Brigitte Macron (Ansa)
La «prèmiere dame» finisce nella bufera per aver dato delle «str...» a un gruppo di attiviste che contestavano un umorista accusato di violenza sessuale ma poi uscito completamente scagionato. I collettivi non ci stanno: «Ennesimo insulto alle vittime di stupro».
Dopo gli sberloni assestati al marito, Brigitte Macron viene beccata mentre dà delle «brutte stronze» a un gruppetto di femministe e ancora una volta l’irruenza della prèmiere dame diventa virale. La consorte del presidente francese, che a maggio era stata immortalata mentre appioppava uno schiaffo a Emmanuel Macron pochi istanti prima di scendere dall’aereo ad Hanoi con una scena diventata tormentone (era davvero un ceffone o si trattava di un buffetto?), sta dividendo il popolo d’Oltralpe tra critiche feroci e apprezzamenti per la sua franchezza.
Questi i fatti. Sabato sera, alcune attiviste del collettivo femminista NousToutes, indossando maschere con l’immagine dell’umorista Ary Abittan avevano interrotto lo spettacolo dell’attore nel locale parigino Folies Bergère, scandendo lo slogan «Abittan stupratore». L’interprete cinquantunenne di film come Non sposate le mie figlie o Liberté, egalité, fraternité, nel 2021 era stato accusato da una giovane di 23 anni che allora frequentava di averla costretto ad avere rapporti sessuali non consensuali. Scomparso dalla scena pubblica, nell’aprile del 2024 Abittan aveva ottenuto l’archiviazione delle accuse, sentenza di non luogo a precedere confermata a gennaio di quest’anno. Per la Corte d’Appello di Parigi, dopo un’indagine durata oltre tre anni mancavano «prove serie o coerenti». Le testimonianze delle ex fidanzate lo avevano descritto come «un partner rispettoso», e le valutazioni psichiatriche e psicologiche escludevano «una sessualità deviante o impulsi sessuali aggressivi».
Certo, nulla esclude che la sera oggetto dell’accusa l’attore sia stato davvero violento, ma un tribunale ha archiviato il caso. Alle femministe poco importa, ritengono Abittan uno stupratore e da quando ha ripreso a recitare a ogni suo spettacolo inscenano proteste, chiedendo che le sue esibizioni vengano cancellate. Così è accaduto anche sabato scorso per Authentique, evento così presentato: «A 50 anni, tra paternità, amore e resilienza, Ary rivela le sue riflessioni sulle relazioni e sull’infanzia, intrecciando abilmente risate e momenti di autentica emozione».
Domenica sera, la signora Macron è andata a vedere lo spettacolo con la figlia Tiphaine Auziere e ha parlato con Abittan prima che salisse sul palco, secondo un video pubblicato lunedì dal sito di gossip Public e poi cancellato. Le immagini, riprese dai social, mostrano la moglie del presidente nel backstage mentre si avvicina sorridendo all’umorista e gli chiede: «Allora come stai?». «Ho paura», risponde lui. «Paura di che cosa?», ribatte madame. «Di tutto». «Se ci sono delle brutte stronze le sbatteremo fuori», lo rassicura Brigitte Macron ridendo. «Dici?», fa lui. «Soprattutto banditi mascherati», aggiunge la prèmiere dame.
Apriti cielo. Su Instagram, dove ha ripreso il video, il collettivo NousToutes scrive che «il sostegno pubblico a un uomo in un caso così inquietante sia un segnale disastroso inviato alle vittime di abusi sessuali». «Denunciamo l’ampia comunicazione volta a posizionarlo come individuo traumatizzato, umiliando e disprezzando la vittima», prosegue il post. «Denunciamo gli auditorium che fanno un tappeto rosso agli uomini accusati di stupro, normalizzazione della violenza sessista e sessuale. È un insulto pubblico alle vittime. Vittime vi crediamo, stupratori non vi perdoneremo!». Un’attivista che ha preso parte all’azione e ha usato lo pseudonimo di Gwen ha affermato che il collettivo è rimasto «profondamente scioccato e scandalizzato» dal linguaggio della signora Macron. «È l’ennesimo insulto alle vittime e ai gruppi femministi», ha affermato. Abittan resta colpevole per le femministe francesi e la moglie del presidente l’avrebbe fatta grossa, prendendo le sue difese. Inutilmente il team della first lady ha affermato che la critica era solo per il «metodo radicale» di protesta del collettivo che «indossando maschere, ha interrotto lo spettacolo sabato sera per impedire all’artista di esibirsi».
Però le critiche si sono rapidamente spostate sul piano politico. «Abbiamo iniziato con i diritti delle donne come “grande causa del mandato quinquennale”, e stiamo finendo con gli insulti», ha dichiarato su X Manon Aubry, eurodeputata di France Unbowed, la sinistra radicale. «È ora che la coppia Macron se ne vada». L’ex presidente francese, Francois Hollande, ai microfoni di radio Rtl, ha rimproverato la signora di essersi espressa con «volgarità». Ha detto: «Ci possono essere forme di protesta che ci urtano. Ma bisogna provare, quando si ha una funzione, una responsabilità, una presenza, di cercare la pacificazione e non ricercare l’escalation verbale». Per poi aggiungere che però «in Francia non esiste uno statuto di première dame. È libera, madame Macron, di dire ciò che pensa».
Brigitte, che già deve difendersi da anni dalle maldicenze che la vogliono uomo, travestito, addirittura padre dei suoi tre figli avuti dal primo marito André-Louis Auzière, adesso deve spiegare che non era sua intenzione prendere le difese di uno stupratore. Judith Godrèche, l’attrice francese che ha chiesto un’indagine sugli abusi sessuali nel cinema francese, è intervenuta su Instagram per criticarla. «Anch’io sono una stupida stronza. E sostengo tutti gli altri», ha scritto.
Il deputato del Rassemblement National, Jean-Philippe Tanguy, afferma invece che i commenti della moglie del presidente sono stati pronunciati in privato e «rubati». L’Eliseo, intanto, cerca di tamponare: la consorte del presidente «non sta in alcun modo attaccando una causa», fa sapere.
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Cpr in Albania (Getty)
Aumenta il numero delle nazioni in cui si potranno mandare gli stranieri irregolari che arrivano in Italia. Il modello Albania adesso può diventare realtà. Sara Kelany (Fdi): «Si tratta di una vittoria del governo Meloni».
I nuovi regolamenti sull’immigrazione approvati l’altro ieri a Bruxelles dal Consiglio europeo Giustizia e Affari Interni avranno effetti positivi anche sui centri di Gjader e Shengjin in Albania che tanto hanno fatto discutere in questi ultimi mesi. Il primo regolamento riguarda la lista europea dei Paesi considerati sicuri, un elenco valido per tutti e che comporta che le domande di asilo verranno trattate in modo uniforme in tutti i Paesi europei. La lista comprende Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Kosovo, Marocco e Tunisia oltre ai Paesi candidati all’adesione all’Ue, ovvero Albania, Bosnia ed Erzegovina, Georgia, Macedonia del Nord, Moldavia, Montenegro, Serbia e Turchia.
Grazie alle nuove procedure gli Stati membri potranno distinguere subito i casi più meritevoli di protezione internazionale da quelli manifestamente infondati. Vengono considerati sicuri anche Paesi che pur garantendo nel complesso la sicurezza ai propri cittadini presentano alcune circoscritte situazioni di criticità: Egitto e Bangladesh tra gli altri, ovvero i Paesi di provenienza dei migranti i cui trasferimenti in Albania sono stati bocciati da alcune decisioni della magistratura (in seguito a queste decisioni, le strutture ora sono state trasformate in Centri per i rimpatri, come quelli che sorgono in Italia).
In secondo luogo, il nuovo concetto di Paese sicuro permetterà di esaminare una domanda di protezione non necessariamente nello Stato membro di primo ingresso, ma in un Paese terzo dove il richiedente possa ottenere protezione effettiva in condizioni sicure, nel pieno rispetto dei diritti fondamentali: anche questo caso riguarda le strutture di Gjader e Shengjin. Il concetto di Paese terzo sicuro verrà applicato se esiste un accordo o un’intesa con un Paese extra-Ue che garantisca l’esame nel merito delle domande di asilo presentate da parte dei richiedenti interessati dall’accordo o intesa (questa possibilità non riguarda i minori non accompagnati). È prevista inoltre la possibilità di effettuare rimpatri anche verso Paesi terzi diversi da quelli di origine, e di utilizzare i return hub non solo come punti di arrivo ma anche come punti di transito. È stato inoltre evitato che fosse introdotto l’effetto sospensivo automatico delle decisioni di rimpatrio in caso di ricorso. La prossima settimana a Strasburgo inizieranno i triloghi, ovvero le interlocuzioni tra Parlamento europeo, Commissione e Consiglio. I centri in Albania torneranno a operare come strutture per l’espletamento delle procedure accelerate di frontiera solo quando i triloghi saranno portati a termine: sulla tempistica il Viminale non si sbilancia. «Quello che bisogna considerare», sottolinea alla Verità la deputata di Fratelli d’Italia Sara Kelany, responsabile immigrazione del partito, «è che il Consiglio europeo ha dato la misura di quanto le politiche migratorie del governo Meloni fossero lungimiranti e sul giusto binario. Abbiamo immaginato dei sistemi di gestione della immigrazione irregolare anche attraverso la esternalizzazione nei confronti di Paesi terzi che erano già inserite in un quadro normativo europeo. Ora la approvazione da parte del Consiglio europeo del regolamento sui Paesi sicuri consacra la coerenza delle nostre politiche. L’Europa», aggiunge la Kelany, «stila una lista di Paesi sicuri che comprende anche Bangladesh e Egitto, ovvero quei Paesi che la magistratura italiana, con delle sentenze fortemente ideologiche, aveva ritenuto non poter essere considerabili come sicuri. Due Paesi per noi tra i più sensibili in relazione al progetto Italia-Albania, bloccato da una interpretazione appunto ideologica della magistratura italiana. L’approvazione di questo regolamento comporta che oltre a funzionare come Cpr ordinari, i centri in Albania potranno tornare alle originarie funzioni previste, ovvero l’espletamento delle procedure accelerate di frontiera. Un migrante che proviene da un Paese sicuro può essere rimpatriato nel periodo brevissimo di 28 giorni. Tra l’altro», aggiunge ancora Sara Kelany, «attraverso questo regolamento si consacra un altro principio, ovvero la possibilità di effettuare rimpatri anche con accordi per l’espletamento delle pratiche con Paesi terzi non europei. Questo regolamento è una vittoria dell’Italia, perché disegna esattamente le politiche migratorie del governo Meloni». A chi gli chiede se i nuovi regolamenti consentiranno il ritorno alla funzione originaria dei centri in Albania, il ministro della Giustizia Carlo Nordio risponde così: «Certo. Naturalmente, la situazione in questo momento è ancora soggetta alla decisione finale del cosiddetto trilogo, ma è un eccellente viatico verso una soluzione definitiva, che porterà chiarezza sia dal punto di vista giurisprudenziale, sia dal punto di vista operativo. Siamo enormemente soddisfatti e siamo certi che entro pochissimo tempo questa, diciamo, confusione che c’era stata fino ad oggi nella giurisprudenza e nella gestione dei flussi migratori sarà definitivamente accertata proprio in ambito normativo, e quindi», conclude Nordio, «non ci sarà più spazio per esitazioni dal punto di vista giurisprudenziale». Per quel che riguarda gli hub nei Paesi terzi, non è escluso che più Paesi europei possano collaborare per realizzarne di nuovi, anche se la prospettiva, a quanto apprende la Verità da fonti bene informate, è che a questo punto possa essere la stessa Unione europea a farsi carico di realizzare altre strutture definendone nel dettaglio le normative per il loro funzionamento.
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Giuseppe Pignatone (Ansa)
Il procuratore di Caltanissetta in commissione Antimafia: «Il dossier appalti del Ros concausa delle stragi del 1992».
Ha parlato circa due ore e tre quarti. E ha scritto un pezzo di storia di questo Paese. Il procuratore di Caltanissetta Salvo De Luca, in commissione Antimafia, ha ricostruito l’indagine monstre che sta portando avanti con i suoi pm sulle cause della strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, in cui persero la vita l’allora procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino e la sua scorta.
E ha confermato ciò che le indiscrezioni giornalistiche (soprattutto di questo giornale) aveva già fatto in parte trapelare: il dossier mafia e appalti dei carabinieri del Ros è stata una concausa delle stragi, dal momento che per la Piovra andava affossato. Chi ci credeva è morto, chi ha alzato «una muraglia cinese» intorno a esso si è salvato. Ma le accuse più gravi sono state rivolte all’ex procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, e all’ex pm Giuseppe Pignatone (successivamente destinato a una folgorante carriera). De Luca ha spiegato che le precondizioni dell’uccisione di Falcone e Borsellino erano state il loro isolamento e la loro sovraesposizione. E come si era arrivati a questa situazione? Semplicemente affidando le leve della Procura a un uomo come Giammanco con parenti mafiosi, compreso un cugino «accoscato» di Bagheria, la terra di Bernardo Provenzano, e un nipote imprenditore che si spartiva gli appalti con le cosche. De Luca contesta a Giammanco anche l’«ostentata» amicizia con il politico in odore di mafia Mario D’Acquisto e la pazza idea di presenziare insieme con i suoi pm ai funerali di Salvo Lima. Non sono mancate le stoccate all’ex fedele collaboratore di Giammanco, Pignatone, che ha vissuto dai 14 ai 27 anni, quando era già entrato in magistratura, in un condominio infestato da mafiosi, la palazzina di via Uditore 7 C. Qui c’erano 14 appartamenti: 8 occupati dalla famiglia di don Vincenzo Piazza e 4 dai Pignatone.
L’ex presidente del Tribunale del Vaticano ha assicurato che i rapporti tra i due gruppi erano solo «formali» per «le differenze sociali e culturali». Ma De Luca ha pescato nei suoi ricordi e ha sostenuto che in quegli anni, nei condomini, i rapporti erano improntati alla massima condivisione. Nella stessa via viveva anche un altro personaggio che è stato condannato definitivamente per mafia, Francesco Bonura, a sua volta cognato dei fratelli Salvatore e Antonino Buscemi, il primo dei quali diventerà capo mandamento.
E proprio Piazza, Bonura e Buscemi costituiranno l’immobiliare Raffaello, da cui, tra il 1978 e il 1983 i Pignatone acquisteranno 26 immobili, tra appartamenti, box, cantine e negozi. Comprano da «un capo mandamento, un capo famiglia e un associato», ha evidenziato De Luca, aggiungendo che poche altre ditte a Palermo avevano una compagine così compromessa: «Una riunione di questa società poteva comportare un arresto in flagranza per associazione mafiosa». Il procuratore ha citato anche un’intercettazione che i nostri lettori già conoscono. Risale al 22 ottobre 2024 e in essa il boss Bonura (tuttora in carcere) afferma: «A Pignatone gli abbiamo venduto le case. Io mi ricordo la madre di Pignatone, mi prendeva a braccetto: andiamo a vedere qua, andiamo là; sì signora, sì signora...».
Quando De Luca gli ha letto queste parole, durante il suo interrogatorio, Pignatone ha protestato: «Mia madre, buonanima, era una persona cordiale». L’audito ha anche ricordato che l’ex procuratore di Roma, quando Bonura viene arrestato per un duplice omicidio di mafia, anziché interrompere gli acquisti dalla Raffaello, si astiene nel procedimento. Ma il capo degli inquirenti nisseni ha rimarcato come Pignatone non abbia fatto la stessa prudente scelta quando c’è stato da indagare, agli arbori del dossier del Ros, sugli affari della Sirap, un ente pubblico chiamato a gestire mille miliardi di lire in appalti, una diligenza assaltata dalla mafia. La Sirap era partecipata dalla Espi presieduta da babbo Pignatone, chiacchierato politico dc e, secondo De Luca, «era probabile» che in quell’indagine, «emergessero fatti sul padre». Ma ciò non avrebbe sconsigliato Pignatone dal trattare quel fascicolo.
Tali intrecci pericolosi, secondo gli inquirenti nisseni, rendevano incompatibile Pignatone con la Procura di Palermo, o «quanto meno avrebbero dovuto impedirgli di avvicinarsi a qualunque procedimento riguardasse mafia e appalti, i Buscemi, Bonura e Piazza». De Luca ha anche ricordato che già nella relazione di opposizione del 1976 in Antimafia erano citati Bonura e Piazza e in quella del 1988 si spiegava che Pignatone senior «avrebbe tenuto un comizio voluto da Calogero dall’onorevole Calogero Vizzini in cui si esaltava la virtù della mafia diversa dalla delinquenza». Di fronte a un simile quadro, De Luca ha scandito: «Questa situazione di assoluta inopportunità in cui hanno esercitato le loro funzioni Giammanco e Pignatone ha contribuito grandemente a sovraesporre Falcone e Borsellino».
Il procuratore è stato tranciante, seppur negando di essere guidato da «mero moralismo», anche sul fatto che Pignatone abbia confessato di avere versato in nero circa 20 milioni per l’acquisto della casa, «rendendosi conto della pochezza del prezzo pagato». Il magistrato siciliano ha sintetizzato il suo lavoro: «Dobbiamo vedere in che situazione di inopportunità si va a ficcare una persona». Un approfondimento che ha portato a queste conclusioni: «Pignatone afferma di avere pagato 20 milioni in nero al capo mandamento Salvatore Buscemi. Non è un reato perché si tratta di un pagamento sottosoglia, è un illecito amministrativo […], ma è un’evasione fiscale fatta con il capo mandamento di Passo di Rigano Boccadifalco».
Diversi collaboratori di giustizia hanno citato Giammanco e Pignatone come magistrati vicini alle cosche, se non addirittura a disposizione. Lo stragista pentito Giovanni Brusca, a giugno ha detto ai magistrati nisseni: «Ho sentito della famiglia Pignatone, Salvatore Riina diceva che erano vicini ai Buscemi... ho saputo da Pino Lipari o da Totò Riina che i Buscemi avevano a disposizione il magistrato Pignatone, si diceva anche che il dottor Pignatone fosse stato trattato bene dai Buscemi in occasione di un acquisto di un appartamento».
Pignatone ha liquidato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia come semplice «chiacchiericcio». Ma De Luca ha deciso di scoprire se lui e Giammanco «abbiano offerto un’immagine all’esterno che ha dato luogo a queste v sa nostra».E in commissione ha illustrato quanto certi comportamenti disinvolti di magistrati come Pignatone e Giammanco potrebbero avere danneggiato Falcone e Borsellino: se qualcuno si è «posto in una posizione assolutamente inopportuna», dando alla mafia l’impressione che in Procura ci fosse «una dirigenza debole, malleabile o addirittura corrotta», ebbene, quelle persone avrebbero, come detto, sovraesposto «enormemente chi, invece, veniva ritenuto incorruttibile, inflessibile». De Luca ha riportato quello che potrebbero avere pensato i boss: «Con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non c’è niente da fare. Fermiamoli, tanto con gli altri non abbiamo problemi».
A questo punto De Luca ha passato in rassegna le posizioni di Giammanco (morto nel 2017), Pignatone (indagato) e di Guido Lo Forte, che, però, nonostante abbia comperato casa dalla Raffaello e lavorato gomito a gomito con Pignatone non è stato iscritto sul registro delle notizie di reato perché non è stato chiamato in causa dai collaboratori di giustizia e, dopo l’addio di Giammanco, ha chiesto l’arresto di Antonino Buscemi. Una mossa che a giudizio del procuratore dimostrerebbe che «non aveva interesse personale a proteggerlo».
Diversa la gestione, sotto la regia di Pignatone, di fascicoli fondamentali sugli affari dei Buscemi con il gruppo Ferruzzi nelle cave di marmo di Carrara.
De Luca ha ricordato un dogma di Falcone (mega indagini, piccoli processi), completamente tradito da queste inchieste, in cui le investigazioni procedevano a compartimenti stagni e non c’era reale condivisione delle informazioni. De Luca non si spiega come il fascicolo «doppione» sui Buscemi, aperto grazie alle carte arrivate dalla Procura di Massa Carrara, sia rimasto praticamente «occulto». Il titolare ufficiale era Gioacchino Natoli, il quale, pur appartenendo a una corrente progressista, era perfettamente allineato con il moderato Pignatone e avrebbe nascosto al Csm quanto di sua conoscenza sui rapporti conflittuali tra Giammanco e Falcone, da quest’ultimo denunciati anche in una riunione di corrente.
Quanto alla sottovalutazione del dossier mafia appalti e all’archiviazione del filone principale, chiesta da Roberto Scarpinato e Lo Forte, De Luca non è stato tenero: «In due anni non è stata fatta una sola indagine su Antonino Buscemi».
Il procuratore ha giudicato «singolare» il fatto che l’attuale senatore del Movimento 5 stelle e membro della commissione Antimafia «si sia rimesso alle valutazioni di Lo Forte» su Buscemi e alla sua decisione di chiedere l’archiviazione asserendo che sul boss «non c’era assolutamente nulla» (una motivazione bollata da De Luca come «inaccettabile»), mentre contemporaneamente portava avanti una richiesta di misura di prevenzione nei confronti dello stesso soggetto e in tale fascicolo «diligentemente» aveva raccolto le carte di Massa e le dichiarazioni dei pentiti nei suoi confronti. Ma con quel tipo di proscioglimento «come puoi portare avanti la misura di prevenzione?», si è chiesto l’audito. «Un’affermazione del genere fatta dalla Procura rende inidonea la prosecuzione di un procedimento per una misura di prevenzione». Per De Luca, Scarpinato o doveva mandare in archivio entrambi i procedimenti o, viste le sue conoscenze, portare avanti anche il fascicolo penale. «La diligenza del senatore Scarpinato è molto apprezzabile in sede di misura di prevenzione, però, è in contraddizione con l'atteggiamento mantenuto in sede penale».
Il procuratore ha bocciato anche la pista nera seguita dal parlamentare grillino quando era pg di Palermo. Lo ha accusato di «essersi fatto un’indagine sulle stragi» alla vigilia del congedo per pensionamento, senza coordinarsi con Caltanissetta («l’unica procura che aveva la competenza sulle stragi»), violando così l’articolo 11 del codice di procedura penale.
Ma al contrario di quanto accaduto per mafia e appalti, quando Scarpinato «ha prospettato questo filone», De Luca & c. avrebbero iniziato a indagare con entusiasmo, salvo «rendersi conto» che quell’indagine «valeva zero tagliato», come ha confermato un gip non appiattito sulle posizioni della Procura. Ma questo non significa che «Stefano Delle Chiaie (l’estremista chiamato in causa da Scarpinato, ndr) non possa avere avuto un ruolo […] visto che uno stragismo di destra storicamente in Italia c’è stato», ha concesso De Luca, annunciando che c’è «un’ulteriore pista nera che stiamo approfondendo e che potrebbe dare esiti».
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Nel riquadro, l'ultima campagna della Terza Brigata d'Assalto ucraina (Ansa)
- Nei poster che invitano ad arruolarsi, uomini «duri» avvinghiati a belle ragazze.
- Istruttore militare britannico sarebbe stato vittima di un «tragico incidente» in Ucraina. Ulteriori avanzate dei russi. Putin: «Accolti dai civili con gioia». La resistenza issa un vessillo a Pokrovsk.
Lo speciale contiene due articoli.
Quando l’Ucraina è stata invasa dalla Russia, nel febbraio del 2022, Europa e Stati Uniti si sono compattamente schierati con Kiev a difesa dei «valori dell’Occidente». Quali fossero, questi valori, non era chiarissimo. Ma con il senno di poi alcuni aspetti si sono disvelati: per gli americani erano semplicemente i loro interessi, tanto è vero che, falliti i tentativi di destabilizzare Mosca e senza alcuna intenzione di rischiare davvero una guerra nucleare, Washington ora non vede l’ora di archiviare il conflitto. Quanto agli europei, invece, all’inizio sembrava che immaginassero l’Ucraina come futuro baricentro liberal. Kiev, d’altra parte, rimane una delle mete preferite della borghesia annoiata del Vecchio continente, in cerca di uteri da affittare per mettere al mondo figli a pagamento. Purtroppo, però, l’ideologia gender (che poi è capitalismo in purezza) non invoglia nessuno a sacrificare la propria vita per difendere la patria. La fluidità, insomma, non si concilia benissimo con le armi. E così, proprio come avviene in Ucraina, è molto probabile che la mascolinità («tossica») tornerà di moda anche in Europa, persa nei suoi spasmi bellicisti.
A Kiev, dove è sempre più difficile trovare uomini disposti a morire al fronte, questo lo sanno. Non vendono ai loro cittadini discorsi sulla democrazia (che non c’è) né sulla superiorità morale dell’Ucraina (anch’essa discutibile, specialmente dopo gli ultimi scandali sulla corruzione): usano l’artificio più antico del mondo. Una foto di un maschio alfa seduto su una motocicletta, abbracciato da una bella donna con in mano una pistola e la scritta: «Amo la terza brigata d’assalto». Oppure un’attraente donna bionda, con lo sguardo perso in lontananza, che riflette nei suoi occhiali da sole l’immagine di un soldato in tenuta mimetica. Sono soltanto alcuni dei cartelloni pubblicitari sparsi per le città ucraine, ma il concetto è chiaro: quando si parla di guerra, ci vuole l’uomo virile.
La terza brigata d’assalto, d’altronde, non è altro che l’ex battaglione Azov: quel gruppo armato neonazista su cui i media occidentali fino a prima del febbraio 2022 facevano servizi e che poi, sempre gli stessi media, hanno provato a far passare per lettori di Emmanuel Kant.
Oggi il battaglione, confluito nell’esercito ufficiale, si avvale perfino di un dipartimento marketing. Dopo quasi quattro anni di guerra, le reclute languono e le perdite aumentano, così non resta che la pubblicità. «Il nostro obiettivo: inventare continuamente nuove buone ragioni per arruolarsi», spiega uno dei soldati che ci lavora. Per attirare nuovi soldati da addestrare puntano sulla reputazione: ideali, patriottismo, nazionalismo, fratellanza d’armi. E, come testimoniano le insegne pubblicitarie, anche quell’insondabile oggetto del desiderio che fa uscire di testa i maschi. Come avverrebbe in qualsiasi Paese in guerra, naturalmente. Ma senza dubbio ideali distanti dai «valori dell’Occidente» che abbiamo fatto difendere per procura agli ucraini, rifornendoli di soldi e di armi. A quanto pare, però, nemmeno il richiamo agli istinti è sufficiente a rimpolpare le fila dell’esausto, benché indubbiamente anche eroico, esercito di Kiev.
La sensazione, dunque, è che l’aria cambierà anche da noi. Che nella politica estera abbiano un qualche peso i valori, nessuno lo crede realmente. I valori cambiano a seconda degli obiettivi. La guerra, per esempio, ora fa comodo all’Ue e a qualche suo leader per continuare a esistere. Ma al fronte ci vanno gli uomini, quelli dalla «mascolinità tossica», disposti a difendere le loro famiglie a costo della vita.
Morto soldato Uk: «Non al fronte»
Se, nel prossimo futuro, il premier britannico Keir Starmer ha promesso che invierà truppe in Ucraina per garantire la pace, guardando al presente la situazione non appare così promettente. Chi dovrebbe addestrare i soldati ucraini perde la vita senza nemmeno essere schierato sul campo: un istruttore britannico è, infatti, morto ieri in Ucraina a seguito di «un tragico incidente mentre osservava le forze ucraine testare una nuova capacità difensiva, lontano dalla linea del fronte».
Nel frattempo, gli ucraini hanno issato la bandiera gialloblù a Pokrovsk per negare la presa della città da parte dei soldati russi. La foto-simbolo ucraina è stata, però, scattata appositamente per la Bbc, in una dinamica che mette in luce la resistenza ma anche le difficoltà dell’esercito di Kiev: il comandante del reggimento d’assalto Skala, per dimostrare che la parte Nord di Pokrovsk non è sotto il controllo russo, ha chiesto a due soldati di uscire velocemente da un edificio in cui erano nascosti per sventolare la bandiera, prima di tornare subito al riparo.
Quel che è certo è che Mosca continua ad avanzare: il capo di stato maggiore dell’esercito russo, Valery Gerasimov, ha comunicato la conquista di tre centri abitati situati a Est di Pokrovsk: Rivne, Rog e Gnatovka. Parlando della presa dei territori e delle reazioni della popolazione ucraina, il presidente russo, Vladimir Putin, ha dichiarato: «I civili che non lasciano le città nella zona dell’operazione militare speciale accolgono i soldati russi con le parole “vi stavamo aspettando”». A essere presa di mira dalle forze russe è, poi, la città di Myrnohrad, sempre nel distretto di Pokrovsk: «Il presidente ha ordinato la sconfitta delle forze ucraine a Myrnohrad», ha annunciato Gerasimov, aggiungendo che già «il 30% degli edifici nella zona» è controllato dai russi. Tra l’altro, il militare ha dato ordini per proseguire l’avanzata verso la regione di Dnipropetrovsk, con l’obiettivo di creare una zona di sicurezza per le regioni annesse di Kherson, Donetsk, Luhansk e Zaporizhzhia. In quest’ultimo oblast, l’attenzione di Mosca si concentra su Huliaipole. A rivelarlo è il portavoce ucraino delle Forze di difesa del Sud, Vladyslav Voloshyn, che ha ammesso: «Il nemico sta cercando principalmente di isolare Huliaipole dalle vie logistiche e di accerchiarla da Est e Nord-Est».
Oltre ai combattimenti sul campo, i raid russi hanno bersagliato le infrastrutture energetiche ucraine, lasciando metà degli abitanti di Kiev di nuovo senza elettricità. Per far fronte all’emergenza, oggi è previsto un calendario di interruzioni di corrente programmate in tutto il Paese. E l’amministratore delegato di Naftogaz, Sergiy Koretsky, ha già lanciato un avvertimento al popolo ucraino: «Sarà sicuramente l’inverno più duro». Ha, infatti, spiegato all’Afp che «la distruzione e le perdite della produzione di gas ucraine sono significative. E il ripristino della produzione richiederà molto tempo».
Dall’altra parte, mentre Mosca ha intercettato e abbattuto 121 droni di Kiev, Putin, consegnando le medaglie d’oro ai militari che si sono distinti sul campo, ha rispolverato «l’inseparabilità della storia millenaria» della Russia dal suo destino. Ammettendo «un momento difficile», il leader del Cremlino ha sentenziato che «il Paese è ancora una volta convinto di quanto siano forti le tradizioni della gloria militare».
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