I servizi di emergenza polacchi sul luogo dell'incidente di un drone nel villaggio di Wohyn, nella Polonia orientale, lo scorso 10 settembre (Ansa)
Non passa giorno senza che qualcuno non annunci una prossima invasione dell’Europa da parte dei russi. I carrarmati di Putin sarebbero dietro l’angolo e gli aerei di Mosca pronti al decollo. A sostegno della tesi di un attacco imminente vengono lanciati moniti dai Paesi che un tempo facevano parte della cortina di ferro. Ma anche l’intelligence dei cosiddetti alleati, cioè di americani e inglesi, non si tira indietro.
Senza dimenticare gli appelli dei generaloni di cui abbiamo dato conto qualche giorno fa, con l’invito dei capi di Stato maggiore francese e britannico a prepararsi a perdere in battaglia i propri figli. Se questo è il clima che precede il Natale, e sul quale non sembrano influire le rassicurazioni del Cremlino che si dice disposto a «confermare legalmente di non voler dichiarare guerra alle Ue o alla Nato» (la dichiarazione è di ieri), la notizia che gli allarmi droni sulle basi militari europee sono spesso infondati contribuisce ad allentare la tensione.
Qualche volta le paure finiscono addirittura nel ridicolo, come nel caso di un’incursione aerea nei cieli di Varese. Nella primavera scorsa il sistema di sicurezza del centro di ricerca della commissione europea di Ispra aveva segnalato l’incursione di un drone sopra la sede della divisione elicotteri di Leonardo, a Vergiate. Subito era scattato l’allarme e si era ipotizzato che il velivolo fosse stato fatto sorvolare dai russi, allo scopo di carpire i segreti della principale azienda italiana impegnata nel settore della Difesa. A distanza di mesi, l’inchiesta ha invece accertato che non si trattava di un’attività spionistica di agenti al servizio di Putin, ma semplicemente di un’interferenza generata da un software difettoso, perché usato senza rispettare le indicazioni del produttore, e di un amplificatore di segnale Gsm, comprato su Amazon da un ignaro italiano che voleva aumentare la ricezione del suo cellulare tra le mura della sua casa. Sì, il pericolo non arrivava da Mosca né dalle mire espansionistiche del Cremlino, ma da una villetta di Ispra il cui segnale disturbava i rilevatori dell’istituto di ricerca della Commissione europea. Insomma, tanta paura per nulla.Ma se si riavvolge il nastro degli ultimi mesi, non si tratta della prima volta in cui i fischi vengono scambiati per fiaschi. Il ministro della Difesa danese Troels Lund Poulsen di recente ha dovuto ammettere che le incursioni di velivoli senza pilota su vari aeroporti del Paese al momento non sono riconducibili alla Russia. Nelle settimane scorse era infatti scattato l’allarme per il timore di un attacco ibrido, ma poi si è scoperto che i droni non erano arrivati da lontano, ma erano decollati localmente. Dunque, a meno di ipotizzare la presenza di spie al soldo di Putin a pochi chilometri da Copenaghen, quella che pareva una minaccia in realtà era più probabilmente l’azione di qualche privato, un po’ come nel caso della villetta di Ispra. Del resto, quelle che negli ultimi mesi sono state presentate come operazioni russe di disturbo, quasi sempre dopo qualche settimana sono state ridimensionate a incidenti o errori. Prendete il drone sulla Polonia caduto a fine settembre. Subito si era parlato di un velivolo russo, ma poi si è scoperto che a sfondare il tetto di un’abitazione a Wyryki-Wola, nella regione di Lublino, non era un aereo senza pilota lanciato dai russi, ma un missile polacco difettoso, sparato da un F-16 per abbattere alcuni droni entrati nello spazio aereo di Varsavia, probabilmente perché la loro traiettoria era stata deviata dai sistemi elettronici di Kiev. Sì, insomma, non un attacco ma un incidente provocato dalla difesa ucraina e polacca. A inizio settembre c’era poi stato «l’attacco» al volo su cui viaggiava il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Anche allora le principali testate parlarono di una manovra di sabotaggio del sistema aereo da parte della Russia, notizia rivelatasi poi priva di fondamento e smentita da Bruxelles. La sindrome dell’aggressione gioca dunque brutti scherzi, o forse qualcuno sta provando a forzare la mano perché a forza di lanciare allarmi capiti un incidente, magari con una risposta preventiva a un presunto attacco. Del resto, non è quello che ha detto l’ammiraglio Cavo Dragone, immaginando non una reazione di difesa, ma una di offesa per dare un segnale ai russi. Che cosa voglia dire un intervento preventivo ve lo potete immaginare. Di solito è così che cominciano le guerre. In fondo non c’è un motto secondo cui chi colpisce per primo colpisce due volte? A quanto pare è la strategia militare a cui si ispirano alcuni comandanti che non vedono l’ora di fare la guerra invece che la pace.
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Nessun velivolo spiava Leonardo, eppure la longa manus del Cremlino era data quasi per certa. Stesso copione a Oslo, Copenaghen e in Polonia. Idem coi ritardi del volo di Ursula: Putin non c’entrava. Per non parlare del Nord Stream, sabotato da un ucraino.
I droni russi che spiavano Leonardo nel Varesotto non erano russi. E non erano nemmeno droni. Lo ha chiarito l’inchiesta della Procura di Milano, che indagava da marzo sui presunti sorvoli registrati a Vergiate, sulla sede dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, nei pressi della quale si trova la divisione elicotteri del colosso italiano della Difesa. Il Corriere della Sera, ieri, ha spiegato che l’allerta era scattata per una interferenza tra «il software lettone del sistema portatile di sicurezza cinese» e «la sporadica attività (nella villetta di una famigliola di Ispra) di un amplificatore di segnale Gsm comprato su Amazon dal papà perché in casa il cellulare non prendeva bene».
In un battibaleno, si è sgretolata l’inquietante spy story dalla Russia con amore: i tentativi di spionaggio erano, in realtà, un pasticciaccio elettronico. I pm hanno chiesto l’archiviazione. E il quotidiano di via Solferino ha relegato la notizia in un trafiletto. Al contrario, quando un apparecchio acquistato sul Web e un programma sino-lituano hanno generato una sfilza di falsi allarmi, i media, a titolo unificato, denunciavano l’ennesima incursione dei velivoli di Vladimir Putin.
Come lo scorso settembre a Copenaghen e Oslo, quando gli scali delle due capitali erano stati chiusi dopo l’avvistamento di «droni di grandi dimensioni». Passato qualche giorno, il ministro della Difesa danese è stato costretto a rettificare: nessuna prova che Mosca fosse coinvolta; gli apparecchi non erano arrivati «da una lunga distanza», anzi, erano stati lanciati «localmente». Il capo della diplomazia norvegese, intanto, escludeva «collegamenti» tra gli episodi capitati nei due Paesi scandinavi.
Non c’era la «mano russa» (per citare l’Ansa) nemmeno nell’incidente di tre mesi fa in Polonia, nella regione di Lublino. A sfondare il tetto di un’abitazione nel villaggio di Wyryki-Wola, per fortuna senza provocare vittime, era stato un aria-aria difettoso, scagliato da un F-16 decollato per abbattere i droni russi penetrati nello spazio aereo di Varsavia. Con ogni probabilità, erano stati dirottati dai meccanismi di difesa ucraini. «Tutto indica che si sia trattato di un missile partito da un nostro caccia», aveva dichiarato il coordinatore degli 007 polacchi, Tomasz Siemoniak. Il razzo farlocco costava 850.000 euro. Leggere i resoconti della stampa non ha prezzo. Il Sole24Ore, ad esempio, enfatizzava il monito di Sergio Mattarella: «Ci si muove su un crinale dal quale si può scivolare in un baratro di violenza incontrollato». Il capo dello Stato, evocando lo «scoppio della prima guerra mondiale, nel luglio 1914», parlava di un episodio «gravissimo». Ma sarebbe stato difficile invocare l’articolo 5 della Nato, sulla mutua assistenza bellica in caso di attacco, visto che l’attacco era un auto-attacco.
La Polonia era già stata teatro di un tragico equivoco. A novembre 2022, un ordigno, lì per lì identificato come russo, era caduto nel paesino di Przewodow, uccidendo due persone. «Mosca sotto accusa», segnalava Repubblica. Anche quella volta, però, la firma non era dello zar: «L’indagine condotta dalla Procura polacca», comunicò mesi dopo il ministro della Giustizia, «ha portato all’emissione di un parere che indica categoricamente che quel missile era ucraino». Ma «di produzione sovietica o russa», eh.
Per collegare il Cremlino all’esplosione del Nord Stream, a settembre 2022, era stata sufficiente la presenza, riportata ad esempio dal Messaggero, di «navi russe» nella zona dei gasdotti. I tedeschi, poi, avrebbero scoperto che in verità la «mano» era ucraina. Secondo lo Spiegel, uno dei presunti sabotatori, Serhij Kuznietzov, arrestato mentre si trovava a Rimini, al momento dell’attentato era in servizio in un’unità speciale dell’esercito di Kiev. Quasi quasi, toccava invocarlo davvero, l’articolo 5.
Pericolose interferenze, oltre che mettere in agitazione i siti di Leonardo in Lombardia, a inizio settembre hanno trasformato in un incubo un volo di Ursula von der Leyen, atterrato a Sofia con un’ora di ritardo. «Hacker manomettono il Gps dell’aereo», raccontava il Sole. I pirati informatici, naturalmente, battevano bandiera moscovita: «I russi mandano in tilt il Gps del volo di Von der Leyen», annunciava l’Ansa. Pure il Corriere riferiva, senza tema di smentita, di «interferenze dei russi». Peccato che le autorità bulgare avessero smentito: il jet, confermava in Parlamento il premier, non aveva subito «né interferenze né disturbi prolungati». Alla fine, la Commissione Ue stessa ha dovuto precisare di non aver «mai detto» che si fosse trattato di «un attacco rivolto «espressamente» contro la presidente. Autocrate che vai, trasporti che trovi: col Duce, i treni arrivavano in orario; con Putin, i voli atterrano in ritardo. O sconfinano in Estonia per 12 minuti, finendo intercettati dagli F-35 italiani; o si «avvicinano» alla Lettonia e vengono agganciati dai caccia ungheresi.
Adesso che la polizia tedesca ha censito oltre 1.000 incursioni di droni nel 2025, alla lista mancava solo un blitz della fanteria. Finalmente, la settimana scorsa, tre soldati russi in uniforme hanno attraversato il confine estone e sono rimasti in territorio Nato «per mezz’ora». L’invasione è cominciata. All’armi!
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Ansa
- Fanil Sarvarov era tra i vertici della Difesa. Sospetti sui servizi di Kiev. Prima di lui diverse vittime sono morte in attacchi simili, da capi militari alla figlia dell’ideologo Dugin.
- Zelensky ottimista sul piano di pace: «Pronto anche se imperfetto». Il Cremlino ribadisce l’impegno a non attaccare Ue e Nato. Ma parla di progressi lenti nei negoziati.
Lo speciale contiene due articoli.
L’esplosione che ieri mattina ha ucciso il tenente generale Fanil Sarvarov ha scosso Mosca e l’intero apparato militare russo. L’attentato è avvenuto all’alba, quando l’auto di servizio del capo della Direzione per l’addestramento operativo dello Stato maggiore è stata distrutta da un ordigno collocato con un magnete sotto il veicolo (una Kia Sorento di colore chiaro), vicino al sedile del conducente. Secondo le ricostruzioni basate su fonti investigative russe citate dalle agenzie Tass e Rbk, la bomba sarebbe esplosa nel momento in cui Sarvarov ha azionato il freno. Le autorità hanno confermato la morte del generale e l’apertura di un’indagine per omicidio, mentre la Commissione investigativa ha fatto sapere che i rilievi sono iniziati immediatamente dopo la deflagrazione. Gli inquirenti puntano con decisione su una pista: il coinvolgimento dei servizi speciali dell’Ucraina. In serata, la commissione ha precisato che «una delle principali versioni allo studio riguarda il ruolo dei servizi d’intelligence ucraini».
Da Kiev non è arrivata alcuna rivendicazione né commenti ufficiali, ma i media russi ricordano che Sarvarov figurava da tempo nel database del sito nazionalista ucraino Myrotvorets, che ieri lo ha classificato come «liquidato». Un segnale interpretato a Mosca come una sorta di firma indiretta. Il Cremlino ha reagito con durezza. Il portavoce Dmitri Peskov ha dichiarato che «il presidente Vladimir Putin è stato informato immediatamente» dell’attentato e ha definito l’esplosione «un terribile omicidio» e «un atto terroristico diretto contro la Federazione russa». Ha aggiunto che «i responsabili saranno individuati e puniti», lasciando intendere che Mosca considera l’attacco parte di una strategia ostile che richiede una risposta. Le autorità non hanno fornito ulteriori dettagli, limitandosi a confermare l’apertura di un’indagine per omicidio e a ribadire che tutte le piste restano aperte.
Sarvarov, nato nel 1969 nella regione di Perm, aveva trascorso quasi tutta la carriera nelle forze corazzate, combattendo nelle campagne cecene e partecipando alle operazioni russe in Siria prima di entrare nei vertici dello Stato maggiore. Da due anni guidava la Direzione per l’addestramento operativo, un incarico cruciale nell’attuale fase del conflitto: a lui facevano capo la preparazione delle truppe di terra, l’aggiornamento delle tattiche d’impiego e la valutazione delle esperienze maturate sul fronte ucraino. Pur non essendo una figura mediatica, il suo ruolo era considerato strategico per mantenere lo sforzo bellico russo su livelli costanti nonostante le perdite e l’usura del conflitto.
L’uccisione di Sarvarov si inserisce in una serie di eliminazioni mirate che negli ultimi anni ha colpito tanto i vertici militari quanto alcuni volti simbolici del nazionalismo russo. Nell’agosto 2022 Daria Dugina, figlia dell’ideologo Aleksandr Dugin, era stata assassinata con un’autobomba nella regione di Mosca: l’ordigno, piazzato sotto la sua Toyota Land Cruiser, era esploso mentre rientrava da un festival culturale. Le autorità russe avevano attribuito l’attacco ai servizi speciali ucraini, mentre Kiev aveva negato ogni coinvolgimento. Nell’aprile 2023, a San Pietroburgo, era stato il turno del blogger militare Maksim Fomin. Noto come Vladlen Tatarsky e allineato sulle posizioni più radicali della propaganda patriottica, il blogger è rimasto ucciso nell’esplosione di un ordigno nascosto in una statuetta consegnatagli durante un evento pubblico: un attacco che provocò decine di feriti e suscitò forte clamore mediatico.
Nel dicembre 2024, invece, era stato ucciso il generale Igor Kirillov, capo delle truppe di difesa nucleare, biologica e chimica, colpito da una bomba nascosta in un monopattino elettrico: le autorità di Mosca avevano indicato Kiev come responsabile, mentre fonti dei servizi ucraini (Sbu) avevano confermato ai media il coinvolgimento, pur senza una rivendicazione ufficiale. Infine, lo scorso aprile, un ordigno collocato sotto la sua vettura ha ucciso a Mosca il generale Iaroslav Moskalik, figura di rilievo dello Stato maggiore. Si tratta di attacchi diversi per modalità ma accomunati, secondo le ricostruzioni russe, dall’intento di colpire personalità legate allo sforzo bellico o alla narrativa patriottica del Cremlino, a conferma di un conflitto che si è esteso ben oltre le linee del fronte. In questo contesto, infatti, la morte di Sarvarov rappresenta per Mosca un duro colpo soprattutto a livello simbolico: non un semplice comandante operativo, ma uno dei funzionari incaricati di garantire l’efficienza e la continuità dell’apparato militare impegnato in Ucraina. E la rapidità con cui il Cremlino ha parlato di «atto terroristico» indica che la risposta politica - qualunque forma assumerà - non tarderà ad arrivare.
Zelensky: «Risultati concreti vicini»
Dopo i due giorni di colloqui sulla pace in Ucraina con l’inviato americano, Steve Witkoff, e il genero di Donald Trump, Jared Kushner, al club Shell Bay di Miami, il rappresentante del Cremlino, Kirill Dmitriev, si prepara ad aggiornare il presidente russo, Vladimir Putin, sugli ultimi sviluppi.
Ciò che emerge, al momento, è che le trattative tra la Russia e la Casa Bianca si sono concluse in un clima cordiale. Dmitriev ha scritto su X: «La prossima volta a Mosca», non escludendo quindi che il prossimo bilaterale con gli americani si possa tenere sul suolo russo. Nel frattempo, Witkoff ha descritto gli incontri con la delegazione ucraina e con quella russa con gli stessi termini: «Produttivi e costruttivi». Riguardo al faccia a faccia con Dmitriev, l’inviato americano ha aggiunto su X che «la Russia resta pienamente impegnata a raggiungere la pace in Ucraina» e che «apprezza molto gli sforzi e il sostegno degli Stati Uniti». A rispondere direttamente alle parole di Witkoff è stato lo stesso Dmitriev: «Grazie costruttori di pace per il vostro lavoro attento e instancabile».
In ogni caso vige la massima cautela. Il vicepresidente degli Stati Uniti, J.D. Vance, in un’intervista a UnHerd, ha affermato che nonostante «tutte le questioni siano ora alla luce del sole», non è certo che venga raggiunto un accordo. Ha precisato che l’Ucraina «probabilmente perderà» la regione di Donetsk «tra 12 mesi o anche più avanti». E pare che «privatamente» i leader di Kiev ne siano consapevoli. Anche il viceministro degli Esteri russo, Sergei Ryabkov, ha riconosciuto «i lenti progressi» nei negoziati con Washington, ma ha puntato il dito contro «i dannosi e nefasti tentativi di un gruppo di Paesi influenti che cercano di far deragliare il processo diplomatico». Ha osservato che Mosca «è favorevole a un accordo di pace che garantisca il suo assetto costituzionale tenendo conto dei nuovi territori», ma esclude la tregua. Ryabkov ha anche ribadito la disponibilità russa a «formalizzare legalmente» l’impegno a non attaccare la Nato e l’Ue. Anche perché «permangono rischi significativi di uno scontro» tra Mosca e l’Alleanza atlantica «a causa delle azioni ostili e inappropriate dei Paesi europei». Sullo stesso tema è intervenuto Dmitriev: «L’Europa dovrebbe smettere di fomentare la Terza guerra mondiale con false narrazioni e imparare di nuovo la diplomazia». E affermando che è arrivato «il tempo di liberarsi dalla visione del mondo di Biden», ha aggiunto che «l’Ungheria, la Slovacchia e la Repubblica Ceca indicano la strada». Ma Bruxelles, per ora, approva «la strada» del presidente francese, Emmanuel Macron: un portavoce della Commissione Ue ha espresso il benestare sulla volontà del leader francese di dialogare con l’omologo russo negli «sforzi per la pace».
Dall’altra parte, a esprimere ottimismo è il leader di Kiev, Volodymyr Zelensky. Riguardo alle trattative a Miami tra la delegazione ucraina e quella statunitense, pur aspettando «i dettagli» questa mattina, ha dichiarato: «Siamo molto vicini a un risultato concreto». Ha spiegato che «il piano prevede 20 punti» e che ci sono «garanzie di sicurezza» tra l’Ucraina, gli Stati Uniti e l’Europa. A ciò si aggiunge «un documento separato» tra Kiev e Washington che riguarda «garanzie di sicurezza bilaterali» che «devono essere esaminate dal Congresso degli Stati Uniti». E ha annunciato che è in itinere «la prima bozza dell’accordo sulla ricostruzione dell’Ucraina». Questo non frena le sanzioni contro la Russia, anzi Zelensky ha dichiarato che, oltre ai russi e ai cinesi, nel mirino rientrano pure gli atleti: «Stiamo preparando misure sanzionatorie contro coloro che giustificano l’aggressione russa e promuovono l’influenza russa attraverso la cultura di massa, nonché contro gli atleti che utilizzano la loro carriera sportiva e l’attenzione del pubblico verso lo sport per glorificare l’aggressione russa».
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Giorgia Meloni (Ansa)
Freddezza a Palazzo Chigi sulle mosse di Parigi. Tajani: «Per noi aiutare Kiev e fare la guerra sono sempre state cose diverse». Il premier: «Difendersi non è bellicismo».
Le fughe in avanti di Emmanuel Macron non meravigliano più nessuno: da Palazzo Chigi non filtra alcuna reazione rispetto all’iniziativa del presidente francese, che, in solitaria, ha aperto al dialogo con il presidente russo, Vladimir Putin, disponibilità ricambiata dal Cremlino.
La posizione ufficiale del governo italiano rispetto a questa novità è espressa dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e dalle sue parole traspare una certa freddezza: «Va certamente bene», dice Tajani al Qn, «riaprire un canale di comunicazione, ma il canale deve essere europeo: non può essere di un solo Paese. La cosa rilevante è che Putin torni a parlare con l’intera Europa. Dobbiamo lavorare tutti per la pace, che è l’obiettivo primario», aggiunge Tajani, «in questo senso, per capirci, la premessa è che noi non siamo mai stati in questi anni in guerra con la Russia. L’Italia è sempre stato il Paese che ha distinto in maniera netta tra gli aiuti all’Ucraina, per impedire che l’Ucraina venisse sconfitta, e la guerra con la Russia. Noi abbiamo solo aiutato l’Ucraina a difendersi, che è un’altra cosa rispetto a fare la guerra alla Russia. Noi abbiamo sempre sostenuto anche gli sforzi americani. E, dunque, ogni iniziativa che porti alla pace deve essere vista in maniera molto positiva: sempre con le garanzie di sicurezza per l’Ucraina, con una sorta di articolo 5-bis sul modello Nato, a partecipazione anche Usa. A questo punto», osserva Tajani, «tocca alla Russia decidere se vuole sedersi al tavolo e affrontare anche con gli europei la trattativa, perché l’Europa non può non essere protagonista di una trattativa di pace tanto più che dal cessate il fuoco e dalla pace dipendono le sanzioni e la nostra sicurezza».
Parole pesate col bilancino, con un passaggio, quello sull’Italia «mai stata in guerra con la Russia» dal quale fa capolino una sorta di rivendicazione di un atteggiamento sempre prudente, proprio ora che Macron accelera sul percorso negoziale dopo essere stato per anni tra i «falchi» europei anti Russia, mentre l’Italia si è spesso trovata, in realtà più che altro per alcune dichiarazioni della Lega e per la vicinanza della Meloni a Donald Trump, accusata di eccessiva morbidezza nei confronti di Putin. Ora invece Macron sorpassa tutti sull’autostrada per Mosca, provocando un disallineamento in Europa, se non un vero e proprio imbarazzo, tanto che ieri i portavoce della Commissione hanno evitato di rispondere a tutte le domande sull’iniziativa dell’Eliseo.
Guerra e pace sono anche al centro del messaggio che ieri il premier Meloni ha rivolto alle missioni militari italiane all’estero per gli auguri di fine anno in collegamento dal Comando operativo vertice interforze: «La pace, chiaramente, è un bene prezioso», sottolinea Giorgia Meloni, «quando la si possiede. ed è un bene da ricercare con ogni sforzo quando la si perde. Però questo lo comprende più di chiunque altro chi conosce la guerra ed è preparato a fronteggiarla. Per questo io non ho mai accettato la narrazione, diciamo così, di chi contrappone l’idea del pacifismo alle forze armate. Alla fine del quarto secolo dopo Cristo», ricorda la Meloni, «Publio Flavio Vegezio Renato scrive: “qui desiderat pacem, praeparet bellum”. Diventa poi il più famoso “si vis pacem para bellum”, cioè chi vuole la pace prepari la guerra. Il punto è che il suo non è, come molti pensano, un messaggio bellicista, tutt’altro. È un messaggio pragmatico. Il senso è che solo una forza militare credibile allontana la guerra perché la pace non arriva spontaneamente, la pace è soprattutto un equilibrio di potenze: la debolezza invita l’aggressore, la forza allontana l’aggressore. L’etimologia della parola deterrenza arriva dal latino e significa de, cioè via da, e terrere, cioè incutere timore. Il senso della parola deterrenza è incutere timore al punto da distogliere. È la forza degli eserciti, è la loro credibilità lo strumento più efficace per combattere le guerra. Il dialogo, la diplomazia, le buone intenzioni, certo, servono, ma devono poggiare su basi solide. Quelle basi solide le costruite voi con il vostro sacrificio, con la vostra competenza, con la vostra professionalità, con il vostro coraggio».
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