2021-01-12
Benvenuti: «Il teatro è civiltà, lo schermo è solitudine»
Alessandro Benvenuti (Getty images)
Il fondatore dei Giancattivi: «Il palcoscenico è un segno di umanità e di vitalità. Altrimenti dobbiamo prepararci a diventare automi. Raccontavamo un mondo che stava andando verso un tipo di follia. Basta vedere quello che succede oggi sui social...»
Il fondatore dei Giancattivi: «Il palcoscenico è un segno di umanità e di vitalità. Altrimenti dobbiamo prepararci a diventare automi. Raccontavamo un mondo che stava andando verso un tipo di follia. Basta vedere quello che succede oggi sui social...»Dopo le zone rossa, arancione e gialla, ora è la volta della zona bianca. Corsi e ricorsi storici. Nel 1977, mentre l'Italia viveva l'emergenza terrorismo, un gruppo di giovani comici, I Giancattivi, mise a soqquadro la Toscana con uno scherzo memorabile sulla Radio 3 regionale. Alessandro Benvenuti, oggi protagonista su Sky della serie I delitti del BarLume, rivendica con orgoglio il copyright della zona bianca. I Giancattivi emisero un falso bollettino definendo la Lucchesia zona bianca...«Zona batteriologicamente bianca!».Come vi era venuto in mente?«Perché era l'unica provincia democristiana in una regione rossa. Fu uno scherzo che riuscì molto bene: i centralini dei Vigili del Fuoco e della Prefettura furono invasi da telefonate e ci fu un fuggi fuggi verso le province amiche di Livorno, Massa Carrara e Pistoia, che erano tutte province rosse. Questo scherzo ci ha dato grande notorietà: la notizia fu ripresa anche nella stampa nazionale. Erano tempi in cui la satira era per pochi eletti, tanto è vero che quando fondammo il primo teatro, che oggi è il Teatro di Rifredi, lo chiamammo Humor side».Qual era la formazione de I Giancattivi all'epoca?«Athina Cenci, Alessandro Benvenuti e Franco Di Francescantonio». È vero che il nome Giancattivi deriva dal terzo componente della formazione iniziale, Paolo Nativi?«La leggenda narra che nel Settecento una colonia di ex schiavi romani liberatisi si erano trasferiti a Roccastrada, formando una colonia di mugnai, e lì cambiarono il cognome da Giancattivi in Nativi. L'etimologia è latina: iam captivus. Per noi scegliere di fare questa strada era una sorta di liberazione da quella che era stata la nostra vita passata, era la realizzazione dei nostri sogni. Aveva un significato molto profondo per noi il nome Giancattivi».Come siete arrivati a Non stop, la trasmissione televisiva che vi ha lanciato nel 1979?«Perché eravamo parecchio bravi! Enzo Trapani e Alberto Testa, i due autori del programma, ci videro al Teatro Verdi a Milano. Ci pedinarono per un mese intero prima di convincerci... ».Perché?«Non ce ne importava nulla di andare in televisione: eravamo molto puri, tutti presi dal nostro tipo di teatro sperimentale: non erano solo sketch con le barzellette, ma ci ispiravamo ai movimenti dadaisti, surrealisti e futuristi. Poi, siccome in quella trasmissione c'era anche Massimo De Rossi che aveva portato in scena una magnifica pièce di Roberto Lerici, Bagno finale, ed era stato ospite nostro a teatro, ci siamo detto: «Se c'è De Rossi, ci si può andare anche noi!». Senti quanto eravamo scemi».A Non Stop c'era anche Francesco Nuti.«Nuti entrò perché il terzo de I Giancattivi di quell'epoca, Tonino Catalano del Mago Povero di Asti, che era con noi da sei mesi, non volle fare televisione, per cui eravamo rimasti Athina Cenci e io, finché un funzionario dell'Arci toscano ci dette la dritta: "Ma perché non andate a vedere questo giovane comico talentuoso che ha iniziato da poco a fare cabaret?". Andammo a vederlo e Francesco entrò nel gruppo. La prima cosa che fece con noi fu Non Stop, un bel colpo».Giocavate alla scuola, con la maestra e i due alunni...«Quello nella seconda trasmissione che abbiamo fatto in televisione, La sberla, per la regia di Giancarlo Nicotra. A Non stop presentammo una serie di sketch, tra i quali c'era anche quello dei due alunni e la maestra».L'avevate già fatto a teatro?«Erano tutti sketch provatissimi, fatti in teatro centinaia di volte. La vera novità di Non stop era dovuta al fatto che i gruppi o i singoli comici presentavano degli sketch che erano già testati con il pubblico, che quindi avrebbero funzionato di sicuro. Questa fu una grande intuizione di Enzo Trapani».La notorietà fu immediata?«Io so' rimasto chiuso in casa per due settimane! Andavamo in onda in prima serata, il giovedì sera, sulla Rete 1, con due soli canali, ci vedevano decine di milioni di persone: il giorno dopo eri santo, ti mancavano solo le stigmate! La prima volta che uscii ebbi la malaugurata idea di prendere un treno dal mio paese, Pontassieve, fino a Firenze. Non ti dico cosa è successo su quel treno! Sono stato preso d'assalto da due vagoni di gente: firmai autografi dalla partenza all'arrivo».In famiglia cosa dissero?«Erano molto soddisfatti perché guadagnavo! Erano talmente disperati del mio fallimento come studente che furono molto contenti di vedermi sbocciare come attore».Dopo il successo televisivo, fioccarono subito le proposte cinematografiche?«Il cinema si fiondò su di noi: ci fecero un sacco di proposte, ma erano tutte persone che ci piacevano poco, per cui inventavamo film che costavano così tanto che alla fine non ce li facevano fare. Invece poi, quando scoprimmo i produttori giusti, Franco Cristaldi, Gianfranco Piccioli e Mauro Berardi, scrissi Ad ovest di Paperino. Con noi, I Gatti di Vicolo Miracoli, La Smorfia, Carlo Verdone, che provenivano tutti da Non Stop, si portò nel cinema italiano una ventata di novità, allontanandoci dai padri sacri, i Gassman, i Tognazzi, i Manfredi, i Sordi».Poi Nuti andò via...«Ad ovest di Paperino fu un film complicato perché il gruppo si sciolse dopo tre settimane di lavorazione. Arrivare in fondo fu veramente faticoso. Francesco aveva un grande talento, ma poco metodo, per cui subiva un po' la nostra personalità. Questo è stato uno dei motivi per cui ha voluto fare la sua strada, scelta più che legittima. Gli abbiamo insegnato molto io e Athina, però Francesco è stato importantissimo per noi per avere il successo che abbiamo avuto perché dei tre era il più determinato a conseguirlo. Noi eravamo un po' più snob, ce ne fregava fino a un certo punto».Voi due invece avete proseguito...«Per altri due anni, molto belli, con Daniele Trambusti. Portammo in teatro un bellissimo spettacolo, Corto Maltese, facemmo un secondo film, Era una notte buia e tempestosa..., e un programma televisivo, Lady Magic, poi ci sciogliemmo».Per quale motivo?«Perché si muore da soli anche nella malaugurata idea che si partecipi a un suicidio collettivo!».Dei film che ha fatto Nuti da solo quale ha apprezzato?«I film che ha fatto Francesco, se devo essere sincero, non è che mi hanno fatto mai impazzire. Quello che mi è piaciuto di più è Tutta colpa del Paradiso, escluso il primo quarto d'ora che è tremendo. La cosa da sottolineare di Francesco è che non è mai stato un uomo molto felice, nonostante abbia avuto delle grandi fortune. Questo mal di vivere lo ha espresso in tutti i suoi film. Siccome io ho voluto molto bene a Francesco e lo conosco molto bene intimamente, nei suoi film ho sempre visto il disagio che covava dentro. Tutta colpa del Paradiso è l'unico che mi ha veramente fatto ridere con gioia perché ho visto un Francesco solare, radioso, ho avuto il sollievo di vederlo in un momento di grazia».Fu coniato il termine «malincomici» per definire i comici della vostra generazione...«Siamo stati dei comici più coscienti di quelli della generazione che ci ha preceduto. Loro si sono dovuti adattare al mercato, noi abbiamo inventato un nuovo mercato. Abbiamo cercato di ricostruire la comicità attraverso l'umanità, il sociale, la vita. I Giancattivi raccontavano il surrealismo di un mondo, che stava andando verso un tipo di follia. Basta vedere quello che succede oggi sui social... ».Poi ha avuto anche modo di lavorare con Verdone in Compagni di scuola, dove organizza un altro scherzo terribile alle spalle dei suoi compagni di liceo, spacciandosi per un disabile, un ruolo politicamente scorretto. «Se penso al cazzotto che Athina Cenci dà al neonato dentro alla carrozzina in Ad ovest di Paperino, in un paese di mamme come l'Italia... io sono abituate a fare 'ste cose: l'artista ha l'obbligo di essere scomodo, di rompere gli schemi, non può fare le cose che vuole il mercato».Il teatro è la linea che dà continuità alla sua carriera?«Sono nato a teatro. Sono tuttora direttore artistico dei teatri di Siena e del teatro di Tor Bella Monaca. Non smetterò mai di fare teatro, è la mia vita, infatti ora soffro molto».Come vive la chiusura dei teatri?«Non ho tanto voglia di parlarne. Ogni tanto sento uno pseudo-giornalista che dice delle cose terribili, come se noi fossimo una categoria della quale si può tranquillamente fare a meno, come se il teatro fosse un lusso... È che la gente non sa qual è il nostro lavoro, anche per colpa del mondo del teatro che si è sempre chiuso in sé stesso, anziché dire: "Venite a vedere quando si fanno le prove quanta fatica si fa!". Venite a vedere cosa vuol dire far uscire la gente di casa per andare in un luogo dove può ascoltare delle storie e discuterne dopo: è un segno di umanità e di vitalità. È la civiltà che va avanti, non la solitudine davanti allo schermo. Il futuro non è davanti a un computer: se è così, vuol dire che ci dobbiamo preparare a diventare automi. È questo che mi fa paura: non si tiene conto delle ferite che la pandemia porterà dentro di noi, questa aberrazione di chiudersi in casa a lavorare nello stesso posto dove mangi, leggi un libro, dormi, campi, come si dice in toscano».Ha fatto il Covid e durante il lockdown ha tenuto un diario. A settembre ha avuto la possibilità di tornare sul palcoscenico.«Ho fatto uno spettacolo meraviglioso, Panico ma rosa, tre volte e poi basta, ci hanno rinchiuso un'altra volta!».Ha interpretato anche film drammatici, come Soldati 365 giorni all'alba di Marco Risi. Erano tentativi di uscire dai panni del comico...«Ma io non so' comico! Se uno vuole vedere un grande attore drammatico, deve vedere un attore comico. Chi fa il drammatico e basta molto spesso diventa un trombone. Tutti i comici, quando si sono cimentati in parti drammatiche, sono sempre risultati clamorosamente bravi. Io le poche volte che ho fatto delle cose non comiche mi sono piaciuto molto di più di quando faccio il comico, ti devo dire la verità. Ho questa nomea d'orso per cui non mi capita molto spesso di avere delle proposte di fare altro rispetto a quello che faccio, ma va bene così perché mi piace stare a casa mia».
(Guardia di Finanza)
I Comandi Provinciali della Guardia di finanza e dell’Arma dei Carabinieri di Torino hanno sviluppato, con il coordinamento della Procura della Repubblica, una vasta e articolata operazione congiunta, chiamata «Chain smoking», nel settore del contrasto al contrabbando dei tabacchi lavorati e della contraffazione, della riduzione in schiavitù, della tratta di persone e dell’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Le sinergie operative hanno consentito al Nucleo di polizia economico-finanziaria Torino e alla Compagnia Carabinieri di Venaria Reale di individuare sul territorio della città di Torino ed hinterland 5 opifici nascosti, dediti alla produzione illegale di sigarette, e 2 depositi per lo stoccaggio del materiale illecito.
La grande capacità produttiva degli stabilimenti clandestini è dimostrata dai quantitativi di materiali di contrabbando rinvenuti e sottoposti a sequestro: nel complesso più di 230 tonnellate di tabacco lavorato di provenienza extra Ue e circa 22 tonnellate di sigarette, in gran parte già confezionate in pacchetti con i marchi contraffatti di noti brand del settore.
In particolare, i siti produttivi (completi di linee con costosi macchinari, apparati e strumenti tecnologici) e i depositi sequestrati sono stati localizzati nell’area settentrionale del territorio del capoluogo piemontese, nei quartieri di Madonna di Campagna, Barca e Rebaudengo, olre che nei comuni di Caselle Torinese e Venaria Reale.
I siti erano mimetizzati in aree industriali per dissimulare una normale attività d’impresa, ma con l’adozione di molti accorgimenti per svolgere nel massimo riserbo l’illecita produzione di sigarette che avveniva al loro interno.
I militari hanno rilevato la presenza di sofisticate linee produttive, perfettamente funzionanti, con processi automatizzati ad alta velocità per l’assemblaggio delle sigarette e il confezionamento finale dei pacchetti, partendo dal tabacco trinciato e dal materiale accessorio necessario (filtri, cartine, cartoncini per il packaging, ecc.), anch’esso riportante il marchio contraffatto di noti produttori internazionali autorizzati e presente in grandissime quantità presso i siti (sono stati infatti rinvenuti circa 538 milioni di componenti per la realizzazione e il confezionamento delle sigarette recanti marchi contraffatti).
Gli impianti venivano alimentati con gruppi elettrogeni, allo scopo di non rendere rilevabile, dai picchi di consumo dell’energia elettrica, la presenza di macchinari funzionanti a pieno ritmo.
Le finestre che davano verso l’esterno erano state oscurate mentre negli ambienti più interni, illuminati solo artificialmente, erano stati allestiti alloggiamenti per il personale addetto, proveniente da Paesi dell’Est europeo e impiegato in condizioni di sfruttamento e in spregio alle norme di sicurezza.
Si trattava, in tutta evidenza, di un ambiente lavorativo degradante e vessatorio: i lavoratori venivano di fatto rinchiusi nelle fabbriche senza poter avere alcun contatto con l’esterno e costretti a turni massacranti, senza possibilità di riposo e deprivati di ogni forma di tutela.
Dalle perizie disposte su alcune delle linee di assemblaggio e confezionamento dei pacchetti di sigarette è emersa l’intensa attività produttiva realizzata durante il periodo di operatività clandestina. È stato stimato, infatti, che ognuna di esse abbia potuto agevolmente produrre 48 mila pacchetti di sigarette al giorno, da cui un volume immesso sul mercato illegale valutabile (in via del tutto prudenziale) in almeno 35 milioni di pacchetti (corrispondenti a 700 tonnellate di prodotto). Un quantitativo, questo, che può aver fruttato agli organizzatori dell’illecito traffico guadagni stimati in non meno di € 175 milioni. Ciò con una correlativa evasione di accisa sui tabacchi quantificabile in € 112 milioni circa, oltre a IVA per € 28 milioni.
Va inoltre sottolineato come la sinergia istituzionale, dopo l’effettuazione dei sequestri, si sia estesa all’Agenzia delle dogane e dei monopoli (Ufficio dei Monopoli di Torino) nonché al Comando Provinciale del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco di Torino nella fase della gestione del materiale cautelato che, anche grazie alla collaborazione della Città Metropolitana di Torino, è stato già avviato a completa distruzione.
Continua a leggereRiduci