angelo borelli

Il Cts cambia idea su Astrazeneca. Ormai è chiaro: dipende dai politici
Giovanni Rezza (Ansa)
  • Dopo il colpo di mano di Mario Draghi, il Comitato che dovrebbe basarsi su dati scientifici fa dietrofront: sul farmaco anglosvedese si fa come dice il premier. Adesso il cocktail di vaccini non è più un dogma e c'è libertà di scelta.
  • Non bastava il commissariamento del titolare della Salute, Maurizio Gasparri (Fi) chiede la sua testa: «Serve un cambio». Critiche anche da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. E nessuno lo difende.

Lo speciale contiene due articoli.

Il premier smantella il sistema Conte eliminando i suoi uomini a uno a uno
Giuseppe Conte (Ansa)
Il giorno in cui Mario Draghi ha deciso di sostituire Gennaro Vecchione, mettendo Elisabetta Belloni ai vertici del Dipartimento per la sicurezza, pare che, prima di dare il benservito al generale per rimpiazzarlo con la zarina della Farnesina, il premier abbia alzato la cornetta e chiamato Giuseppe Conte.

L'ex presidente del Consiglio era ritenuto, a torto o a ragione, il grande sponsor del capo del Dis, prova ne sia che quando Matteo Renzi aveva tentato di troncare il rapporto tra i due, chiedendo all'avvocato del popolo di rinunciare alla delega sui servizi segreti, lui si era impuntato fino alla morte. Tuttavia, per licenziare Vecchione, a Draghi è bastata una telefonata. Da quello che hanno ricostruito i cronisti, le parole non sono state molte. Nello stile dell'ex governatore della Bce, la sua è stata una comunicazione, non una negoziazione. Del resto, era stato così anche per Angelo Borrelli, capo della Protezione civile, e per Domenico Arcuri, super commissario all'emergenza Covid. Appena arrivato a Palazzo Chigi, Draghi sembrava intenzionato a lasciarli al proprio posto, tanto che anche noi lo avevamo sollecitato a fare piazza pulita di persone che durante la pandemia non si erano rivelate all'altezza del compito. Ma il premier aveva tirato dritto per la sua strada, sorprendendo tutti, anche coloro che ne conoscono la determinazione. La riconferma degli specialisti in disastri, invece, è durata solo alcune settimane, giusto il tempo di consentire al nuovo presidente del Consiglio di ambientarsi.

Nessuno è riuscito a sapere con precisione che cosa abbia detto Draghi per far sloggiare Arcuri, ma di sicuro il colloquio è stato ridotto al minimo necessario: un ringraziamento formale e poi l'invito a sloggiare in fretta. Le cose devono essere andate più o meno allo stesso modo anche nei giorni scorsi, quando l'ex presidente della Bce ha deciso di sostituire i vertici di alcune partecipate dello Stato. Le scelte non sono state oggetto di una discussione con i capi della maggioranza che appoggia il governo. Draghi ha deciso di sostituire gli amministratori della Cassa depositi e prestiti, delle Ferrovie e basta. Al posto di uomini nominati dai partiti con una rigorosa assegnazione di incarichi in base al manuale Cencelli della lottizzazione, ha messo persone di sua fiducia, funzionari in arrivo da Banca d'Italia o da alcune grandi aziende. Punto. In un colpo, ha liquidato i riti della Prima e della Seconda Repubblica, che prevedevano mesi di discussione tra le parti, per contrattare ogni strapuntino. A ogni giravolta di governo, infatti, la faccenda più complicata non era assegnare i posti di ministro e nemmeno quelli di sottosegretario. Il vero problema era distribuire le poltrone di sottogoverno, perché quelli sono gli incarichi che contano davvero. Sedersi ai vertici di una partecipata significa avere soldi da spendere, assunzioni da fare, potere vero da amministrare. Mentre se si finisce a fare il sottosegretario senza portafogli, al massimo ne è gratificato l'ego, ma nulla di più.

Infatti, nel passato, ogni volta che si avvicinava la scadenza dei consiglieri di amministrazione delle partecipate, la lotta si faceva scivolosa. Nel passato, gli sgambetti per far cascare un candidato e agevolarne un altro erano all'ordine del giorno. E con l'avvento dei 5 stelle non era cambiato nulla, se non la corsa ad accreditarsi fra i seguaci di Grillo. Manager pubblici, professionisti, aspiranti amministratori dello Stato, tutti in fila per una poltroncina. Ma poi, ecco arrivare un tizio che non discute con nessuno. Altro che risiko delle nomine pubbliche, gran ballo dei posti a disposizione. Draghi fa da sé, consultandosi al massimo con il ministro dell'Economia, Daniele Franco, che poi è una specie di suo segretario, nel senso che fa esattamente ciò che il presidente del Consiglio gli dice di fare.

La tecnica è sempre la stessa. All'inizio il presidente del Consiglio fa finta di niente, anzi lascia intendere che ha intenzione di riconfermare gli incarichi. Poi all'improvviso arriva la rimozione. Uno dopo l'altro sta cadendo tutto il sistema di potere che Giuseppe Conte aveva schierato in due anni e mezzo a Palazzo Chigi. Via Arcuri, via Vecchione, via Fabrizio Palermo. A guardare le mosse di questi mesi, si capisce che il premier sta sistematicamente liquidando tutti coloro che in qualche modo gli ricordano il predecessore. Il metodo Draghi è semplice: senza strilli, senza polemiche, l'ex governatore fa secchi uno a uno i dieci piccoli indiani del precedente governo. Nel mirino, a dire il vero, non c'è solo Conte, che voleva farsi un partito, ma non riesce nemmeno a farsi leader. Nell'obbiettivo del premier c'è anche Massimo D'Alema, che da vero ispiratore del governo giallorosso, aveva piazzato le sue pedine. Ma Draghi , lo sminatore, una a una le sta rimuovendo tutte. Per certi versi, è la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra.

Il premier smantella il sistema Conte eliminando i suoi uomini a uno a uno
Giuseppe Conte (Ansa)
Il giorno in cui Mario Draghi ha deciso di sostituire Gennaro Vecchione, mettendo Elisabetta Belloni ai vertici del Dipartimento per la sicurezza, pare che, prima di dare il benservito al generale per rimpiazzarlo con la zarina della Farnesina, il premier abbia alzato la cornetta e chiamato Giuseppe Conte.

L'ex presidente del Consiglio era ritenuto, a torto o a ragione, il grande sponsor del capo del Dis, prova ne sia che quando Matteo Renzi aveva tentato di troncare il rapporto tra i due, chiedendo all'avvocato del popolo di rinunciare alla delega sui servizi segreti, lui si era impuntato fino alla morte. Tuttavia, per licenziare Vecchione, a Draghi è bastata una telefonata. Da quello che hanno ricostruito i cronisti, le parole non sono state molte. Nello stile dell'ex governatore della Bce, la sua è stata una comunicazione, non una negoziazione. Del resto, era stato così anche per Angelo Borrelli, capo della Protezione civile, e per Domenico Arcuri, super commissario all'emergenza Covid. Appena arrivato a Palazzo Chigi, Draghi sembrava intenzionato a lasciarli al proprio posto, tanto che anche noi lo avevamo sollecitato a fare piazza pulita di persone che durante la pandemia non si erano rivelate all'altezza del compito. Ma il premier aveva tirato dritto per la sua strada, sorprendendo tutti, anche coloro che ne conoscono la determinazione. La riconferma degli specialisti in disastri, invece, è durata solo alcune settimane, giusto il tempo di consentire al nuovo presidente del Consiglio di ambientarsi.

Nessuno è riuscito a sapere con precisione che cosa abbia detto Draghi per far sloggiare Arcuri, ma di sicuro il colloquio è stato ridotto al minimo necessario: un ringraziamento formale e poi l'invito a sloggiare in fretta. Le cose devono essere andate più o meno allo stesso modo anche nei giorni scorsi, quando l'ex presidente della Bce ha deciso di sostituire i vertici di alcune partecipate dello Stato. Le scelte non sono state oggetto di una discussione con i capi della maggioranza che appoggia il governo. Draghi ha deciso di sostituire gli amministratori della Cassa depositi e prestiti, delle Ferrovie e basta. Al posto di uomini nominati dai partiti con una rigorosa assegnazione di incarichi in base al manuale Cencelli della lottizzazione, ha messo persone di sua fiducia, funzionari in arrivo da Banca d'Italia o da alcune grandi aziende. Punto. In un colpo, ha liquidato i riti della Prima e della Seconda Repubblica, che prevedevano mesi di discussione tra le parti, per contrattare ogni strapuntino. A ogni giravolta di governo, infatti, la faccenda più complicata non era assegnare i posti di ministro e nemmeno quelli di sottosegretario. Il vero problema era distribuire le poltrone di sottogoverno, perché quelli sono gli incarichi che contano davvero. Sedersi ai vertici di una partecipata significa avere soldi da spendere, assunzioni da fare, potere vero da amministrare. Mentre se si finisce a fare il sottosegretario senza portafogli, al massimo ne è gratificato l'ego, ma nulla di più.

Infatti, nel passato, ogni volta che si avvicinava la scadenza dei consiglieri di amministrazione delle partecipate, la lotta si faceva scivolosa. Nel passato, gli sgambetti per far cascare un candidato e agevolarne un altro erano all'ordine del giorno. E con l'avvento dei 5 stelle non era cambiato nulla, se non la corsa ad accreditarsi fra i seguaci di Grillo. Manager pubblici, professionisti, aspiranti amministratori dello Stato, tutti in fila per una poltroncina. Ma poi, ecco arrivare un tizio che non discute con nessuno. Altro che risiko delle nomine pubbliche, gran ballo dei posti a disposizione. Draghi fa da sé, consultandosi al massimo con il ministro dell'Economia, Daniele Franco, che poi è una specie di suo segretario, nel senso che fa esattamente ciò che il presidente del Consiglio gli dice di fare.

La tecnica è sempre la stessa. All'inizio il presidente del Consiglio fa finta di niente, anzi lascia intendere che ha intenzione di riconfermare gli incarichi. Poi all'improvviso arriva la rimozione. Uno dopo l'altro sta cadendo tutto il sistema di potere che Giuseppe Conte aveva schierato in due anni e mezzo a Palazzo Chigi. Via Arcuri, via Vecchione, via Fabrizio Palermo. A guardare le mosse di questi mesi, si capisce che il premier sta sistematicamente liquidando tutti coloro che in qualche modo gli ricordano il predecessore. Il metodo Draghi è semplice: senza strilli, senza polemiche, l'ex governatore fa secchi uno a uno i dieci piccoli indiani del precedente governo. Nel mirino, a dire il vero, non c'è solo Conte, che voleva farsi un partito, ma non riesce nemmeno a farsi leader. Nell'obbiettivo del premier c'è anche Massimo D'Alema, che da vero ispiratore del governo giallorosso, aveva piazzato le sue pedine. Ma Draghi , lo sminatore, una a una le sta rimuovendo tutte. Per certi versi, è la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra.

Il premier smantella il sistema Conte eliminando i suoi uomini a uno a uno
Giuseppe Conte (Ansa)
Il giorno in cui Mario Draghi ha deciso di sostituire Gennaro Vecchione, mettendo Elisabetta Belloni ai vertici del Dipartimento per la sicurezza, pare che, prima di dare il benservito al generale per rimpiazzarlo con la zarina della Farnesina, il premier abbia alzato la cornetta e chiamato Giuseppe Conte.
Il sommergibile Arcuri si inabissa per sopravvivere

Che cosa fanno i sommergibili quando sono inseguiti da forze nemiche e rischiano di essere affondati? Si immergono, ossia scendono in profondità sui fondali, sperando di sfuggire ai radar e, soprattutto, ai siluri della flotta avversaria. Secondo autorevoli quotidiani, sarebbe questa la tecnica adottata da Domenico Arcuri, del quale da giorni si sono perse le tracce.

Abituato a concedere interviste a giornali e tv, oltre che ad apparire spesso in conferenza stampa, da quando c'è il nuovo governo il commissario all'emergenza Covid si è inabissato, provando a farsi dimenticare. Le ragioni dell'improvviso silenzio stampa non derivano, come qualcuno potrebbe pensare, solo dal cambio a Palazzo Chigi. Certo, l'uscita di scena di Giuseppe Conte - l'uomo che per fronteggiare la pandemia un anno fa lo aveva voluto al posto di Angelo Borrelli - e l'arrivo di Mario Draghi, hanno avuto un'influenza sulle performance televisive dell'amministratore delegato di Invitalia. Tuttavia, non si tratta solo di quello. A indurre Arcuri alla prudenza e a rinunciare ai settimanali incontri con i giornalisti, dove esibiva potere e disprezzo nei confronti di chi gli rivolgeva domande ritenute scomode, sono anche le inchieste aperte da alcune Procure sulle forniture di dispositivi di protezione. In particolare, c'è l'indagine dei pm di Roma sulle mascherine arrivate dalla Cina grazie a una curiosa combriccola di improvvisati intermediari, fra i quali spicca un giornalista Rai che vantava una solida conoscenza proprio con il commissario all'emergenza. I lettori de La Verità sanno tutto di questa faccenda, perché da settimane, in assoluta solitudine, il nostro giornale li informa sugli sviluppi dell'inchiesta, in particolare sulla commissione da oltre 70 milioni incassata dai presunti broker. Uno di loro, Mario Benotti, cronista tv in aspettativa, era abituato a entrare e uscire dai Palazzi romani, in particolare da quelli dei ministeri in quota Pd. Per questo, agli inizi dell'epidemia, aveva contattato Arcuri, il quale adesso quasi nega di conoscerlo, anche se gli inquirenti hanno annotato più di 1.200 contatti telefonici in soli pochi mesi.

Oltre alle indagini e al cambio di passo dovuto al nuovo governo, a contribuire all'inabissamento del super commissario c'è anche il fatto che la campagna vaccinale procede meno bene di come era stata annunciata. Tra dicembre e gennaio, Arcuri si dimostrava certo di poter immunizzare in pochi mesi gran parte degli italiani e, bisogna riconoscere, che in principio le cose erano andate spedite, tanto che l'Italia risultava il primo Paese europeo per numero di inoculati. Ma poi tutto è cambiato. Ufficialmente per il taglio delle forniture di fiale da parte delle aziende farmaceutiche e un po' perché la task force che il commissario aveva promesso di mettere in campo non s'è mai vista. Le primule, cioè i tendoni dove gli italiani avrebbero ricevuto le inoculazioni, sono sfiorite ancora prima di sbocciare. I medici e gli infermieri da assumere si sono ridotti da 15.000 a poco più di 3.000. Gli accordi con farmacisti e dottori di famiglia sono stati avviati in ritardo. Risultato, se prima l'Italia era avanti al resto d'Europa, adesso è scavalcata, in percentuale, da Romania, Grecia, Polonia, Portogallo, per non dire di Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia, Slovacchia e Slovenia e della Lituania.

Non tutte le colpe però sono del pover'uomo costretto dagli eventi a nascondersi sui fondali della politica. Se in Italia i vaccini scarseggiano è perché l'Europa i contratti li ha fatti al ribasso, cioè cercando di risparmiare, firmando contratti a 18 dollari quasi si trattasse di saldi di fine stagione. In Israele, Paese che ha già vaccinato l'82 per cento della popolazione, le fiale le hanno pagate 30 dollari. Negli Stati Uniti, il tanto vituperato Donald Trump ha speso tra i 20 e i 24 dollari, ma adesso hanno già inoculato le dosi a quasi 60 milioni di abitanti (circa il 18 per cento degli americani), così come quel buffone di Boris Johnson ha vaccinato oltre 17 milioni di inglesi (più del 25 per cento), e quel dittatore di Erdogan 6,5 milioni di turchi, il 7,5 per cento del totale, per non parlare degli Emirati Arabi, con 5,5 milioni, oltre la metà degli abitanti. Certo, israeliani, americani, britannici, arabi e, credo, anche i turchi hanno speso più di ciò che alla fine spenderemo noi per vaccinarci. Ma che cosa sono 1,2 miliardi di euro (tanto avremmo pagato se avessimo sborsato il prezzo sostenuto da Tel Aviv) in confronto a ciò che ci è costato e ci costa il lockdown? Invece di buttare soldi nei monopattini (465 milioni), nei bonus vacanze (2,4 miliardi stanziati, 615 milioni prenotati) o nel cashback (230 milioni), ci saremmo potuti comprare tutti i vaccini che ci servivano anche a 30 dollari. Ma il governo giallorosso ha preferito fare altro, accodandosi alla linea di Ursula von der Leyen, che oggi tutti - perfino quelli che osannano la Ue - riconoscono come un fallimento.

Certo, tutto ciò non è attribuibile all'inaffondabile sommergibilista a cui è affidata l'emergenza Covid, e però qualche responsabilità va riservata anche a lui perché, quando si iniziò a parlare del taglio dei vaccini, Arcuri assicurò con una certa tracotanza che avrebbe fatto causa alla Pfizer e a tutte le altre aziende che si fossero permesse di non rispettare gli accordi. Poi, qualcuno deve avergli spiegato che non c'era alcuna possibilità di vincere il contenzioso, perché le forniture non erano state ordinate a nome dell'Italia, ma di Bruxelles e a ogni buon conto le clausole contrattuali esentavano le società da qualsiasi responsabilità in caso di ritardo. Risultato, le iniziative giudiziarie annunciate con enfasi da Arcuri si sono inabissate nel profondo dei mari. Proprio come il commissario. Del resto, l'importante non è esistere, ma resistere. Se serve, sotto il pelo dell'acqua e pure sotto quello della decenza.

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