Più atteso di un'Olimpiade, più annunciato delle numerose partite di addio al calcio di Diego Armando Maradona, inizia oggi il semestre bianco, cioè l'ultimo segmento della presidenza di Sergio Mattarella, i sei mesi in cui il capo dello Stato è privato del potere di scioglimento delle Camere.
La ratio costituzionale della norma, fissata nella Carta del 1946-'48, è perfino ovvia: evitare che un presidente al termine del suo mandato possa, entrando a gamba tesa, influenzare oltre misura il corso della partita politica, alterando il timing delle elezioni politiche attraverso uno scioglimento magari irragionevole del Parlamento, e di conseguenza influenzando l'esito del voto.
Dunque, tutti sanno (da ben 73 anni) che esiste questa regola, e non si ricordano dibattiti accesi sul tema. E invece stavolta si assiste a una drammatizzazione eccessiva, come se da oggi i gruppi parlamentari fossero pronti a chissà quale manovra spericolata.
Intendiamoci bene: le logiche di un Parlamento sono sempre imprevedibili. E non giova il fatto che tuttora le Camere vedano una sovrarappresentazione dei grillini, frutto di un risultato elettorale (quello del 2018) lontanissimo dalle tendenze attuali dell'opinione pubblica. Lo stesso malcelato risentimento di Giuseppe Conte nei confronti di Mario Draghi è certamente un fattore da considerare. Ma da qui a immaginare chissà quali eventi tellurici ce ne corre: la stragrande maggioranza degli attuali parlamentari sono più che altro smarriti e spaventati, preoccupati di ottenere dal proprio partito una qualche garanzia di ricandidatura. Altro che pianificare agguati contro il governo.
E invece? Da settimane imperversa da parte di alcuni quirinalisti e commentatori una letteratura che potremmo definire «del dolore e dell'inquietudine», costantemente volta a descriverci l'ansia dell'attuale inquilino del Colle, la sua preoccupazione per una tempesta politica che si starebbe preparando nei cieli di Roma.
La scorsa settimana è stata epica - e involontariamente comica - la sortita su La Stampa di Marcello Sorgi (poi derubricata dall'autore a «paradosso») sull'eventualità di un «governo elettorale, forse perfino militare» in caso di caduta di Draghi.
Ieri, con linguaggio decisamente più controllato, il sempre informato Marco Conti sul Messaggero è tornato a evocare un recente ragionamento del giurista Francesco Clementi sulla possibilità che il Colle, in caso di quadro politico degradato e destabilizzato, possa «minacciare le dimissioni e quindi tagliare comunque i tempi della legislatura».
Per una coincidenza, sempre ieri lo stesso argomento è stato rimesso nero su bianco pure sul Corriere della Sera da Marzio Breda, che ha prefigurato - tra le altre ipotesi - questo scenario: «Consapevole di trovarsi davanti a una crisi ingestibile, Mattarella la fa precipitare dimettendosi e da quel momento lo scioglimento delle Camere dipenderebbe dal suo successore. Non sono congetture estreme. Ed è meglio incrociare le dita». Così il quirinalista del Corriere, tra thriller e scaramanzia.
E allora dove si vuole andare a parare? La sensazione è che sia in pieno corso una sorta di «strategia stabilizzante» volta a blindare Draghi a Palazzo Chigi e Mattarella al Quirinale, in una logica di commissariamento dei partiti. Nel primo caso, usando l'argomento dell'implementazione del Recovery plan e della fiducia dell'Ue nell'ex governatore della Bce. Nel secondo caso, descrivendo Mattarella come l'unico possibile frangiflutti contro le onde dell'incertezza politica.
A onor del vero, nei mesi passati, il presidente ha lasciato a verbale indicazioni sul fatto che sette anni di mandato siano sufficienti («Io sono vecchio, tra qualche mese potrò riposarmi», aveva detto). Ma, nonostante ciò, il coro «Resta con noi, Sergio» è perfino salito di volume e intensità, rivolgendosi direttamente ai partiti e suggerendo di chiedere a Mattarella il «sacrificio» di rendersi disponibile a un bis.
L'altro ieri si è fatto autorevolmente interprete di questa linea Ferruccio De Bortoli sul Corriere: «Una richiesta a Mattarella perché accetti un reincarico pieno - formulata per tempo e giustificata dall'eccezionale emergenza sanitaria ed economica - sarebbe un grande segnale di maturità e di unità nazionale delle forze politiche».
Certo, restano due dubbi di fondo, curiosamente poco esplorati. Il primo: quattordici anni avrebbero il sapore di una vera e propria monarchia, e, considerando la latitudine estesissima dei poteri del Quirinale, si tratterebbe di una scelta da non fare a cuor leggero. La seconda: ferma restando la buona fede di tutti, se per la seconda volta consecutiva (era già successo con Giorgio Napolitano) si giungesse a una conferma del Presidente uscente, ciò porrebbe oggettivamente il tema di un evento non più eccezionale, ma ormai vissuto dalla politica italiana come «ordinario». E non si tratterebbe di una buona idea: anzi, aprirebbe (in primo luogo a danno dell'interessato) un dibattito potenzialmente infinito sugli atti compiuti da ogni Presidente negli ultimi 2-3 anni del suo mandato, quasi a cercare tracce di un presunto tentativo di precostituire le condizioni di una ricandidatura presso il «suo corpo elettorale», cioè il Parlamento in carica. Dubitiamo del fatto che un simile dibattito - inevitabilmente destinato a opposte derive complottistiche, e a difese e ad attacchi fuori misura - possa giovare alla serenità della Repubblica. Di qualsiasi Repubblica, e in qualunque momento storico.



