2022-03-19
Era un nuotatore schiappa. Adesso si «sente» donna e umilia atlete olimpioniche
Lia Thomas, nato Will, viene premiato ad Atlanta dopo aver stracciato delle campionesse olimpioniche di nuoto (Getty Images)
Lo sport sconvolto dalla storia di Lia Thomas, nato Will, a cui è stato permesso di gareggiare con le femmine, stracciandole. Ma c’è chi non ci sta: «È un uomo!».«Ma quella è un uomo». Il grido irrompe dagli spalti del McAuley Aquatic Center di Atlanta, dove Lia Thomas ha appena vinto le 500 yard stile libero femminili dei campionati universitari americani surclassando le avversarie. Anzi stracciandole annichilendole, annientandole e solcando la corsia come un motoscafo dalla prima bracciata all’ultima. Mentre la gentile signora con le spalle da torero e i quadricipiti da Cristiano Ronaldo si concede all’intervista tv, una voce (femminile) squarcia l’ipocrisia gender fluid dominante: «She is a man!». Lia continua a magnificare la sua prestazione e il giornalista ad annuire, idealmente genuflesso, perché il momento è storico: sul podio più alto del campionato Ncaa sale il primo campione transgender.Per la verità l’invocazione della tifosa impertinente sembra arrivare dritta dalla fiaba di Hans Christian Andersen «I vestiti nuovi dell’imperatore»: anche qui il re è nudo - o in costumino Speedo - ma nessuno osa ammetterlo. Neppure le nuotatrici che hanno perso, lasciate lì a galleggiare come relitti a due, tre, dieci secondi di distanza, che nel nuoto di vertice sono un abisso. Altra categoria. Eppure la seconda arrivata è Emma Weyant, medaglia d’argento nei 400 misti ai Giochi di Tokyo (quelli dell’estate scorsa, non del 1964); eppure la terza umiliata è Erica Sullivan, che nelle stesse Olimpiadi ha conquistato l’argento nei 1500 stile libero, la maratona della piscina, un esercizio di potenza e resistenza da wonder woman.Anatroccoli a confronto della Thomas. Ingenue ragazze che si fanno il mazzo con sei ore di allenamento al giorno per una decina d’anni rinunciando a studio, fidanzati e cheesecake quando la strada del successo - come indicano chiaramente influencer e virologi a noi noti - consente stupefacenti scorciatoie. In questo caso è decisivo autodefinirsi donne e avere cominciato «la transizione sessuale» con una riduzione del livello di testosterone del 10%. È esattamente ciò che ha fatto Will Thomas: ha cambiato nome, ha indossato anche il pezzo superiore del costume e da maschio brocco della Pennsylvania University (tre anni fa era 462º nello stile libero) a 22 anni è diventato una Federica Pellegrini con il 45 di piede, i polmoni di Mark Spitz e lo schwa come bandiera. Imbattibile.Poiché nella società dei diritti universali ogni desiderio della combattiva minoranza Lgbtq è un ordine, i responsabili dello sport americano hanno assecondato la richiesta pur di non penalizzare le diversità. Ma così facendo hanno discriminato l’intero genere femminile; oggi contro il/la Thomas non ce n’è per nessuno. L’unica reazione seria è arrivata da Cynthia Millen, funzionaria della federazione Usa di nuoto, che prima di dimettersi ha detto: «Nello sport i corpi sono in gara contro i corpi, non le identità contro le identità». Nessuno l’ha ascoltata, oggi i media magnificano la narrazione «della rivincita dello sport transgender e dell’inclusione». Le avversarie guardano la Thomas da mezzo metro più in basso e tacciono, depresse come la biologia; il rischio per chi protesta è l’esclusione. Ci sarebbe pur sempre il Cio a difendere le regole delle competizioni, ma essendo composto da politici a caccia di potere e denaro ha rivisto le regole in direzione opposta: ha semplificato ancora di più i requisiti per gli atleti maschi che intendono passare alla categoria femminile. Se domattina Mike Tyson dovesse svegliarsi con istinti molto fluid ce lo ritroveremmo sul ring a prendere a pugni (del tutto legalmente) million dollar baby. «Dove sono le pari opportunità per le atlete umiliate?». Se lo è chiesto lo Swimming World Magazine, che (quasi in solitaria) non ha rinunciato alla battaglia e con una semplice frase ha stroncato il circo acquatico del conformismo: «Una barzelletta è stata raccontata nelle gare di Atlanta. E non è stata divertente». L’articolo va ben oltre: «Questo sforzo vincente per il titolo nelle 500 yard dovrebbe essere accolto con una scrollata di testa o un’alzata di spalle, perché la vittoria di Lia Thomas è un insulto alle donne biologiche che hanno gareggiato contro di lei». Il giornale stigmatizza la moda imperante e sostiene che la tendenza «va contro la scienza e le inconfondibili differenze fisiologiche tra il sesso maschile è quello femminile». Per gli esperti i nuovi regolamenti agevolano la pagliacciata, poiché la terapia ormonale per abbassare i livelli di testosterone e ridurre i valori dell’ematocrito non modifica caratteristiche che in acqua fanno la differenza, come l’altezza, la misura del piede, la larghezza del bacino e la capacità funzionale cardio-polmonare. Abitare il paradosso è il destino dei nostri tempi e la vicenda di Atlanta ci restituisce la realtà dell’America. Con la certezza che, per proprietà transitiva della follia, prima o poi accadrà anche a Ladispoli. In tutto questo lady Thomas continua a collezionare copertine e a non partecipare alle conferenze stampa per evitare domande imbarazzanti. «Cerco di ignorare il più possibile le polemiche, mi concentro solo sul mio nuoto e su cosa devo fare per gareggiare al meglio». In fondo anche lei è una vittima, innalzata a campionessa dalle ipocrisie del sistema, difesa dalle vestali del sessismo al contrario e ridotta a fenomeno da baraccone per la gloria dell’ideologia transgender. Di sicuro le piace vincere facile.
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)
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