Classe 1961, insegnante di religione dopo esserlo stato di estetica, scrittore, sociologo, cantautore, marito e padre di quattro figli, il trentino Marco Luscia è un intellettuale assai versatile.
Però da tempo ha scelto di dedicarsi con particolare attenzione al tema dei giovani, pubblicando al riguardo un libro notevole anche per lo spessore - oltre 600 pagine - intitolato Maledetti giovani. Tra paure e speranza (La Vela), da cui è stato ricavato pure un omonimo e seguito podcast. Per questo La Verità ha scelto di interpellarlo per capire meglio le dinamiche della religiosità giovanile, quanto meno con riferimento al nostro Paese.
Luscia, da anni i dati rilevano un allontanamento dei giovani dalla religione. Da docente, come registra e osserva questo fenomeno?
«Il fenomeno appare evidente. Gran parte degli studenti è indubitabilmente attratto dal fenomeno del sacro, poi dal fatto religioso, ma senza alcuna implicazione legata a una particolare confessione. Esiste un analfabetismo radicale riguardo alle questioni di fede. Non parliamo poi, dell’incapacità di affrontare razionalmente i nodi concettuali che caratterizzano il cattolicesimo. Dogmi, sacramenti, significato della Pasqua, santità, sacrificio: esiste su di essi un totale disinteresse. In realtà, i ragazzi sono affascinati proprio da queste cose, purché qualcuno le proponga loro. Questo discorso vale sia per i credenti che per in non credenti, posto che si sappia cosa significhi credere, la qual cosa non darei per scontata. Molti ragazzi fanno religione perché sentono che in “quell’ora” possono essere ascoltati e soprattutto non essere giudicati. In ogni caso chi ha ricevuto i sacramenti, per lo più non sa nulla della fede cui pensa di appartenere. Dovremmo introdurre un ottavo sacramento, quello della maturità intellettuale, lo collocherei dopo la maggiore età».
Per lei, che insegna religione, a prevalere tra i ragazzi è oggi un rifiuto della Chiesa cattolica, di Gesù o in generale verso il trascendente?
«I ragazzi diffidano di ogni istituzione, il loro è un disamore. I social, d’altra parte, spesso disinformano e creano diffidenza verso la Chiesa, interpretata come “covo di impronunciabili ambizioni”. Di Gesù, quando se ne parla, è accettata la dimensione di grande uomo, raramente quelle di uomo-Dio. I ragazzi a volte dicono: “Io seguo Gesù, non la Chiesa”. Al che rispondo: “È più facile seguire la Chiesa che non Cristo, chi segue il Cristo deve essere disposto a perdere”. Al che restano perplessi. Il cattolicesimo è la religione dell’et-et, non dell’aut-aut. Tiene assieme quelli che papa Francesco chiamava -sulla falsariga di Guardini -gli opposti polari. Il cattolicesimo, proprio per questo può generare “conflitti dialettici”. Uomo-Dio, Santo-peccatore, Vergine e madre. Opposti polari che non si escludono. Questa cosa ai ragazzi piace».
Quanto pesa in tutto questo un altro e antecedente allontanamento dalla fede: quello proprio delle famiglie di questi ragazzi?
«Le famiglie non di rado -quando cristiane e cattoliche - vivono una fede di tipo conformista, nella speranza i figli si irrobustiscano riguardo al credere in “qualche cosa”. Il che è tutto dire. Gli adulti, spesso privi di cultura religiosa, tendono pertanto a sperare che i figli possano credere. A cosa? A ciò in cui loro non credono più. Ma i ragazzi riconoscono l’incoerenza, hanno infatti antenne sensibilissime. La crisi del senso religioso in famiglia riverbera inevitabilmente sulla vita dei figli».
Per quanto pochi, ci sono ancora dei giovani che credono e che vanno a messa. Secondo la sua esperienza, questo dà loro un aiuto importante nella vita di tutti i giorni?
«I ragazzi che frequentano la messa sono pochi, non di rado timorosi di manifestare questa loro abitudine per il timore del giudizio dei coetanei. Ciò che noto è come i ragazzi impegnati in parrocchia, ma soprattutto che frequentano costantemente il sacramento dell’eucarestia, manifestino una maggior serenità e una più accentuata disponibilità al valore delle gratuità. Oggi, la scuola insiste su altri temi, in primis l’autoaffermazione in salsa competitiva. Ogni ragazzo dovrebbe realizzare il “capolavoro di sé stesso”. Il Papa ha ragione, la perdita di un orizzonte collettivo di fede finisce per rendere la vita un agone dove tutti lottano, finendo per perdere speranza».
Papa Leone XIV nel suo Regina coeli ha riproposto ai giovani il «non abbiate paura» di Giovanni Paolo II. Una Chiesa che torna a proporsi in questo modo forte, invitando a riscoprire anche il mistero e le sfide della fede, ha secondo lei ancora qualcosa da dire?
«Questo è il punto essenziale. La Chiesa dovrebbe porsi con forza su due piani. Quello dell’impegno sociale verso gli ultimi e quello della riscoperta e della riproposta forte del mistero. Nel mistero si entra, non è una categoria concettuale. L’amore umano è un mistero. I ragazzi hanno bisogno di trascendenza, di testimoni come i Santi, essi cercano l’immateriale. I ragazzi sono attratti dal mistero. Il solo impegno sociale non basta, anzi, la tragedia delle guerre e delle ingiustizie che travagliano il mondo genera nei giovani un sentimento di frustrazione e di inutilità. Allora si rifugiano nell’edonismo, nel super impegno, o si autoescludono. In ogni caso si tratta di una fuga. Per questo, le esperienze limite sono porta d’accesso privilegiato alla fede, attraverso di esse capisco come l’uomo non possa tutto. Esperienze in ogni caso da leggersi attraverso il mistero della morte e resurrezione di Cristo».