2020-06-27
Luca Lionello: «Meglio gli italiani dei politici (anche grazie a noi attori)»
L'artista recita nella nuova fiction di Netflix ambientata a Curon. «È la metafora dell'esistenza: le cose non sono come appaiono».Ho appena finito di vedere Curon: bella cupa.«Anch'io vi leggo, La Verità è un giornale diverso e molto vivo. Un po' come una biscia».Ecco Luca Lionello: visione, originalità, inclinazione pulp. Faccia e temperamento perfetti per una serie gotica come quella di Netflix, ambientata sul lago di Resia (Val Venosta, Alto Adige), dove il campanile che sbuca dall'acqua crea un set naturale: inquietante come l'immagine scelta da lui per descrivere La Verità, e che considera un complimento: «Al di là del simbolo del serpente, la biscia ha colori fluorescenti e sorprendenti, che in natura non si trovano. E poi è imprevedibile... Insomma, oggi è il mio pomeriggio fortunato».Cos'altro lo fa essere tale?«È una bella giornata e di sicuro ci sarà un bel tramonto romano. Colleziono tramonti, con delle fotine…».Per Instagram, come tanti?«No. Sono un modesto studioso di quello che accade nel cielo. Potrei parlarle della qualità della luce, anche il cinema è fatto di luce e cambia da film a film. Ma non vorrei tediarla. Diciamo che sono un contadino delle nuvole… Potrei definirmi così».Parlare con Luca Lionello, figlio di Oreste, icona del Bagaglino e sublime doppiatore di Charlie Chaplin, Marty Feldman e Woody Allen, è come avventurarsi su un sentiero di montagna, con quel fremito d'incognito che si mescola all'euforia della scoperta. Sposato, padre di Maja e Ori, nomi con una storia lunga così, Lionello è un attore estraneo ai circuiti della cinematografia mainstream: il Giuda Iscariota interpretato in The Passion di Mel Gibson è un eloquente biglietto da visita.Chi è Thomas, il padre pieno di ombre che interpreta in Curon?«Dovrei avere una risposta pronta, invece mi sento di dire che non lo so chi è. Ha una personalità forte e una psicologia definita e, al di là dell'horror o del fantasy, compie azioni terribili».Addirittura.«Diciamo sconvolgenti. Sembra un mascalzone solitario, ma fa tutto per un bene supremo, come dicono all'Onu. Però gli voglio molto bene».Curon è una meditazione sul doppio, con due gemelli rovesci della stessa medaglia. È anche una riflessione sulla scelta tra bene e male?«La metafora la tratteggia la professoressa quando racconta la leggenda per la quale in ognuno di noi c'è un lupo buono e un lupo malvagio. Noi diamo da mangiare a quello buono, ma a volte ci sbagliamo perché le cose non sono come ci appaiono. Ovvero, la vita è una tragedia e non sempre sappiamo come prenderla. A Curon le ombre si inseguono perché questo lago è misterioso».Al di là delle citazioni di Stephen King, l'hotel con un solo inquilino, il ruolo dei ragazzi e la loro passeggiata nel bosco che ricorda Stand by me, è una storia lugubre e sinistra.«Il campanile fa pensare a qualcosa che non quadra perché il suo posto sembra sbagliato. In realtà, è l'acqua che non dovrebbe stare lì (una diga costruita 70 anni fa creò il lago artificiale che sommerse il paese di Curon, ndr). Ai ragazzi è affidato un ruolo salvifico, ma poco dopo la scena del bosco si profila la tragedia. Le storie che s'intrecciano hanno regole precise».Una di queste è che la religiosità sconfina nella superstizione? Anche i componenti della famiglia con le pareti di casa tappezzate di crocifissi hanno tutti un lato oscuro.«È una sensazione reale che mi ha ricordato quei film western nei quali c'è sempre il cappellano con la Bibbia in mano che dice messa nella casetta di legno. È la coperta suprema che serve a velare tutto. Il crocifisso non è un simbolo di allegria. Nella serie è un alfabeto che fa da sfondo, come nei boschi di quelle valli punteggiate da edicole votive e crocifissi che rappresentano una cultura molto presente».Il sacro è un mistero che a Curon inclina al gotico?«Sì, anche se non mancano le sorprese. Alfred Hitchcock dice che se mostri un fucile poi quello deve sparare. Invece il fucile che ho sempre in mano io non spara un colpo perché il mio personaggio è strano e ci sarebbe molto da raccontare».Materia per la seconda stagione?«Queste cose le decide il pubblico. Da quello che so è stato un bel successo e sarebbe un peccato lasciare tanta gente delusa».Com'è stato interpretare Giuda in The Passion di Mel Gibson?«Potremmo scrivere dei libri. Finora non ne ho quasi mai parlato… Una mattina, mentre ero fuori con il mio cane, mi chiama un'agente di una delle maggiori società di casting del mondo. Aveva visto L'italiano, un film del 2002 nel quale recitavo una piccola parte. Voleva delle informazioni. Qualche tempo dopo mi richiama per dirmi che presto avrei dovuto incontrare un regista importante per un film molto ambizioso».E lei?«Sono scappato da Roma e mi sono rifugiato a Frattura Vecchia, il paesino terremotato dell'Abruzzo dove avevamo girato L'italiano».Finalmente arrivò il provino…«Avvenne in una chiesa romana del 1100, un luogo buio, ornato di affreschi medievali. Gibson vedeva attori da tre anni. A me chiese solo se avevo altri impegni in vista, perché voleva esser sicuro che fossi a sua disposizione. Più che un contratto, era una comunione d'intenti senza una data di fine lavorazione».Recitare in The Passion è stata un'esperienza irripetibile?«Per un attore Giuda è più stimolante di Amleto. Che Dio mi perdoni, è persino più interessante che interpretare Gesù. Per volere di Gibson spesso Jim Caviezel indossava il mio naso. Il regista aveva fatto un calco perché Gesù e Giuda avessero lo stesso profilo e nel buio del Getsemani potessero confondersi».Conferma che Gibson volle che una delle mani che inchiodano il Nazareno alla croce fosse sua? «Confermo. The Passion è stato qualcosa più di un film. Flagellare Gesù per un paio di mesi, il tempo per girare quella scena, ti rimane dentro. Ti trovi in una realtà che se non la vedi rimane letteraria. Nella vita la sofferenza non la reggiamo, poi se entri in un ospedale ti accorgi che la realtà è complicata. Alla fine, la vita è un horror».Non sempre, dai. Cos'altro è successo sul set?«In questi giorni che si è ricordato Alberto Sordi mi è venuto in mente che Gibson volle ricostruire il Getsemani nello Studio 5 di Cinecittà. Per dare la luce giusta si usava un lenzuolo bianco, ma un giorno al direttore della fotografia qualcosa non quadrava perché ci avevano scritto sopra: “Grazie Alberto". Era morto Sordi e qualcuno lo salutava a quel modo. Appreso il fatto, Gibson interruppe le riprese e mandò tutti a casa: “Oggi state con Alberto", disse». Ha mantenuto i rapporti con lui?«È l'unica persona che conosco alla quale non rompo le scatole. Ogni tanto si leggono indiscrezioni sul seguito di quel film. Dovrebbe riguardare la resurrezione».Qual è stato il lascito più importante di suo padre?«Innanzitutto il cognome, che non è poco. È stato il mio primo maestro, mi ha lasciato libero di scegliere perché era molto intelligente e si è fidato della mia responsabilità».Il doppiaggio è scuola d'arte o di artigianato?«Il doppiaggio è il cavallo di Troia e bisogna avere molta cura, perché t'insuffla un'altra cultura e tu ne sei conquistato».Quale altra cultura?«Quella italica. Una certa difficoltà dell'inglese in Italia è figlia del doppiaggio».Che cosa s'impara, l'immedesimazione nell'altro, a non essere egocentrici?«Il doppiaggio è una grande palestra. Si impara a ottenere un risultato, come ci arrivi non ha importanza. Però bisogna raggiungere la meta con qualsiasi mezzo».Quale meta?«Essere credibili. Quando recito parto sempre dal concetto di concerto e uso il mio strumento come un pianoforte: nel doppiaggio è la voce, nel cinema il corpo».I doppiatori sono figli del cinema americano, del piano Marshall e di una pensata di Giulio Andreotti, sottosegretario di Alcide De Gasperi?«Sì. Il piano Marshall per l'Italia contemplava anche 300 film americani all'anno doppiati in italiano. Siamo ancora qui da allora».Quando suo padre impersonò proprio Andreotti al Bagaglino il cerchio si chiuse?«Fu una nemesi, come si dice in questi casi».Dopo Curon a quale progetto sta lavorando?«Alla regia di una storia di animazione che ha a che fare con l'esperienza che abbiamo vissuto in questi mesi. È tratta da Il volo delle foglie, il primo romanzo di Fabio Teriaca, un chiropratico con la passione dell'arte e della letteratura. L'animazione è un mondo molto complesso e sofisticato, ma anche un luogo di grande libertà».Per uno che interpreta ruoli come i suoi che cos'è la paura vera?«La paura è un allarme esterno come il dolore è un allarme interno. Perciò dobbiamo tenercela cara. Anche perché, essendo un sentimento ancestrale, se cerchi di gestirlo perdi solo tempo. Non è un interruttore che accendi e spegni».Le piacevano i balconi canterini e gli slogan tipo «andrà tutto bene»?«Assolutamente no. Però qualcosa si doveva fare, non dico un esorcismo collettivo... Nessuno ci aveva insegnato a gestire situazioni così. Anch'io mi sono affacciato a battere le mani, ma mi piaceva di più la città silente». Un soggetto perfetto per una serie tv o un film?«Una sorpresa nella tragedia. Perché alla fine ci siamo resi conto che non c'era da salvare il mondo, ma l'uomo. Se continuiamo a buttare plastica nel mare ci rimane un quarto d'ora di vita. Il pianeta resta, noi siamo di passaggio. Sordi diceva che a Roma si deve camminare in punta di piedi e chiedendo permesso per non violentarla».In un momento così la politica ha mostrato la giusta attenzione verso il mondo dell'arte?«La politica è stata la prima a rimanere spiazzata. Anche un bambino avrebbe capito che non bastava chiudere solo i voli diretti dalla Cina. Se non ci fossero stati gli attori, le cose sarebbero andate peggio. L'attore fa compagnia perché racconta delle storie. È un mestiere che tende al sacro perché consola e aiuta a condividere. Senza le storie che ci arrivano dall'arte, dal cinema, anche da Internet la situazione sarebbe stata ancora più drammatica. Invece gli italiani si sono dimostrati meravigliosi». Gli italiani come popolo, più dei politici?«Certo che sì, palla avanti e pedalare. Chi lo sapeva che eravamo così pronti ad assorbire e accettare?».
Ecco #DimmiLaVerità del 31 ottobre 2025. Ospite il senatore di FdI Guido Castelli. L'argomento del giorno è: " I dettagli della ricostruzione post terremoto in Italia Centrale"
Foto Pluralia
La XVIII edizione del Forum Economico Eurasiatico di Verona si terrà il 30 e 31 ottobre 2025 al Çırağan Palace di Istanbul. Tema: «Nuova energia per nuove realtà economiche». Attesi relatori internazionali per rafforzare la cooperazione tra Europa ed Eurasia.
Il Forum Economico Eurasiatico di Verona si sposta quest’anno a Istanbul, dove il 30 e 31 ottobre 2025 si terrà la sua diciottesima edizione al Çırağan Palace. L’evento, promosso dall’Associazione Conoscere Eurasia in collaborazione con la Roscongress Foundation, avrà come tema Nuova energia per nuove realtà economiche e riunirà rappresentanti del mondo politico, economico e imprenditoriale da decine di Paesi.
Dopo quattordici edizioni a Verona e tre tappe internazionali — a Baku, Samarcanda e Ras al-Khaimah — il Forum prosegue il suo percorso itinerante, scegliendo la Turchia come nuova sede di confronto tra Europa e spazio eurasiatico. L’obiettivo è favorire il dialogo e le opportunità di business in un contesto geopolitico sempre più complesso, rafforzando la cooperazione tra Occidente e Grande Eurasia.
Tra le novità di questa edizione, un’area collettiva dedicata alle imprese, pensata come piattaforma di incontro tra aziende italiane, turche e russe. Lo spazio offrirà l’occasione di presentare progetti, valorizzare il made in Italy, il made in Turkey e il made in Russia, e creare nuove partnership strategiche.
La Turchia, ponte tra Est e Ovest
Con un PIL di circa 1.320 miliardi di dollari nel 2024 e una crescita stimata al +3,1% nel 2025, la Turchia è oggi la 17ª economia mondiale e membro del G20 e dell’OCSE. Il Paese ha acquisito un ruolo crescente nella sicurezza e nell’economia globale, anche grazie alla sua industria della difesa e alla posizione strategica nel Mar Nero.
I rapporti con l’Italia restano solidi: nel 2024 l’interscambio commerciale tra i due Paesi ha toccato 29,7 miliardi di euro, con un saldo positivo per l’Italia di oltre 5,5 miliardi. L’Italia è il quarto mercato di destinazione per l’export turco e il decimo mercato di sbocco per quello italiano, con oltre 430 imprese italiane già attive in Turchia.
Nove sessioni per raccontare la nuova economia globale
Il programma del Forum si aprirà con una sessione dedicata al ruolo della Turchia nell’economia mondiale e proseguirà con nove panel tematici: energia e sostenibilità, cambiamento globale, rilancio del manifatturiero, trasporti e logistica, turismo, finanza e innovazione digitale, produzione alimentare e crescita sostenibile.
I lavori si svolgeranno in italiano, inglese, russo e turco, con partecipazione gratuita previa registrazione su forumverona.com, dove sarà disponibile anche la diretta streaming. Il percorso di avvicinamento all’evento sarà raccontato dal magazine Pluralia.
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