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2025-05-29
Mare Jonio, Casarini a processo
Luca Casarini (Ansa)
I sette membri dell’equipaggio della nave Mare Jonio cari al cardinale Matteo Maria Zuppi e al defunto papa Francesco, tra cui Luca Casarini, ex no global che, dismessa la tuta bianca, si è riciclato come commodoro salva migranti, sono stati rinviati a giudizio dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Ragusa per l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, reato aggravato dall’averne tratto un profitto. L’indagine si era concentrata su un’operazione dell’11 settembre 2020, ovvero quando la Mare Jonio trasferì a bordo 27 migranti che la nave mercantile Maersk Etienne (il 5 agosto) recuperò al largo di Malta. Otto mesi dopo Maersk saldò con questa voce: «Servizi di assistenza forniti in acque internazionali-Settembre 2020». Un soccorso a pagamento, praticamente, secondo l’accusa. Alla richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero ha aderito l’Avvocatura dello Stato, che si è costituita parte civile per il ministero dell’Interno. E, così, i sette della Mare Jonio dovranno affrontare il processo. A partire da Pietro Marrone, comandante della nave della Ong Mediterranea saving humans, e da Alessandro Metz, legale rappresentante della Idra social shipping, la società armatrice della nave. E, con loro, Giuseppe Caccia, vicepresidente del consiglio d’amministrazione della Idra e capo spedizione. Ma la figura centrale del procedimento è Casarini, indicato dagli inquirenti come «amministratore di fatto» dell’intera operazione. A chiudere il cerchio ci sono tre membri dell’equipaggio: il medico Agnese Colpani, il soccorritore Fabrizio Gatti e il tecnico di bordo Geogios Apostolopoulos. Per il pubblico ministero ognuno di loro avrebbe avuto un ruolo nel trasporto e nello sbarco di migranti sulle coste italiane in violazione delle norme. E lo avrebbe fatto non solo consapevolmente, ma anche con un ritorno economico diretto o indiretto. Il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Ragusa, Eleonora Schininà, ha fissato la prima udienza del processo al 21 ottobre, davanti ai giudici del collegio penale. Una data che segna il passaggio dall’inchiesta al dibattimento. I difensori rivendicano la «natura umanitaria» delle missioni e confidano che la Corte di Giustizia Europea offra una sponda decisiva. La Procura, infatti, aveva chiesto la sospensione della decisione in attesa delle valutazioni della Corte di giustizia europea sul perimetro della norma sul favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (caso Kinshasa) che potrebbe avere delle ripercussioni proprio sul capo di imputazione principale e che si presuppone possa determinarsi entro l’estate. Ma le narrazioni difensive sono entrate in collisione diretta con la ricostruzione della Procura: tra buone intenzioni e illegalità il confine sarebbe stato oltrepassato. Con finalità di profitto. Perché, stando alle ipotesi della Procura, con la Maersk si sarebbe trattato di un accordo commerciale. Le intercettazioni, anticipate dalla Verità, ricostruivano anche la rete di relazioni del raggruppamento di Casarini, sostenuto in passato da vescovi e cardinali promotori dell’accoglienza a go go. E proprio Casarini, con la bussola morale sempre puntata contro il governo, ora tenta di buttarla in politica: «Questo processo diventerà l’occasione per chiedere conto a ministri, governi e autorità, sul perché queste persone sono state lasciate in mezzo al mare. Diventerà un processo all’omissione di soccorso». In realtà, stando all’accusa, il soccorso c’è stato. Ma con il tassametro della Mare Jonio acceso.
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Il gup di Ragusa ha rinviato a giudizio l’ex leader delle tute bianche, accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina insieme ad altri 6 imputati.I sette membri dell’equipaggio della nave Mare Jonio cari al cardinale Matteo Maria Zuppi e al defunto papa Francesco, tra cui Luca Casarini, ex no global che, dismessa la tuta bianca, si è riciclato come commodoro salva migranti, sono stati rinviati a giudizio dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Ragusa per l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, reato aggravato dall’averne tratto un profitto. L’indagine si era concentrata su un’operazione dell’11 settembre 2020, ovvero quando la Mare Jonio trasferì a bordo 27 migranti che la nave mercantile Maersk Etienne (il 5 agosto) recuperò al largo di Malta. Otto mesi dopo Maersk saldò con questa voce: «Servizi di assistenza forniti in acque internazionali-Settembre 2020». Un soccorso a pagamento, praticamente, secondo l’accusa. Alla richiesta di rinvio a giudizio del pubblico ministero ha aderito l’Avvocatura dello Stato, che si è costituita parte civile per il ministero dell’Interno. E, così, i sette della Mare Jonio dovranno affrontare il processo. A partire da Pietro Marrone, comandante della nave della Ong Mediterranea saving humans, e da Alessandro Metz, legale rappresentante della Idra social shipping, la società armatrice della nave. E, con loro, Giuseppe Caccia, vicepresidente del consiglio d’amministrazione della Idra e capo spedizione. Ma la figura centrale del procedimento è Casarini, indicato dagli inquirenti come «amministratore di fatto» dell’intera operazione. A chiudere il cerchio ci sono tre membri dell’equipaggio: il medico Agnese Colpani, il soccorritore Fabrizio Gatti e il tecnico di bordo Geogios Apostolopoulos. Per il pubblico ministero ognuno di loro avrebbe avuto un ruolo nel trasporto e nello sbarco di migranti sulle coste italiane in violazione delle norme. E lo avrebbe fatto non solo consapevolmente, ma anche con un ritorno economico diretto o indiretto. Il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Ragusa, Eleonora Schininà, ha fissato la prima udienza del processo al 21 ottobre, davanti ai giudici del collegio penale. Una data che segna il passaggio dall’inchiesta al dibattimento. I difensori rivendicano la «natura umanitaria» delle missioni e confidano che la Corte di Giustizia Europea offra una sponda decisiva. La Procura, infatti, aveva chiesto la sospensione della decisione in attesa delle valutazioni della Corte di giustizia europea sul perimetro della norma sul favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (caso Kinshasa) che potrebbe avere delle ripercussioni proprio sul capo di imputazione principale e che si presuppone possa determinarsi entro l’estate. Ma le narrazioni difensive sono entrate in collisione diretta con la ricostruzione della Procura: tra buone intenzioni e illegalità il confine sarebbe stato oltrepassato. Con finalità di profitto. Perché, stando alle ipotesi della Procura, con la Maersk si sarebbe trattato di un accordo commerciale. Le intercettazioni, anticipate dalla Verità, ricostruivano anche la rete di relazioni del raggruppamento di Casarini, sostenuto in passato da vescovi e cardinali promotori dell’accoglienza a go go. E proprio Casarini, con la bussola morale sempre puntata contro il governo, ora tenta di buttarla in politica: «Questo processo diventerà l’occasione per chiedere conto a ministri, governi e autorità, sul perché queste persone sono state lasciate in mezzo al mare. Diventerà un processo all’omissione di soccorso». In realtà, stando all’accusa, il soccorso c’è stato. Ma con il tassametro della Mare Jonio acceso.
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Di fronte a questa ondata di insicurezza, i labour propongono più telecamere nelle città più importanti del Paese, applicando così, in modo massiccio, il riconoscimento facciale dei criminali. Oltre 45 milioni di cittadini verranno riconosciuti attraverso la videosorveglianza. Secondo la proposta avanzata dai labour, la polizia potrà infatti utilizzare ogni tipo di videocamera. Non solo quelle pubbliche, ma anche quelle presenti sulle auto, le cosiddette dashcam, e pure quelle dei campanelli dei privati cittadini. Come riporta il Telegraph, «le proposte sono accompagnate da un’iniziativa volta a far sì che la polizia installi telecamere di riconoscimento facciale “live” che scansionino i sospetti ricercati nei punti caldi della criminalità in Inghilterra e in Galles. Anche altri enti pubblici, oltre alla polizia, e aziende private, come i rivenditori, potrebbero essere autorizzati a utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale nell’ambito del nuovo quadro giuridico».
Il motivo, almeno nelle intenzioni, è certamente nobile, come sempre in questi casi. E la paura è tanta. Eppure questa soluzione pone importanti interrogativi legati alla libertà della persone e, soprattutto, alla loro privacy. C’è infatti già un modello simile ed è quello applicato in Cina. Da tempo infatti Pechino utilizza le videocamere per controllare la popolazione in ogni suo minimo gesto. Dagli attraversamenti pedonali ai comportamenti più privati. E premia (oppure punisce) il singolo cittadino in base ad ogni sua singola azione. Si tratta del cosiddetto credito sociale, che non ha a che fare unicamente con la liquidità dei cittadini, ma anche con i loro comportamenti, le loro condanne giudiziarie, le violazioni amministrative gravi e i loro comportamenti più o meno affidabili.
Quella che sembrava una distopia lì è diventata una realtà. Del resto anche in Italia, durante il Covid, è stato applicato qualcosa di simile con il Green Pass. Eri un bravo cittadino - e quindi potevi accedere a tutti i servizi - solamente se ti vaccinavi, altrimenti venivi punito: non potevi mangiare al chiuso, anche se era inverno, oppure prendere i mezzi pubblici.
Per l’avvocato Silkie Carlo, a capo dell’organizzazione non governativa per i diritti civili Big Brother, «ogni ricerca in questa raccolta di nostre foto personali sottopone milioni di cittadini innocenti a un controllo di polizia senza la nostra conoscenza o il nostro consenso. Il governo di Sir Keir Starmer si sta impegnando in violazioni storiche della privacy dei britannici, che ci si aspetterebbe di vedere in Cina, ma non in una democrazia». Ed è proprio quello che sta accadendo nel Regno Unito e che può accadere anche da noi. Il sistema cinese, poi, sta potenziando ulteriormente le proprie capacità. Secondo uno studio pubblicato dall’Australian strategic policy institute, Pechino sta potenziando ulteriormente la sua rete di controllo sulla cittadinanza sfruttando l’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda la censura online. Un pericolo non solo per i cinesi, ma anche per i Paesi occidentali visto che Pechino «è già il maggiore esportatore mondiale di tecnologie di sorveglianza basate sull’intelligenza artificiale». Come a dire: ciò che stanno sviluppando lì, arriverà anche da noi. E allora non saranno solamente i nostri Paesi a controllare le nostre azioni ma, in modo indiretto, anche Pechino.
C’è una frase di Benjamin Franklin che viene ripresa in Captain America e che racconta bene quest’ansia da controllo. Un’ansia che nasce dalla paura, spesso provocata da politiche fallaci. «Baratteranno la loro libertà per un po’ di sicurezza». Come sta succedendo nel Regno Unito, dopo anni di accoglienza indiscriminata. O come è successo anhe in Italia durante il Covid. Per anni, ci siamo lasciati intimorire, cedendo libertà e vita. Oggi lo scenario è peggiore, visto l’uso massiccio della tecnologia, che rende i Paesi occidentali sempre più simili alla Cina. E non è una bella notizia.
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Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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