieni di cause. Ora dovrebbero pure comprendere che le vittime non sono tutte uguali?
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2025-12-12
Dimmi La Verità | Alessandro Da Rold: «Sviluppi dell'inchiesta sull'urbanistica di Milano»
Ecco #DimmiLaVerità del 12 dicembre 2025. Il nostro Alessandro Da Rold ci rivela gli ultimi sviluppi dell'inchiesta sull'urbanistica di Milano e i papabili per il dopo Sala.
Beppe Sala (Ansa)
Sequestrato il cantiere della Torre «Unico-Brera», in via Anfiteatro 7, che prevede appartamenti di lusso. I pm: «Nuova costruzione spacciata per restauro». Ma il Comune aveva ammesso la Scia: 27 indagati.
A Milano, nel cuore di Brera, un’area venduta per 20,9 milioni di euro è diventata un affare capace di sfiorare i 50 milioni di ricavi. Il progetto «Unico-Brera» dei costruttori Carlo Rusconi e Stefano Rusconi si reggeva su permessi comunali concessi come ristrutturazione e non come nuova costruzione. Una classificazione che ha aperto la strada a risparmi sugli oneri, tempi più rapidi e un aumento del margine operativo.
Ieri la Guardia di finanza ha sequestrato i due edifici di via Anfiteatro 7: la torre di 11 piani e il corpo di 4, per 27 appartamenti. Il gip Mattia Fiorentini ha accolto la richiesta dei pm Marina Petruzzella, Paolo Filippini e Mauro Clerici, con l’aggiunto Tiziana Siciliano. Per l’accusa, dietro quella Scia c’era un edificio nuovo. E mancavano perfino le verifiche antincendio. Sono 27 gli indagati per le ipotesi di lottizzazione abusiva, abuso edilizio e falso ideologico, tra progettisti, tecnici comunali, membri della commissione Paesaggio e i costruttori Rusconi.
Brera è uno dei mercati immobiliari più cari d’Italia e le nuove costruzioni possono raggiungere i 10/15.000 euro al metro quadro. «Unico-Brera» poteva valere oltre 42 milioni. Decisivo lo sconto sugli oneri: 800.000 euro pagati con la Scia contro i circa due milioni dovuti per una nuova costruzione.
L’ex vicesindaco Riccardo De Corato ha attaccato il sindaco Giuseppe Sala, chiedendo che si assuma la responsabilità politica di un sistema che continua a produrre «casi disastrosi». La storia del lotto è segnata da continui cambi di rotta. Negli anni Ottanta era destinato a ospitare nove alloggi popolari. Nel 2006 i ruderi settecenteschi vengono demoliti d’urgenza. Nel 2007 e nel 2008 risultano ancora «complessi edilizi con valore storico testimoniale». Nel 2010 passa a Bnp Paribas per 20,9 milioni di euro. Nel 2018 arriva ai Rusconi.
I residenti protestano da anni. Alberto Villa, che vive accanto al cantiere, ha perso i ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato e oggi denuncia balconi a pochi metri, una lamiera davanti alle finestre e un appartamento che non riesce più ad affittare. Per il gip la ristrutturazione è solo una formula. La Scia non basta. La natura di nuova costruzione era «talmente ovvia» che nei progetti scompaiono i metri cubi e resta solo la superficie lorda di pavimento. Marco Emilio Maria Cerri, allora nella commissione Paesaggio, aveva spiegato agli inquirenti che «a Milano si usa così». Il gip definisce quella giustificazione uno «stravolgimento del significato letterale», ricordando che il progettista precedente calcolava regolarmente i volumi.
Le intercettazioni aggravano il quadro. Il 26 settembre 2024 Cerri ammette all’architetto Andrea Beretti: «Anche la pratica di Anfiteatro l’ho categorizzata come ristrutturazione». Pochi giorni prima, parlando con Giovanni Oggioni, ex vicepresidente della commissione Paesaggio già arrestato a marzo, teme guai imminenti: «Prima o poi arriverà anche Anfiteatro».
Secondo la Procura, l’area era in zona B2, dove sono ammessi solo restauri e risanamenti conservativi. Le stesse regole sarebbero state confermate nei Pgt 2012 e 2020, ma la Guardia di finanza non le trova più negli uffici comunali e le recupera solo nella Cittadella degli Archivi. Per il gip non esiste buona fede: costruttori, progettisti e tecnici comunali «non erano sprovveduti». Un piano attuativo avrebbe certamente bocciato il progetto. L’avvocato Michele Bencini, legale di Rusconi, ricorda che Tar e Consiglio di Stato nel 2021 e 2022 avevano giudicato regolare il percorso amministrativo e definito «infondata» la lettura urbanistica ora adottata dalla Procura. Annuncia ricorso contro il sequestro.
Il caso di via Anfiteatro si intreccia con quello di viale Papiniano 48. Lì il gip Sonia Mancini ha dissequestrato un cantiere riconoscendo la buona fede dei costruttori e del progettista Mauro Colombo. La Procura ha impugnato il provvedimento. I pm Giovanna Cavalleri e Luisa Baima Bollone sostengono che un imprenditore esperto non possa invocare incertezza delle norme quando trae «vantaggi economici lucrabili». Richiamano la giurisprudenza che impone cautela: in caso di dubbio, i lavori devono fermarsi. Un principio che ritorna anche in via Anfiteatro.
Sullo sfondo, la questione abitativa della città. Mentre operazioni milionarie su aree pubbliche dismesse inseguono la massima rendita, l’edilizia sociale rallenta. Ieri il Consorzio cooperative lavoratori ha presentato il catalogo dei suoi 50 anni: 15.800 abitazioni costruite, 8.041 solo a Milano, 135.000 metri quadrati di spazi pubblici restituiti ai quartieri. Il presidente Alessandro Maggioni ha ricordato che «la cooperazione è un soggetto di mercato con finalità sociali, capace di generare valore e redistribuzione». Poi ha puntato il dito sul presente: 390 alloggi sono pronti, ma fermi in attesa di atti comunali. Un paradosso che pesa.
A Milano chi rispetta le regole frena, chi le piega invece accelera. Almeno finché un cantiere non si ritrova i sigilli della Guardia di finanza.
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2025-12-12
«Multinazionale» della truffa spolpa il Duomo di Firenze: rubati due milioni alla Onlus
Santa Maria del Fiore (iStock)
Scoperto un sodalizio criminale basato in Lombardia dedito a frodi fiscali e riciclaggio. Intercettato il maxi bonifico dell’ente. Nella cricca italiani, cinesi, albanesi e nigeriani.
Ovunque ci fossero soldi da ripulire c’era la multinazionale di via Asiago a Milano. Lì, nelle vicinanze del domicilio di Chunhui Hu, una dei quattro cittadini cinesi coinvolti, venivano distribuiti i proventi del maxi sistema di riciclaggio che i 13 indagati (sette italiani, un nigeriano, un albanese e i quattro cinesi) erano riusciti a mettere in piedi e che, hanno scoperto gli inquirenti di Brescia, aveva già movimentato 30 milioni di euro in soli sei mesi, facendoli sparire e ricomparire altrove dopo averli puliti con false fatture.
A contribuire al montepremi monstre c’è anche un colpaccio. Il più remunerativo. Quello che ha creato un buco nero nei conti di una Onlus fiorentina, l’Opera di Santa Maria del Fiore, ovvero l’ente che custodisce il Duomo di Firenze, il campanile di Giotto e il Battistero di San Giovanni. L’associazione sarebbe stata «indotta», secondo l’accusa, a pagare 1.785.000 euro «su un conto corrente fittizio» per il restauro del Complesso Eugeniano. La cricca si era infilata nelle email tra l’ente e l’impresa edile, aveva clonato le comunicazioni e deviato il bonifico. Gli inquirenti lo chiamano schema «man in the middle», letteralmente «l’uomo nel mezzo». E quell’uomo, ritengono gli investigatori, sarebbe un soggetto «gravato da numerosi precedenti di polizia». L’Iban della società sul quale era stato inviato il bonifico era riconducibile a lui.
La cifra è poi stata spezzettata e girata su altri conti correnti. Da lì il resto è venuto giù come una valanga. La Squadra mobile, dopo la denuncia del direttore della Onlus, ha cominciato a seguire il denaro e ha trovato una costellazione di conti correnti: italiani, lussemburghesi, polacchi, lituani, spagnoli, tedeschi, nigeriani e croati. E soprattutto ha individuato due fratelli italiani, Luca e Daniele Bertoli. Per la Procura sono avrebbero ricevuto, spezzato, disperso e riconsegnato il denaro «provento di frodi informatiche e fiscali».
Nel provvedimento di fermo per nove dei 13 indagati (altre 21 persone sono state perquisite) si legge che uno dei due fratelli Bertoli, Luca (nome al quale viene legata la truffa alla Onlus fiorentina), e Antonino Giuseppe De Salvo sarebbero «il fulcro dell’intera indagine» e che gli accertamenti hanno svelato «l’esistenza di un gruppo dedito in via esclusiva all’attività di riciclaggio di denaro provento di frodi fiscali o, in altri casi, di frodi informatiche». Mezzo milione di euro in contanti è saltato fuori dagli armadi, dai cassetti e dalle auto. È stato proprio uno dei fratelli Bertoli a vuotare il sacco. Ha raccontato che gli fu proposto di ricevere «un importo di 250.000 euro per conto di altre persone che avevano necessità di monetizzare e fare dei pagamenti» e che lui avrebbe dovuto trasferire quei soldi «in favore di altri».
In cambio avrebbe trattenuto il 5%, da dividere con chi aveva mediato. Dalle carte emerge che la Srl di Bertoli era una società fantasma: sede fittizia, nessun bilancio, nessun dipendente, zero dichiarazioni fiscali. Serviva, secondo l’accusa, a emettere fatture per operazioni inesistenti e a far girare il denaro. Lo stesso valeva per un’impresa di costruzioni di proprietà di Chunhui Hu, detta «Sharon», che aveva la disponibilità di conti esteri sui quali far scivolare i fondi illeciti che, infine, diventavano contanti. E per lo scambio di denaro «si è presentata sua maestà in persona […] tutta vestita Versace», commentano i due fratelli a telefono.
Un passo falso, che ha permesso agli investigatori di individuare la donna. E poi il «sistema» che, secondo l’accusa, funzionava così: le società cartiere emettevano fatture per operazioni inesistenti, gli imprenditori compiacenti pagavano, il denaro veniva spostato su conti esteri e da lì rientrava in Italia in contanti. «Sharon» si appoggiava a due connazionali, Weihong Xu e Huihui Hong, incaricati di recuperare i soldi dai conti esteri e di consegnarlo a Bertoli. Gli appuntamenti avvenivano in via Asiago, rapidissimi, con i pacchi di contanti riconsegnati agli italiani grazie a un «pin» per evitare errori. Gli imprenditori, italiani e albanesi, compravano questo «servizio» per evadere tasse o per riciclare proventi illeciti.
La commissione era chiara: tra il 2 e il 7% trattenuto dalla rete, più un altro 2% destinato ai due intermediari italiani. È così che si arriva ai 30 milioni di euro movimentati in sei mesi. Uno degli snodi chiave è datato 4 settembre. Quel giorno gli agenti fermano un’auto con a bordo la cinese Hong. Nascosti in sacchetti di plastica ci sono 197.220 euro. La somma era divisa in mazzette da 10.000 euro. Nel provvedimento di fermo la Procura scrive che la Hong «compiva operazioni tali da ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa di denaro contante». Il ritratto perfetto degli «spalloni» d’antan. Ma è a questo punto che gli indagati avrebbero fatto un altro passo falso. Sul telefono cellulare di uno degli indagati arriva la fotografia del verbale di sequestro del denaro. E in chat compare un commento: «Siamo sfigati». «In tal modo», sottolineano gli inquirenti, «rivendicando la paternità della somma di denaro» e «palesando il proprio diretto interesse al rientro dei contanti».
Proprio Luca Bertoli sperava di poter concludere l’ultima operazione prima di lasciare l’Italia: «Sto aspettando il 13 di pagarvi poi scappo, poi me ne vado». Parole captate dagli inquirenti e sottolineate nelle esigenze cautelari.
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