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2018-12-14
Cercavano di mettere Curcio in cattedra
senza dire che è stato un brigatista rosso
ANSA
Tony e il Professore. Tony è uno studente universitario come tanti, lo smartphone davanti al naso, orizzonte nebuloso e voglia di futuro, che sabato voleva andare, magari con qualche amico, alla Scuola internazionale di Studi per la pace di Orsara (Puglia, Daunia, Foggia). Aveva saputo che lì, alle 17.30, doveva esserci un seminario dal titolo «Analisi sociale sulle condizioni di vita in alcune istituzioni italiane», dedicato a temi ai quali è sensibile: la situazione nelle carceri, negli orfanotrofi, nelle cliniche per gli anziani. Tony fa volontariato, per lui il seminario era imperdibile; doveva essere una cosa seria perché c'era il patrocinio dell'amministrazione comunale ed era sponsorizzato dall'Associazione nazionale partigiani che premierà il relatore. Il Professore avrebbe dovuto essere l'uomo sul palco con il microfono in mano, sulle cui parole sarebbe stato utile prendere appunti. Renato Curcio. Tony non sa niente di più, se non che questo signore è un sociologo, si occupa di tematiche legate alla disabilità e alle immigrazioni, argomenti perfetti per ottenere sovvenzioni pubbliche e private per la sua cooperativa editoriale e sociale dal nome dolcemente ungarettiano: Sensibili alle foglie. Questo c'era scritto nella presentazione pubblicata su Foggia Today. Una gran brava persona, a tal punto che il sindaco di Orsara, Tommaso Lecce, avrebbe dovuto indossare la fascia tricolore per tributargli un riconoscimento da parte dell'Anpi, in quanto nipote benemerito dell'Armando Curcio, partigiano della divisione Garibaldi morto a 21 anni «lottando per la libertà».Avrebbe potuto andare avanti per decine di minuti, ore, forse giorni a leggere la brochure dell'evento (il mitico storytelling renziano) annunciato con i violini e poi fatto saltare ieri sera, con un sussulto di buon senso. Ci avrebbe trovato approfondimenti di ogni genere: sulle carceri, su uomini e donne con problemi psichici, sull'arte, la formazione e il teatro come strumenti per combattere «il malessere delle persone». Ma da nessuna parte, neppure in una nota a margine, in un inciso stampato nel corpo del bugiardino dei farmaci o delle clausole delle assicurazioni, Tony avrebbe trovato una notizia non del tutto marginale. Prima di fondare la cooperativa sociale, nel 1971 - con l'effetto di aumentare la capienza degli orfanotrofi e di diminuire quella degli istituti per anziani -, Renato Curcio fondò le Brigate Rosse, gruppo terroristico di estrema sinistra che con attentati, rapine e omicidi imperversò in Italia negli Anni di piombo.Il Professore sociologo dalle cui labbra Tony avrebbe rischiato di pendere domani alle 17.30 fu arrestato nel 1974, evase l'anno dopo, fu ripreso, condannato a 28 anni per costituzione di associazione sovversiva, mandante morale di alcuni omicidi e non si è mai dissociato. Tony a questo punto avrebbe alzato il sopracciglio per capire. Roba da vecchi: non ha mai rinnegato quella stagione, limitandosi a prendere atto che la guerra era finita e che si poteva passare a occuparsi d'altro. Una delle sue frasi più celebri, che ancora oggi fa fremere di piacere certi happy few con le borse sotto gli occhi e la sdraio a Capalbio, è infatti: «Che la nostra generazione sia stata sconfitta è ormai un luogo comune. Quel che non mi è chiaro è chi, in realtà, abbia poi vinto la partita».Decine di morti fabbricati a mano li chiama partita. L'importante è che l'abbia persa lui e che non dimentichi la scia di sangue che s'è lasciato alle spalle. Sia chiaro, nessuno vorrebbe negargli il diritto di parlare della sua esperienza nel percorso di redenzione. Ma sarebbe stato singolare che Comune, Anpi, Scuola internazionale che organizzavano la conferenza nella stessa regione dove nacque Aldo Moro (ucciso dalle Br, non da un'auto targata Brindisi), avessero come avvertito fino all'ultimo, fino al tardivo ripensamento, la pelosa necessità di nascondere ciò che soprattutto è stato Renato Curcio. Non un prigioniero di moda, non l'uomo sbagliato, non un manovale riciclatosi intellettuale di quella che Francesco Cossiga definiva «la nota lobby». Ma un terrorista. Neppure lui, orgoglioso difensore delle proprie deliranti scelte, nell'età della saggezza (ne ha appena compiuti 77) arriverebbe a chiedere il diritto all'oblio. Per la Storia non esiste. Nella Storia vince sempre quel vizio che l'ex pm Gherardo Colombo un giorno definì «il vizio della memoria». Tony, che a questo puntò non dovrà bersi la lezione di bontà e dedizione alle buone cause di uno dei fondatori delle Brigate Rosse (con la moglie Mara Cagol e Alberto Franceschini), sappia comunque un paio di altre facezie sul Professore e sulle sue credenziali. La prima è una dichiarazione di Marco Boato, rilasciata ad Aldo Cazzullo per il libro I ragazzi che volevano fare la rivoluzione: «Fondò le Brigate Rosse nel 1971, ma già due anni prima ai tavolini dei caffè mi spiegava la differenza fra la guerra di guerriglia di Che Guevara e la guerra di popolo di Mao, sostenendo la superiorità di quest'ultima». La seconda è la smentita di Guido Viale all'ipotesi che Lotta Continua avesse a suo tempo chiesto alle Br di confluire in un'unica organizzazione: «L'opinione che c'eravamo fatti di Curcio era tale che escludo che Giorgio Pietrostefani abbia potuto chiedergli di venire con noi». Troppo pericoloso.Acqua passata, e del resto Curcio su un palco c'è già salito. Ma per tutti i Tony di vent'anni che domani avrebbero potuto ascoltarlo a Orsara è fondamentale sapere chi è stato per giudicare ciò che dice. Paradosso, alla fine la cosa più sensata arriva dall'Anpi: «Siamo completamente estranei a questa manifestazione», dice Michele Galante, presidente dei partigiani di Foggia. «Rendiamo onore a questo partigiano che ha combattuto ma non sappiamo nulla della manifestazione e non siamo stati nemmeno invitati». Amen.
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Riduci
Il fondatore delle Br domani doveva tenere lezione in Puglia ed essere premiato dall'Anpi. Le proteste fanno saltare tutto.Tony e il Professore. Tony è uno studente universitario come tanti, lo smartphone davanti al naso, orizzonte nebuloso e voglia di futuro, che sabato voleva andare, magari con qualche amico, alla Scuola internazionale di Studi per la pace di Orsara (Puglia, Daunia, Foggia). Aveva saputo che lì, alle 17.30, doveva esserci un seminario dal titolo «Analisi sociale sulle condizioni di vita in alcune istituzioni italiane», dedicato a temi ai quali è sensibile: la situazione nelle carceri, negli orfanotrofi, nelle cliniche per gli anziani. Tony fa volontariato, per lui il seminario era imperdibile; doveva essere una cosa seria perché c'era il patrocinio dell'amministrazione comunale ed era sponsorizzato dall'Associazione nazionale partigiani che premierà il relatore. Il Professore avrebbe dovuto essere l'uomo sul palco con il microfono in mano, sulle cui parole sarebbe stato utile prendere appunti. Renato Curcio. Tony non sa niente di più, se non che questo signore è un sociologo, si occupa di tematiche legate alla disabilità e alle immigrazioni, argomenti perfetti per ottenere sovvenzioni pubbliche e private per la sua cooperativa editoriale e sociale dal nome dolcemente ungarettiano: Sensibili alle foglie. Questo c'era scritto nella presentazione pubblicata su Foggia Today. Una gran brava persona, a tal punto che il sindaco di Orsara, Tommaso Lecce, avrebbe dovuto indossare la fascia tricolore per tributargli un riconoscimento da parte dell'Anpi, in quanto nipote benemerito dell'Armando Curcio, partigiano della divisione Garibaldi morto a 21 anni «lottando per la libertà».Avrebbe potuto andare avanti per decine di minuti, ore, forse giorni a leggere la brochure dell'evento (il mitico storytelling renziano) annunciato con i violini e poi fatto saltare ieri sera, con un sussulto di buon senso. Ci avrebbe trovato approfondimenti di ogni genere: sulle carceri, su uomini e donne con problemi psichici, sull'arte, la formazione e il teatro come strumenti per combattere «il malessere delle persone». Ma da nessuna parte, neppure in una nota a margine, in un inciso stampato nel corpo del bugiardino dei farmaci o delle clausole delle assicurazioni, Tony avrebbe trovato una notizia non del tutto marginale. Prima di fondare la cooperativa sociale, nel 1971 - con l'effetto di aumentare la capienza degli orfanotrofi e di diminuire quella degli istituti per anziani -, Renato Curcio fondò le Brigate Rosse, gruppo terroristico di estrema sinistra che con attentati, rapine e omicidi imperversò in Italia negli Anni di piombo.Il Professore sociologo dalle cui labbra Tony avrebbe rischiato di pendere domani alle 17.30 fu arrestato nel 1974, evase l'anno dopo, fu ripreso, condannato a 28 anni per costituzione di associazione sovversiva, mandante morale di alcuni omicidi e non si è mai dissociato. Tony a questo punto avrebbe alzato il sopracciglio per capire. Roba da vecchi: non ha mai rinnegato quella stagione, limitandosi a prendere atto che la guerra era finita e che si poteva passare a occuparsi d'altro. Una delle sue frasi più celebri, che ancora oggi fa fremere di piacere certi happy few con le borse sotto gli occhi e la sdraio a Capalbio, è infatti: «Che la nostra generazione sia stata sconfitta è ormai un luogo comune. Quel che non mi è chiaro è chi, in realtà, abbia poi vinto la partita».Decine di morti fabbricati a mano li chiama partita. L'importante è che l'abbia persa lui e che non dimentichi la scia di sangue che s'è lasciato alle spalle. Sia chiaro, nessuno vorrebbe negargli il diritto di parlare della sua esperienza nel percorso di redenzione. Ma sarebbe stato singolare che Comune, Anpi, Scuola internazionale che organizzavano la conferenza nella stessa regione dove nacque Aldo Moro (ucciso dalle Br, non da un'auto targata Brindisi), avessero come avvertito fino all'ultimo, fino al tardivo ripensamento, la pelosa necessità di nascondere ciò che soprattutto è stato Renato Curcio. Non un prigioniero di moda, non l'uomo sbagliato, non un manovale riciclatosi intellettuale di quella che Francesco Cossiga definiva «la nota lobby». Ma un terrorista. Neppure lui, orgoglioso difensore delle proprie deliranti scelte, nell'età della saggezza (ne ha appena compiuti 77) arriverebbe a chiedere il diritto all'oblio. Per la Storia non esiste. Nella Storia vince sempre quel vizio che l'ex pm Gherardo Colombo un giorno definì «il vizio della memoria». Tony, che a questo puntò non dovrà bersi la lezione di bontà e dedizione alle buone cause di uno dei fondatori delle Brigate Rosse (con la moglie Mara Cagol e Alberto Franceschini), sappia comunque un paio di altre facezie sul Professore e sulle sue credenziali. La prima è una dichiarazione di Marco Boato, rilasciata ad Aldo Cazzullo per il libro I ragazzi che volevano fare la rivoluzione: «Fondò le Brigate Rosse nel 1971, ma già due anni prima ai tavolini dei caffè mi spiegava la differenza fra la guerra di guerriglia di Che Guevara e la guerra di popolo di Mao, sostenendo la superiorità di quest'ultima». La seconda è la smentita di Guido Viale all'ipotesi che Lotta Continua avesse a suo tempo chiesto alle Br di confluire in un'unica organizzazione: «L'opinione che c'eravamo fatti di Curcio era tale che escludo che Giorgio Pietrostefani abbia potuto chiedergli di venire con noi». Troppo pericoloso.Acqua passata, e del resto Curcio su un palco c'è già salito. Ma per tutti i Tony di vent'anni che domani avrebbero potuto ascoltarlo a Orsara è fondamentale sapere chi è stato per giudicare ciò che dice. Paradosso, alla fine la cosa più sensata arriva dall'Anpi: «Siamo completamente estranei a questa manifestazione», dice Michele Galante, presidente dei partigiani di Foggia. «Rendiamo onore a questo partigiano che ha combattuto ma non sappiamo nulla della manifestazione e non siamo stati nemmeno invitati». Amen.
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Attualmente gli Stati Uniti mantengono 84.000 militari in Europa, dislocati in circa cinquanta basi. I principali snodi si trovano in Germania, Italia e Regno Unito, mentre la Francia non ospita alcuna base americana permanente. Il quartier generale del comando statunitense in Europa è situato a Stoccarda, da dove viene coordinata una forza che, secondo un rapporto del Congresso, risulta «strettamente integrata nelle attività e negli obiettivi della Nato».
Sul piano strategico-nucleare, sei basi Nato, distribuite in cinque Paesi membri – Belgio, Germania, Italia, Paesi Bassi e Turchia – custodiscono circa 100 ordigni nucleari statunitensi. Si tratta delle bombe tattiche B61, concepite esclusivamente per l’impiego da parte di bombardieri o caccia americani o alleati certificati. Dalla sua istituzione nel 1949, con il Trattato di Washington, la Nato è stata il perno della sicurezza americana in Europa, come ricorda il Center for Strategic and International Studies. L’articolo 5 garantisce che un attacco contro uno solo dei membri venga considerato un’aggressione contro tutti, estendendo di fatto l’ombrello militare statunitense all’intero continente.
Questo impianto, rimasto sostanzialmente invariato dalla fine della Seconda guerra mondiale, oggi appare messo in discussione. Il discorso del vicepresidente J.D. Vance alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco, i segnali di dialogo tra Donald Trump e Vladimir Putin sull’Ucraina e la diffusione di una dottrina strategica definita «aggressiva» da più capitali europee hanno alimentato il timore di un possibile ridimensionamento dell’impegno americano.
Sul fronte finanziario, Washington ha alzato ulteriormente l’asticella chiedendo agli alleati di destinare il 5% del Pil alla difesa. Un obiettivo giudicato irrealistico nel breve termine dalla maggior parte degli Stati membri. Nel 2014, solo tre Paesi – Stati Uniti, Regno Unito e Grecia – avevano raggiunto la soglia minima del 2%. Oggi 23 Paesi Nato superano quel livello, e 16 di essi lo hanno fatto soltanto dopo il 2022, sotto la spinta del conflitto ucraino. La guerra in Ucraina resta infatti il contesto determinante. La Russia controlla quasi il 20% del territorio ucraino. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la Nato aveva rafforzato il fianco orientale schierando quattro gruppi di battaglia nei Paesi baltici (Estonia, Lettonia, Lituania) e in Polonia. Dopo il 24 febbraio 2022, altri quattro battlegroup sono stati dispiegati in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia.
Queste forze contano complessivamente circa 10.000 soldati, tra cui 770 militari francesi – 550 in Romania e 220 in Estonia – e si aggiungono al vasto sistema di basi navali, aeree e terrestri già presenti sul continente. Nonostante questi numeri, la capacità reale dell’Europa rimane limitata. Come osserva Camille Grand, ex vicesegretario generale della Nato, molti eserciti europei, protetti per decenni dall’ombrello americano e frenati da bilanci contenuti, si sono trasformati in «eserciti bonsai»: strutture ridotte, con capacità parziali ma prive di profondità operativa. I dati confermano il quadro: 12 Paesi europei non dispongono di carri armati, mentre 14 Stati non possiedono aerei da combattimento. In molti casi, i mezzi disponibili non sono sufficientemente moderni o pronti all’impiego.
La dipendenza diventa totale nelle capacità strategiche. Intelligence, sorveglianza e ricognizione, così come droni, satelliti, aerei da rifornimento e da trasporto, restano largamente insufficienti senza il supporto statunitense. L’operazione francese in Mali nel 2013 richiese l’intervento di aerei americani per il rifornimento in volo, mentre durante la guerra in Libia nel 2011 le scorte di bombe a guida laser si esaurirono rapidamente. Secondo le stime del Bruegel Institute, riprese da Le Figaro, per garantire una sicurezza credibile senza l’appoggio degli Stati Uniti l’Europa dovrebbe investire almeno 250 miliardi di euro all’anno. Una cifra che fotografa con precisione il divario accumulato e pone una domanda politica inevitabile: il Vecchio Continente è disposto a sostenere un simile sforzo, o continuerà ad affidare la propria difesa a un alleato sempre meno disposto a farsene carico?
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Riduci
(Totaleu)
Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
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Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.
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