I carabinierii e la Scientifica sul luogo della rapina alla gioielleria Mario Roggero a Grinzane Cavour (Cuneo), il 28 aprile 2021 (Ansa)
Ai familiari dei malintenzionati uccisi a Grinzane Cavour riconosciuto un indennizzo di 480.000 euro. Per i morti sul lavoro, invece, lo Stato concede poco più di 12.000 euro.
Quattordici anni e nove mesi di carcere e mezzo milione di risarcimenti. Questo il prezzo da pagare per Mario Roggero, questa la pena inflitta a chi non ha ricevuto la protezione e la sicurezza che gli sarebbe spettata di diritto. Il gioielliere di Grinzane Cavour che nell’aprile 2021, durante una rapina nel suo negozio, uccise due banditi e ne ferì un terzo, oggi inevitabilmente è chiamato a pagare per le sue azioni.
A due giorni dalla condanna in secondo grado che gli infligge una pena di 14 anni e 9 mesi (17 nel primo appello), ci si chiede se non ci sia stato un errore, un abbaglio, perché ciò che stupisce di più oltre alla severità della pena sono le sue proporzioni. Sì perché mentre a Roggero spetta il carcere, ai delinquenti e alle loro famiglie andranno migliaia di euro di risarcimenti. Avevano chiesto quasi tre milioni, per la precisione: 2 milioni e 885.000 euro. Gliene sono stati riconosciuti 480.000. L’uomo però aveva già dato 300.000 euro - non dovuti - ai congiunti dei suoi assalitori. Per reperire i soldi ha dovuto svendere due appartamenti di proprietà sua e dei suoi fratelli. Una delle due era la casa in cui era cresciuto. Come già scritto su queste colonne si tratta di una tragica beffa per chi ha subito una rapina e che, per essersi difeso, ne subisce un’altra ancora. A questi soldi vanno aggiunti altri 300.000 euro «di spese legali, peritali, mediche», che non sono bastate a mitigare la «sentenza monito» di 17 anni in primo grado, come l’ha definita il procuratore capo di Asti. Non un monito, ma il presagio della condanna in secondo grado che gli ha visto attribuire una diminuzione di pena di due anni e poco più.
Eppure nel mondo dell’assurdo in cui viviamo ai familiari di chi muore sul lavoro vanno appena 12.000 euro. Proprio così. Ad esser precisi si parla di un versamento una tantum di 12.342,84 euro. Una cifra versata dall’Inail che cambia ogni anno perché rivalutata dal ministero del Lavoro in base all’inflazione, quindi alla variazione dei prezzi al consumo. Di questo si devono accontentare le famiglie di chi perde la vita lavorando onestamente, mentre chi ruba e muore per questo può far arrivare ai propri cari anche mezzo milione di euro. Bel messaggio che si manda ai familiari delle 784 persone morte sul lavoro solo nel 2025. Ai coniugi superstiti spetta poi il 50% dello stipendio del proprio caro, ai figli appena il 20%. Considerato che statisticamente a morire sul lavoro non ci sono grossi dirigenti, ma più che altro operai, si può dire che a queste persone già travolte dal dolore non arrivano che pochi spicci. Spicci che arrivano oltretutto solo ad alcune condizioni. Intanto per quanto riguarda i coniugi la quota di stipendio arriverà a vita, certo, ma bisogna stare attenti a fare richiesta entro 40 giorni, altrimenti si rischia di non ricevere nulla. Per quanto riguarda i figli, il 20% dello stipendio del lavoratore deceduto verrà contribuito fino ai 18 anni di età, fino ai 26 se studenti. Non oltre. Nulla verrà versato ai genitori della vittima se conviventi a meno che non si dimostri che la stessa contribuisse a mantenerli. Insomma, dolore che si aggiunge a dolore.
Anche i rapinatori uccisi da Roggero avevano dei familiari, certo, anche loro hanno diritto a soffrire per le loro perdite, ma se il valore di una morte si dovesse o potesse contare con il denaro, verrebbe da pensare che per la giustizia italiana ha più valore la vita di un delinquente che quella di un lavoratore onesto.
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Galeazzo Bignami (Ansa)
Il deputato di Fdi: «Questa norma è valida, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, cioè la magistratura. Il gioielliere non poteva sapere se la rapina fosse finita. Comunque se i delinquenti fossero stati a casa loro...».
Viviamo in un Paese in cui chi aggredisce ha quasi più tutele di chi viene aggredito. In Italia la legittima difesa viene ancora vista con sospetto. Se reagisci a una rapina, per paura o per difendere te o la tua famiglia, non si sa come andrà a finire. Di sicuro la legge non ti darà ragione. Come è accaduto al gioielliere di Grinzane Cavour (Cuneo), Mario Roggero, 72 anni, che da quasi 5 anni vive le pene dell’inferno per essersi difeso dall’ennesima aggressione. Una sentenza che stravolge la realtà, perché il commerciante diventa il colpevole e il bandito la vittima.
Se per il giudice che l’ha condannato a 14 anni e 9 mesi di carcere (in primo grado la Corte d’Assise di Asti gliene aveva dati 17, senza riconoscere la legittima difesa), nonché a un risarcimento milionario ai familiari dei due rapinatori uccisi (con una provvisionale immediata di circa mezzo milione di euro e le richieste totali che potrebbero raggiungere milioni) c’è stata sproporzione tra difesa e offesa, la stessa sproporzione è stata applicata nella sentenza, tra l’atto compiuto e la pena smisurata che dovrà scontare Roggero. Confermare tale condanna equivarrebbe all’ergastolo per l’anziano, solo per aver difeso la sua famiglia e sé stesso.
Una severità che ha scosso le coscienze dell’opinione pubblica nonché esasperato gli animi del Parlamento. Ma la colpa è dei giudici o della legge? Giovedì sera a Diritto e Rovescio su Rete 4 è intervenuto il deputato di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, il quale alla Verità non ha timore nel ribadire che «qualsiasi legge si può sempre migliorare, per carità. Questa legge mette in campo tutti gli elementi che, se valutati correttamente, portano ad escludere pressoché sempre la responsabilità dell’aggredito, salvo casi esorbitanti. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e in questo caso il mare è la magistratura», spiega Bignami, «ci sono giudici che, comprendendo il disposto di legge e lo spirito della stessa, la applicano in maniera conforme alla ratio legis e giudici che, invece, pur comprendendola, preferiscono ignorarla. Siccome questa è una legge che si ispira sicuramente a valori di destra come la difesa della vita, della famiglia, della proprietà privata e che, come extrema ratio, consente anche una risposta immediata in presenza di un pericolo imminente, certi giudici la applicano con una prospettiva non coerente con la sua finalità».
In questo caso la giustificazione di una reazione istintiva per proteggere la propria famiglia dai rapinatori non ha retto in aula. Ma oltre al rispetto della legge non è forse fondamentale anche l’etica nell’applicarla? «Su tante cose i giudici applicano le leggi sulla base delle proprie sensibilità, come in materia di immigrazione, per esempio», continua Bignami, «però ricordiamo che la legge deve essere ispirata da principi di astrattezza e generalità. Poi va applicata al caso concreto e lì vanno presi in esame tutti i fattori che connotano la condotta. L’articolo 52 parla di danno ingiusto, di pericolo attuale e proporzione tra difesa e offesa. Per pericolo attuale non si può intendere che sto lì con il cronometro a verificare se il rapinatore abbia finito di rapinarmi o se magari intenda tornare indietro con un fucile. Lo sai dopo se il pericolo è cessato e l’attualità non può essere valutata con il senno di poi. Ed anche il turbamento d’animo di chi viene aggredito non finisce con i rapinatori che escono dal negozio e chiudono la porta. Questo sentimento di turbamento è individuale e, secondo me, si riflette sulla proporzione. Vanno sempre valutate le condizioni soggettive e il vissuto della persona».
Merita ricordare, infatti, che Roggero aveva subito in passato altre 5 rapine oltre a quella in esame e che in una di quelle fu anche gonfiato di botte. La sua vita e quella della sua famiglia è compromessa, sia dal punto di vista psicologico che professionale. È imputato di omicidio volontario plurimo per aver ucciso i due rapinatori e tentato omicidio per aver ferito il terzo che faceva da palo. E sapete quanto si è preso quest’ultimo? Appena 4 anni e 10 mesi di reclusione.
La reazione emotiva del commerciante, la paura per l’incolumità dei familiari, sono attenuanti che non possono non essere considerate. Sono attimi di terrore tremendi. Se vedi tua figlia minacciata con una pistola, tua moglie trascinata e sequestrata, come minimo entri nel panico. «Intanto va detto quel che forse è così ovvio che qualcuno se n’è dimenticato: se i banditi fossero stati a casa loro, non sarebbe successo niente», prosegue Bignami, «poi penso che, se Roggero avesse avuto la certezza che quei banditi stavano fuggendo senza più tornare, non avrebbe reagito così. Lo ha fatto, come ha detto lui, perché non sapeva e non poteva immaginare se avessero davvero finito o se invece volessero tornare indietro. Facile fare previsioni a fatti già compiuti».
Ma anche i rapinatori hanno i loro diritti? «Per carità. Tutti i cittadini hanno i loro diritti ma se fai irruzione con un’arma in un negozio e minacci qualcuno, sei tu che decidi di mettere in discussione i tuoi diritti».
Sulla severità della pena e sul risarcimento faraonico, poi, Bignami è lapidario. «C’è una proposta di legge di Raffaele Speranzon, vicecapogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, che propone di ridurre fino ad azzerare il risarcimento dovuto da chi è punito per eccesso colposo di legittima difesa».
Chi lavora e protegge la propria vita non può essere trattato come un criminale. La giustizia deve tornare a distinguere tra chi aggredisce e chi si difende.
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Ansa
Niente carcere per Sandro Mugnai, l’uomo che nell’Epifania del 2023 reagì sparando all’aggressione di un conoscente albanese che tentava di buttargli giù la casa per delle banali ruggini. Fortunatamente, ogni tanto i magistrati scelgono il buon senso.
Nel gennaio 2023 fu costretto a sparare quattro colpi di fucile perché il vicino di casa albanese, Gezim Dodoli, dopo aver ammassato le auto dei suoi familiari in un angolo del piazzale, con la benna di una ruspa tentava di abbattere il casolare di campagna che aveva appena ristrutturato sui colli di Arezzo. Dopo i primi scossoni, mentre i muri cominciavano a sgretolarsi, temette di restare sotto le macerie con i suoi cari e tirò il grilletto, freddando l’aggressore.
La dinamica, ricostruita nelle perizie, avrebbe confermato che l’azione della ruspa aveva compromesso la struttura dell’edificio. Ma oltre a trovarsi davanti quel «mezzo di irresistibile forza», così è stata giuridicamente valutata la ruspa, si era messa di traverso pure la Procura, che aveva chiesto ai giudici di condannarlo a 4 anni di carcere. Ma ieri Sandro Mugnai, artigiano aretino accusato di omicidio volontario per essersi difeso, mentre ascoltava le parole del presidente della Corte d’assise si è messo le mani sul volto ed è scoppiato a piangere. Il fatto non sussiste: fu legittima difesa. «Finalmente faremo un Natale sereno», ha detto poco dopo, aggiungendo: «Sono stati anni difficili, ma ho sempre avuto fiducia nella giustizia. La Corte ha agito per il meglio». E anche quando la pm Laura Taddei aveva tentato di riqualificare l’accusa in eccesso colposo di legittima difesa, è prevalsa la tesi della difesa: Mugnai sparò perché stava proteggendo la sua famiglia da una minaccia imminente, reale e concreta. Una minaccia che avanzava a bordo di una ruspa. La riqualificazione avrebbe attenuato la pena, ma comunque presupponeva una responsabilità penale dell’imputato. Il caso, fin dall’inizio, era stato definito dai giuristi «legittima difesa da manuale». Una formula tanto scolastica quanto raramente facile da dimostrare in un’aula di Tribunale. La giurisprudenza richiede il rispetto di criteri stringenti: attualità del pericolo, necessità della reazione e proporzione. La sentenza mette un punto a un procedimento che ha riletto, passo dopo passo, la notte in cui l’albanese entrò nel piazzale di casa Mugnai mentre la famiglia era riunita per la cena dell’Epifania. Prima sfogò la ruspa sulle auto parcheggiate, poi diresse il mezzo contro l’abitazione, sfondando una parte della parete. La Procura ha sostenuto che, pur di fronte a un’aggressione reale e grave, l’esito mortale «poteva essere evitato». Il nodo centrale era se Mugnai avesse alternative non letali. Per la pm Taddei, quella reazione, scaturita da «banali ruggini» con il vicino, aveva superato il limite della proporzione. I difensori, gli avvocati Piero Melani Graverini e Marzia Lelli, invece, hanno martellato sul concetto di piena legittima difesa, richiamando il contesto: buio, zona isolata, panico dentro casa, il tutto precipitato «in soli sei minuti» nei quali, secondo gli avvocati, «non esisteva alcuna alternativa per proteggere i propri cari». Durante le udienze si è battuto molto sul fattore tempo ed è stata dimostrata l’impossibilità di fuga. Nel dibattimento sono stati ascoltati anche i familiari della vittima, costituiti parte civile e rappresentati dall’avvocato Francesca Cotani, che aveva chiesto la condanna dell’imputato. In aula c’era molta gente e anche la politica ha fatto sentire la sua presenza: la deputata della Lega Tiziana Nisini e Cristiano Romani, esponente del movimento Il Mondo al contrario del generale Roberto Vannacci. Entrambi si erano schierati pubblicamente con Mugnai. Nel paese c’erano anche state fiaccolate e manifestazioni di solidarietà per l’artigiano. Il fascicolo era passato attraverso momenti tortuosi: un primo giudice non aveva accolto la richiesta di condanna a 2 anni e 8 mesi e aveva disposto ulteriori accertamenti sull’ipotesi di omicidio volontario. Poi è stata disposta la scarcerazione di Mugnai. La fase iniziale è stata caratterizzata da incertezza e oscillazioni interpretative. E, così, alla lettura della sentenza l’aula è esplosa: lacrime, abbracci e applausi. Mugnai, commosso, ha detto: «Ho sparato per salvare la pelle a me e ai miei cari. Non potrò dimenticare quello che è successo, ora spero che possa cominciare una vita diversa. Tre anni difficili, pesanti». Detenzione preventiva compresa. «Oggi è un giorno di giustizia. Ma la battaglia non è finita», commenta Vannacci: «Mugnai ha fatto ciò che qualunque padre, marito, figlio farebbe davanti a un’aggressione brutale. È una vittoria di buon senso, ma anche un segnale, perché in Italia c’è ancora troppo da fare per difendere le vere vittime, quelle finite sotto processo solo perché hanno scelto di salvarsi la vita. E mentre oggi festeggiamo questo risultato, non possiamo dimenticare chi non ha avuto la stessa sorte: penso a casi come quello di Mario Roggero, il gioielliere piemontese condannato a 15 anni per aver difeso la propria attività da una rapina». «La difesa è sempre legittima e anche in questo caso, grazie a una legge fortemente voluta e approvata dalla Lega, una persona perbene che ha difeso se stesso e la sua famiglia non andrà in carcere, bene così», rivendica il segretario del Carroccio Matteo Salvini. «Questa sentenza dimostra come la norma sulla legittima difesa tuteli i cittadini che si trovano costretti a reagire di fronte a minacce reali e gravi», ha precisato il senatore leghista (componente della commissione Giustizia) Manfredi Potenti. La vita di Sandro Mugnai ricomincia adesso, fuori dall’aula. Ma con la consapevolezza che, per salvare se stesso e la sua famiglia, ha dovuto sparare e poi aspettare quasi tre anni perché qualcuno glielo riconoscesse.
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Maurizio Landini (Ansa)
Dietro l’imbarazzo tutti i problemi in Regione: la sigla è egemonizzata da estremisti. Tra i dirigenti volano i coltelli: insulti e attacchi in una chat della Filcams finiscono a carte bollate. E c’è pure chi si inventa attentati.
Botte e insulti (con condanne in Tribunale) tra sindacalisti. Succede anche a questo a Genova, in un periodo in cui la città fibrilla per il rischio chiusura dell’acciaieria ex Ilva di Cornigliano. Il segretario generale della Uilm Luigi Pinasco e tre colleghi, ieri, sono stati presi a calci e pugni da una ventina di persone con la felpa rosso-nera della Fiom. È successo a Genova, di mattina presto. Una scena che ricorda una delle tante cronache di giornata sui maranza o sugli ultrà. Non quelle che riguardano chi dovrebbe tutelare i diritti dei lavoratori. Due persone sono finite in ospedale. Perché? Per la mancata adesione della Uilm allo sciopero generale dei metalmeccanici genovesi sulla vertenza ex Ilva. I colpevoli sono i «militanti di Lotta comunista che vogliono avere l’egemonia all’interno della Fiom», accusa il segretario generale della Uil Liguria, Riccardo Serri, in una conferenza stampa nel pomeriggio.
«Sono stati circondati dopo che il segretario della Fiom ha incitato i nostri segretari e delegati ad andare via», continua Serri, «una violenza gravissima che dev’essere condannata, ma ad ora non abbiamo ricevuto nemmeno un segno di solidarietà da parte della Cgil, anzi abbiamo visto le dichiarazioni di Maurizio Landini e Michele De Palma che non condannano ma sostengono che i nostri iscritti non dovevano presentarsi all’ingresso dell’ex Ilva». Una cosa grave. «C’è una responsabilità morale di chi continua a non condannare l’aggressione» ha aggiunto il leader della Uilm ligure. «Se non c’è una condanna vuol dire che c’è una strategia dietro come noi pensiamo, una strategia di essere i primi, di predominare, di fare solo confusione, una strategia della violenza».
La mancata solidarietà tuttavia deriverebbe proprio dal problema denunciato da Serri, ovvero che Lotta comunista sta prendendo piede all’interno delle tute blu della Cgil e che Landini non possa condannare per evitare che si scopra l’indicibile: il segretario generale del sindacato principale italiano non controlla i metalmeccanici di Genova. Non proprio una bella figura per un leader che viene proprio dalla Fiom.
Lotta comunista nasce nel 1965 a Genova, messa in piedi da Arrigo Cervetto e Lorenzo Parodi, ex militanti dell’area anarchica e libertaria, poi approdati al leninismo. Il riferimento è esplicito: Marx, Engels e Lenin come cassetta degli attrezzi teorica, il partito bolscevico come modello organizzativo. Ma senza avventure armate: a differenza di altri gruppi extraparlamentari, Lotta comunista non ha mai appoggiato l’uso della P38, sostenendo che «la rivoluzione non può effettuarsi senza la crisi del capitalismo a livello globale». La linea è costruire un partito leninista nelle aree industriali chiave (Genova e il triangolo del Nord) e farlo con una macchina militante e un giornale omonimo, pubblicato ininterrottamente dal 1965 e autofinanziato. Dalle cronache recenti si evince, però, che ad alcuni suoi militanti prudono le mani: il 23 maggio 2024 un gruppo di militanti ha aggredito alcuni studenti accampati alla Sapienza di Roma, in protesta contro la rettrice e gli accordi con le università israeliane. Una contraddizione vistosa per chi, per decenni, ha rivendicato rigore teorico e disciplina politica.
Per Landini tuttavia non c’è solo la grana «tute blu». Il 15 aprile scorso, a Sestri Ponente, il sindacalista della Fillea, Fabiano Mura, denunciò un’aggressione fascista, scatenando cortei, solidarietà politica e titoli indignati. Le indagini della Digos, però, hanno smontato pezzo per pezzo il suo racconto: orari incompatibili, auto ferma in garage, nessuna fuga, niente pestaggio. Mura ha ammesso in Procura di aver inventato tutto ed è finito indagato per simulazione di reato. Un mese fa il giudice lo ha ammesso alla prova e il sindacalista ha evitato il processo. Resta la figuraccia, che il sindacato finge di non vedere. Imbarazzo anche alla Filcams, la sigla che raduna i lavoratori del commercio, del turismo e dei servizi, dove non tira una bella aria. Per circa quattro mesi l’ex segretario organizzativo della Filcams locale è stato preso di mira su una chat di gruppo da alcuni colleghi. Un crescendo di insulti e attacchi personali, un vero e proprio body shaming, che il poveretto ha provato a interrompere rappresentando la questione ai piani alti della Cgil a Roma e scrivendo direttamente a Landini. Senza ottenere soddisfazione.
La vittima ha raccontato al Secolo XIX: «Confidavo nel fatto di poter lavare i panni sporchi in casa, ma non è stato possibile. Una realtà come la nostra, che giustamente condanna certi comportamenti nelle aziende, dovrebbe risolvere questo genere di comportamenti al proprio interno. Eppure ho dovuto cercare giustizia altrove». Assistito dall’avvocato Antonio Rubino ha sporto denuncia contro quattro colleghi. È partito così un procedimento per diffamazione semplice che si è chiuso con il pagamento di 2.400 euro da parte dei quattro imputati. Una cifra che Mascia non ha ritenuto soddisfacente, ma il giudice di pace Rita Taglialatela sì e per questo ha dichiarato l’estinzione del reato «per intervenuta riparazione del danno», una soluzione prevista dalla Riforma Cartabia. «La questione economica per me non è importante» ha spiegato Mascia, in pensione dopo quarant’anni di impegno sindacale. «Avevo già chiesto loro le scuse su quella chat e non sono arrivate. A questo punto continuerò a portare avanti la mia battaglia con una causa civile».
Mascia aveva denunciato presunte problematiche interne alla Filcams genovese e dall’agosto del 2021 era stato distaccato alla Cgil confederale genovese. Una decisione che gli aveva fatto guadagnare l’ostilità di alcuni colleghi. E così, in quel periodo di allontanamento, anche per un presunto equivoco (non aveva partecipato al funerale di un famigliare di un collega), era stato coperto di insulti nella chat a cui partecipavano una ventina di dipendenti della Filcams, ma non più lui, che così non aveva potuto replicare. Ma era stato informato di quanto stava accadendo da alcuni amici. Aveva così potuto leggere, negli screenshot ricevuti, amenità come quelle riportate nella sentenza del giudice: «Pezzo di m. puzzolente, vieni quando ci sono io»; «ti ho scorrazzato uomo di m.»; «senza palle di m.»; «sei piccolo piccolo e tinto»; «la spazzatura si accoppia con la rumenta»; «metti due cacche così ti inguai stasera dai»; «va’, dai le metto», seguito da sette emoticon raffiguranti delle feci. Un tiro al bersaglio che ha portato alla sbarra Giovanni Bucchioni, Marco Carmassi, Fabio Piccini e Patrizia Geminiani. «Il primo aprile del 2022 sono stato convocato a Roma dalla segreteria nazionale Filcams e ho esposto le problematiche che avevo sollevato e ho mostrato gli screenshot dei messaggi, spiegando che non essendo nella chat non potevo nemmeno difendermi» ha detto sempre al Secolo XIX Mascia. «Lo stesso materiale l’ho inviato anche alla segreteria nazionale della Cgil all’attenzione del segretario nazionale». L’ex sindacalista si è anche rivolto alla Commissione di garanzia Nord Ovest chiedendo un’ispezione. Inutilmente. Al punto che a maggio del 2022 sono arrivati altri insulti, questa volta da parte della Geminiani. Mascia, a questo punto, ha fatto denuncia e ha ottenuto una vittoria che ritiene parziale.
Ma la sua vicenda è servita ad aprire un altro squarcio su un ambiente, quello della Cgil genovese, che non è esagerato definire tossico.
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