Vincent Van Gogh, Campi di grano con falciatore, Auvers, 1890.Toledo Museum of Art, acquistato con fondi del Libbey Endowment, dono di Edward Drummond Libbey
Da Picasso a Van Gogh, passando per Modigliani, Matisse e Hopper, in mostra al Museo di Santa Caterina di Treviso (sino al 10 maggio 2026) oltre sessanta capolavori provenienti dal Toledo Museum of Art dell’Ohio, per un viaggio appassionante nell’arte dell’Ottocento e Novecento.
Storico dell’arte, curatore di fama internazionale, grande studioso di Van Gogh , Marco Goldin torna nella sua Treviso con una mostra che raccoglie sessantun capolavori dall’inestimabile valore culturale ed economico (nell’insieme valgono oltre un miliardo di euro…), frutto dell’estro dei grandi Maestri che hanno segnato e rivoluzionato la storia dell’arte del XIX° e XX° secolo.
Figura che ama stupire, questa volta Goldin ha ideato un’esposizione che « va cronologicamente a ritroso »: parte dall'astrazione americana del secondo Novecento (con artisti come Richard Diebenkorn, Morris Louis e Helen Frankenthaler), prosegue con l'astrazione europea ( rappresentata da opere di Piet Mondrian, Paul Klee e Ben Nicholson) e si conclude con il passaggio dal Novecento all’Ottocento, con focus su natura morta, ritratto e paesaggio. Tre temi fondamentali, pur nelle loro molteplici declinazioni, rappresentati, in mostra, dalle sfumature poetiche delle nature morte di Giorgio Morandi e Georges Braque e dai ritratti e dalle figure di Matisse, Bonnard e Vuillard, sino ad arrivare a De Chirico e Modigliani (di grande intensità il ritratto di Paul Guillaume del 1815) e alla famosa Donna con cappello nero, uno splendido Picasso cubista del 1909. Davvero straordinaria anche la parte (l’ultima di questo originale percorso al contrario…) dedicata al paesaggio, che regala al visitatore le meravigliose visioni veneziane di Paul Signac, la Parigi di Robert Delaunay e Fernand Léger e una strepitosa sequenza di paesaggi impressionisti e post-impressionisti, tra cui spiccano una delle ultime versioni (forse la più bella… ) delle Ninfee di Monet, accanto a capolavori assoluti di Gauguin, Cezanne, Caillebotte, Renoir e Sisley, a Treviso con il suo celebre L’acquedotto a Marly, realizzato nello stesso anno della prima mostra impressionista, il 1874. A chiudere questo anomalo e ricchissimo percorso espositivo, l’artista più amato e studiato da Goldin: Vincent Van Gogh.
Solitario, a dominare su tutto, quasi a congedare il pubblico, quel capolavoro che è Campo di grano con falciatore ad Auvers del 1890, l’opera con cui l’artista olandese dice addio alla vita e che rappresenta con largo anticipo l’arte futura, quella modernità già raggiunta da Van Gogh nell’incomprensione quasi totale del suo tempo… E sempre a lui, inarrivabile e tormentato genio pittorico , è dedicato film scritto e diretto da Goldin Gli ultimi giorni di Van Gogh, proiettato a ciclo continuo nella sala ipogea del museo trevigiano. Con questa poetica proiezione si conclude il percorso espositivo, che splendidamente rappresenta la qualità altissima delle opere custodite nel Toledo Museum of Art dell’Ohio, il quotatissimo museo americano (nominato nel 2025 il miglior museo degli Stati Uniti) che ha reso possibile questa prestigiosa esposizione, che da sola merita almeno un giorno a Treviso…
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Riduci
Il primo giorno di esercizio delle Ferrovie Meridionali Sarde alla stazione di Iglesias nel 1926
Le Ferrovie Meridionali Sarde, nate negli anni Venti in concessione, servirono per oltre 40 anni l'industria estrattiva e i suoi lavoratori. Sopravvissute alla guerra, furono sopraffatte dal boom petrolifero e dal traffico privato.
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La Sardegna era rimasta l’ultima regione dell’Italia postunitaria a non avere una strada ferrata. Le difficoltà logistiche dovute alla distanza dal continente erano state il principale ostacolo, seguito dallo scarsissimo sviluppo economico e industriale dell’isola, caratterizzata da una secolare arretratezza. Le prime ferrovie sarde furono infatti realizzate oltre vent’anni dopo la prima linea italiana, la Napoli-Portici del 1839. Solo nel 1862, su concessione del governo unitario, fu costituita a Londra con capitale privato la Compagnia delle Ferrovie Reali Sarde (CFRS) che realizzò in 18 anni la tratta che collegava, percorrendo l’interno della Sardegna, Cagliari a Porto Torres. Negli anni successivi la rete fu ampliata da altre due concessioni ferroviarie realizzate con capitale privato. La prima fu la Società delle Strade Ferrate Secondarie della Sardegna (SFSS), fondata nel 1886, che realizzò linee a scartamento ridotto da 950mm (più agili dell’ordinario per i tratti più tortuosi dell’interno dell’Isola) tra il 1888 e il 1932. Le SFSS coprirono le tratte Cagliari – Isili (1888), Monti – Tempio Pausania (1888), Macomer – Nuoro (1889), Isili – Villacidro (1891), Mandas – Sorgono (1893), Mandas – Seui (1893), Seui – Villanova Tulo (1894), Villanova Tulo – Ussassai (1894), Ussassai – Gairo (1894), Gairo – Tortolì / Arbatax (1894), Villamar – Ales (1915), Sassari – Alghero (1929), Sassari – Tempio Pausania (1931), Tempio Pausania – Palau (1932). Una terza rete ferroviaria fu quella delle Ferrovie Complementari della Sardegna (FCS), una concessione scaturita dalla legge finanziaria del 1912 con capitale pubblico. A scartamento ridotto come le SFSS, le Complementari entrarono in esercizio solo nel 1921. Le tratte coperte furono Chilivani – Tirso (1921), Villamassargia – Carbonia (1926), Decimomannu – Iglesias (1926).
La zona Sud-occidentale invece, rimasta per anni isolata dalla rete ferroviaria, fu coperta negli stessi anni da un’altra rete in concessione, che avrebbe servito negli anni successivi una delle aree segnate dal più intenso sviluppo industriale: il Sulcis delle miniere di carbone. La Società delle Ferrovie Meridionali Sarde (FMS) fu fondata a Busto Arsizio l’11 dicembre 1914 ma si dovettero attendere quasi 10 anni per l’inizio dei lavori a causa dello scoppio della Grande Guerra. L’esigenza primaria dell’ultima rete ferroviaria sarda in ordine cronologico era duplice: fornire un importante supporto logistico all’industria estrattiva in quegli anni in rapida crescita per il trasporto del carbone verso le navi e garantire allo stesso tempo mobilità adeguata ad una popolazione crescente a causa della domanda di forza lavoro nelle miniere del Sulcis Iglesiente. Anche le FMS erano a scartamento ridotto ed i lavori furono appaltati all’impresa Durando&Tomassini, che in soli tre anni dal 1923 al 1926 portò a termine più di 100 km. di linea costruendo 5 gallerie, 34 opere tra ponti e viadotti, 18 stazioni e 55 case cantoniere. Le tratte erano Siliqua-S.Giovanni Suergiu (connessione con FCS) e Calasetta-Iglesias-San Giovanni Suergiu. Nella tratta finale verso Calasetta erano localizzate le stazioni di scarico del carbone come quella di S.Antioco-Ponti, attrezzata con gru portuali per il carico del materiale sulle navi. Il materiale rotabile comprendeva carri passeggeri e merci, trainate inizialmente da locomotive a vapore Breda gruppo 100. Questi convogli servirono le FMS per circa un decennio in cui il traffico sia passeggeri che merci aumentò costantemente, nonostante la velocità di esercizio ridotta a poco più di 40 km/h. Nel 1936 la società acquistò le prime littorine Aln 200, che dimezzarono i tempi di percorrenza grazie ad una velocità omologata di 85 km/h. Quelli delle sanzioni seguite alla guerra d’Etiopia furono gli anni d’oro delle FMS, che arrivarono a garantire fino a 60 convogli giornalieri e a superare il milione di tonnellate/anno di carbone trasportate dai carri merci.
Poi fu la guerra, che portò la prima crisi per la società. A causa della carenza di carburante, le littorine furono accantonate e si tornò alla trazione a vapore. Il trasporto del carbone subì una contrazione di oltre il 60% a causa della mancanza di naviglio mercantile. Poi dal cielo arrivarono i bombardamenti alleati sui porti e sulla linea a meno di 20 anni dall’inizio dell’esercizio, che causarono gravi danni alle strutture e al materiale rotabile. Si salvarono tuttavia le littorine, che durante la guerra erano rimaste nascoste sotto un fogliame mimetico. Nel dopoguerra iniziò la ristrutturazione delle linee, con un piano elaborato nel 1947, che sancì la prima e ultima fase di ripresa delle FMS, grazie anche ai livelli di estrazione del carbone che arrivarono nuovamente a sfiorare il milione di tonnellate. Fu un fattore esterno, alla metà degli anni Cinquanta, a generare una crisi della società dalla quale non si sarebbe più ripresa. Il miracolo economico e i progressi tecnici favorirono la diffusione dei prodotti petroliferi, con conseguente crollo del mercato del carbone. Dal 1960 le FMS furono sottoposte a commissariamento da parte dello Stato, che provò a modernizzare la linea con l’acquisto di 6 nuove automotrici ADe (diesel-elettriche). Ma la carenza ormai cronica di passeggeri fu aggravata anche dalla realizzazione di una linea ferroviaria in concorrenza con le arrancanti FMS. Nel 1956 le Ferrovie dello Stato inaugurarono la linea Villamassargia-Carbonia, che agevolava di molto il transito passeggeri verso Cagliari e serviva l’importante sito minerario di Serbariu, che fino ad allora si era affidato alle FMS. Ormai semideserte ed erose dalla diffusione sempre maggiore del traffico automobilistico privato, le storiche ferrovie del carbone giunsero al binario morto, terminando definitivamente l’esercizio nel 1974.
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Renzo Arbore (Ansa)
Il maestro della tv ripercorre la sua gloriosa carriera di conduttore, ricca di aneddoti, nel libro-intervista «Mettetevi comodi»: «Il Cavaliere mi voleva con sé e disse: “Scrivi tu la cifra”. Ma ero un figlioccio della Rai. Baudo tornò a viale Mazzini grazie a me».
In molti hanno tentato di imitare il suo stile. Nessuno, tuttavia, l’ha mai eguagliato. Con fantasia iperbolica Renzo Arbore ha de-istituzionalizzato il tradizionale varietà della Rai inventando una televisione diversa con ritmi, personaggi, canzonette esilaranti e paradossi che facevano riflettere, divertivano e dissacravano. Figlio di un medico dentista che l’incoraggiò a laurearsi in Legge, ha smascherato ipocrisie con eleganza, gentilezza e garbo difendendo sempre la propria libertà. Il jazz, basato sull’improvvisazione creativa, è la sua universale fonte ispiratrice. È appena uscito Mettetevi comodi (ed. Fuoriscena), eccellente libro-intervista con il maestro della tv scritto dal giornalista del Messaggero Andrea Scarpa.
A Foggia sta nascendo «casa Arbore».
«I lavori sono molto avanzati e con i miei architetti, Cappellini e Licheri, gli stessi di Indietro tutta! e di altre mie trasmissioni, stiamo iniziando con l’arredamento. Sarà uno spazio culturale su tre piani nell’ex-liceo scientifico in viale Di Vittorio, dove studiò Gegé Telesforo. Ci saranno posti per piccoli gruppi che potranno suonare ed esercitarsi, una stanza dedicata alle proiezioni, le televisioni per vedere le mie cose perché la Rai mi ha donato tutto il mio repertorio e io l’ho donato alla Rai senza pretendere nulla, quindi uno scambio culturale».
Andiamo agli anni ’90, quelli dell’Orchestra italiana…
«Per me sono stati quelli più belli perché ho conosciuto non solo il successo discografico internazionale ma ho anche cantato sul posto, dall’Australia alla Cina, dal Giappone all’ex Unione sovietica, Nord e Sudamerica, Olympia di Parigi, Rio de Janeiro... Con noi, dovunque andavamo, c’era un regista straordinario che ha filmato tutto, il dietro le quinte, gli arrivi, Rio, il giro di New York nei pullman a due piani promuovendo il concerto… Sto preparando questo materiale per un’eventuale utilizzazione in Rai».
Con Luciano De Crescenzo vi conosceste nel 1967 e scopriste di essere insieme con la stessa ragazza che vi tradiva entrambi. Come lo ricorda?
«Luciano era il primo in tutte le cose che faceva. È stato un grande ingegnere, il primo a utilizzare il computer, lavorava all’Ibm, ha venduto 18 milioni di libri in tutto il mondo, invidiatissimo dagli scrittori napoletani, campione di motonautica, regista e attore. E grande fotografo, ha fatto il bellissimo La Napoli di Bellavista. Quando abbiamo fatto F.F.S.S. (1983, ndr.) la città era vista male, non andava nessun turista, persino i napoletani parlavano male della loro città che per la verità era molto disordinata. A Roma ci siamo incaponiti per fare un film che risolvesse l’immagine di Napoli dandole una chance, noi chiamavamo la scianza, cosa poi avvenuta. Ciampi ci fece un G7 e oggi la città è piena di turisti dall’Italia e dall’estero».
Già dal 1965, in radio, con Boncompagni, creaste la categoria dei giovani…
«È proprio questo. Quando ero giovane ero trattato da ragazzo, il Corriere della Sera faceva il Corriere dei piccoli e poi il Corriere dei ragazzi. Da ragazzi si diventava subito uomini. Con i primi pantaloni lunghi uno era autorizzato a essere uomo, adulto. Con Boncompagni, a Bandiera gialla, abbiamo istituzionalizzato la categoria dei giovani. Quindi il programma era addirittura vietato, perché si scherzava, ai maggiori di 18. Nacquero i teenager e la moda beat. Gli anni dal 1965 al ’72-’73, prima che iniziassero quelli di piombo, furono bellissimi e i giovani coccolati…».
Osserva Roberto D’Agostino, uno dei personaggi di Quelli della notte: «Arbore, mettendo in scena la commedia dell’arte in tv, ha sgangherato e sbeffeggiato la Rai di quegli anni, seriosa e pedagogica, attraverso una baraonda di personaggi (…) in linea orizzontale, non più “l’ecco a voi”». Dopo 40 anni lei come lo legge il suo programma cult?
«Senza volere, noi abbiamo inventato una nuova maniera, anzi la vera maniera di fare il varietà televisivo, perché prima il varietà era quello di Falqui, cioè scritto, codificato, approvato e recitato. Quelli della notte è diventato una specie di modello per tante cose televisive in seguito, ma non è stato eguagliato perché la conversazione strampalata che facevano noi non è stata fatta più».
Nel 1977 Silvio Berlusconi era agli inizi con Telemilano 58, lei al secondo anno dell’Altra domenica. Una cena a Milano con lui e altri, in un ristorante sui Navigli, fu una gara di barzellette tra voi due…
«Certo, confermo. Però devo dire che Berlusconi mi ha contattato ripetutamente quando avevo grande successo dicendomi: “Se proprio non vuoi tradire la Rai dammi almeno dei consigli”. Gli dissi: “Devi fare una televisione diversa da quella della Rai”. E lui mi ha detto “no, io la devo fare uguale”. Gli ho dato qualche ideuzza, sì e più avanti ci siamo incontrati, ma lui è andato per la sua strada, vabbé…».
Poi, nel 1985, al ristorante Giannino di Milano, il futuro premier la chiamò in disparte e le presentò un assegno in bianco per passare da lui…
«Lui disse: “Metti tu la cifra”».
Sua risposta?
«Interpretai la cosa come una gag. Io mi reputo figlioccio della Rai perché sono l’unico della mia generazione che non l’ha mai tradita. Non faccio alcun nome ma gli altri, tutti, hanno avuto il momento di Berlusconi, sono andati da lui, anche miei amici intimi. Alcuni sono tornati indietro, però ci sono andati… Io in Rai sono rimasto sempre. Anche perché la Rai mi lasciava libero e io, un po’ fuori ordinanza… È vero che mi hanno anche levato dei programmi eccetera, ma non volevo un, come si dice, “padrone”. Certamente una grande personalità come quella di Berlusconi mi avrebbe influenzato nelle scelte artistiche perché la tv commerciale aveva e ha anche regole diverse da quelle della Rai».
Aiutò Baudo a rientrare in Rai dopo l’esperienza fallimentare a Mediaset?
«È la verità. Quando fu mandato via, in Rai non lo volevano più. Lui avrebbe voluto tornare. Mi diceva l’allora direttore della Rai, Biagio Agnes, “piuttosto Raffaella Carrà ma non Pippo Baudo”. Vidi Pippo disperato e insistetti. Poi Biagio raccontò che un’anziana incontrata al cimitero gli disse: “Perché non lo riprende?”. La verità è che fui io a convincerlo».
Anni prima con Pippo andaste insieme a far visita a Padre Pio.
«Sì, a San Giovanni Rotondo, andai tre volte, di cui una con Pippo. Padre Pio gli chiese: “Sei venuto per fede o per curiosità?”. Lui rispose “più per curiosità”. E allora Padre Pio gli disse “vattenne”».
Nel libro sostiene che nella tv di oggi prevale l’«isteria del politicamente corretto». Ritiene possibile che qualcuno possa realizzare un programma controcorrente come i suoi?
«No, perché poi c’è la regola dell’auditel che è un dittatore assoluto. Non c’è più il gradimento, difficilissimo che una cosa rivoluzionaria possa essere fatta. Quindi la vedo dura. C’è stato qualche esperimento poi subito crollato».
Idea memorabile e paradossale quella delle «ragazze coccodè» a Indietro tutta!, alludente alla strumentalizzazione della donna. Reazioni dei movimenti femministi?
«Non ci furono reazioni perché si capì che era una satira contro le “ragazze bingo”, usate dagli sponsor per la pubblicità anche in Rai, per esempio a Fantastico. Facemmo una satira di quella televisione, uno sponsor finto - il cacao meravigliao - la “ruotona della fortunona”, Marenco che faceva il bambino perché Boncompagni aveva preso un bambino a Domenica in, insomma tutto ciò che poteva essere contro la dittatura dell’auditel».
Regista del Pap’occhio, che fece scandalo. Nella trama papa Wojtyla vede la sua réclame della birra e la invita, con la squadra dell’Altra domenica, a fare la tv del Vaticano… Milly Carlucci «suorina buonasera».
«Volevo dire che, per la prima volta, si poteva cercare di scherzare su una cosa assolutamente proibita. Non c’erano imitatori della voce del Papa. Volevo dire che, con gusto, si poteva scherzare almeno sul catechismo imparato a scuola. Il film fu poi sdoganato dall’Opus Dei che lo giudicò “ecumenico”».
Karol Wojtyla interpretato da Manfred Freyberger, altoatesino, incredibilmente somigliante.
«Era così somigliante che quando giravamo il film, nella Reggia di Caserta, una suora lo vide e svenne…».
Giovanni Paolo II vide il film?
«No, penso che il Papa proprio no. Però un cardinale molto in vista mi disse: “Non si preoccupi che noi ci siamo divertiti”».
Nel libro si dichiara credente, «cattolico apostolico foggiano».
«(sorride) Io, come diceva De Crescenzo, sono sperante. Voglio innanzitutto dire che sono ossequioso a tutti i comandamenti della religione cattolica. Alcuni mi sono particolarmente cari, come ama il prossimo tuo come te stesso. Quindi confermo gli insegnamenti di quando frequentavo la mia parrocchia a Foggia. Ho visto che non vanno contestati e sono giusti».
Le capita di partecipare a qualche funzione religiosa?
«Qualche volta sì, ma soprattutto ho rapporti personali con i miei santi…».
Con qualcuno in particolare?
«Io sono devoto ai santi della sanità, santissimi Cosma e Damiano».
La sua casa è gremita di oggetti di ogni tipo. Qualcuno, affettivamente, le è più caro?
«L’orologio di mio padre, il corno di corallo di Totò che mi regalò la figlia e altri che mi sono stati rubati. Adesso rimango legato a qualche giocattolo della mia infanzia…».
Tipo?
«I soldatini di piombo, i soldatini famosi di allora. Ho 88 anni e allora si giocava con queste cose, gli ascari».
Ce l’ha ancora la scatola di carne di coccodrillo?
«Sì, ma l’ho dovuta ricomprare perché quella che avevo se l’era mangiata un mio amico di Bologna».
Dove l’ha scovata?
«Sono cittadino onorario di New Orleans, dove sono andato varie volte. A Cape Canaveral ho comprato persino il cibo dell’astronauta, ma non mangio queste cose perché m’incuriosisce tenerle».
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Riduci
True
2025-12-25
Il calcio ipotecato: così fondi e banche hanno messo le mani sul futuro dei club
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Mentre i tifosi guardano il campo, il futuro del pallone si gioca su altri tavoli lontano dai riflettori. Fondi e banche finanziano stadi e mercato, ma incassano oggi su ricavi di domani. Il denaro arriva subito. Il peso delle scelte resta a chi deve poi sostenerle.
Il vero vincitore della trasformazione finanziaria del calcio europeo non scende in campo. Non indossa una maglia. E non porta un numero sul retro. Non sta in panchina. Non festeggia sotto la curva. Perché ormai nel mondo del pallone moderno il vincitore è sempre di più il capitale che presta, struttura e garantisce. Sono i fondi di credito privato e gli intermediari finanziari che monetizzano il tempo, l’urgenza e la volatilità di un’industria sempre più ossessionata dal risultato immediato.
Mentre i tifosi discutono di moduli e acquisti, su quotidiani sportivi sempre più sdraiati, i i club di tutta Europa si stanno riconfigurando come asset finanziari complessi. Il calcio resta spettacolo. Ma diventa anche una catena di flussi di cassa futuri già promessi. I bilanci assomigliano sempre meno a quelli di società sportive tradizionali e sempre più a quelli di aziende altamente indebitate, con ricavi stagionali, costi rigidi e un bisogno costante di liquidità.
Il debito non è più un incidente. È diventato una strategia. Serve a finanziare stadi e infrastrutture. Serve a sostenere il capitale circolante. Serve a stabilizzare ricavi che dipendono da una qualificazione europea, da un sorteggio favorevole, da un infortunio evitato. La banca commerciale arretra. Il fondo specializzato avanza. Accetta più rischio. Pretende più garanzie. Incassa rendimenti più alti.
Dentro questo passaggio c’è una figura che resta spesso invisibile. L’advisor. La banca d’affari. Il consulente che struttura l’operazione, valuta gli asset, imposta le garanzie, mette in contatto club e capitale. È qui che la partita diventa asimmetrica. Perché l’advisor viene pagato quando l’operazione si chiude. Non quando il modello regge nel tempo.
Il primo esempio è Barcellona. Tra il 2022 e il 2023 il club attiva le cosiddette “leve finanziarie” per oltre 800 milioni di euro. Vende circa il 25 per cento dei diritti televisivi della Liga per 25 anni, incassando poco più di 500 milioni. Cede quasi la metà di Barça Studios per altri 200 milioni. Ottiene cassa immediata per iscriversi ai campionati, registrare giocatori, sostenere il mercato. In cambio rinuncia a una parte rilevante dei ricavi futuri. Gli advisor incassano commissioni subito. Il costo reale emerge solo nel tempo.
Poi arriva lo stadio. Il progetto Espai Barça vale circa 1,5 miliardi di euro. Nel 2023 una parte del debito viene ristrutturata con un’emissione obbligazionaria da 424 milioni, a un tasso medio superiore al 5 per cento e con rimborsi rinviati negli anni. Il club compra tempo. Il mercato applaude. Il rischio resta concentrato sulla capacità di generare ricavi extra per decenni.
Il secondo esempio è il Real Madrid. La ristrutturazione del Bernabéu viene finanziata con una struttura di project finance che cresce nel tempo. Il primo prestito, nel 2019, vale 575 milioni di euro. Nel 2021 viene aumentato di altri 225 milioni. Nel 2023 la linea complessiva arriva a circa 1,17 miliardi. I rimborsi iniziano nella stagione 2023-24. A metà 2025 il debito residuo supera ancora 1,1 miliardi. L’operazione è solida solo se lo stadio produce flussi continui da eventi, hospitality e utilizzo non calcistico. Le banche d’affari svolgono più ruoli. Strutturano il debito. Lo collocano. Incassano commissioni. Il rischio sportivo resta in capo al club.
Il terzo esempio è Tottenham. Il nuovo stadio costa circa 1,2 miliardi di sterline. Nel 2021 il club rifinanzia una parte rilevante del debito con un collocamento istituzionale da 250 milioni. La durata media supera i vent’anni. Una tranche arriva a trent’anni, con scadenza nel 2051. L’operazione riduce la pressione di breve periodo e allinea il debito alla vita dell’infrastruttura. Gli advisor chiudono il deal. Il club resta obbligato a massimizzare ogni giorno l’utilizzo commerciale dello stadio.
Il quarto esempio è Inter ed è il più rivelatore. Nel 2021 il club ottiene un finanziamento da circa 275 milioni di euro, con un costo complessivo che supera il 12 per cento annuo. La garanzia è la holding di controllo. Nel 2024 il rimborso complessivo, tra capitale e interessi, arriva a circa 395 milioni. Il pagamento non viene effettuato. Il creditore escute la garanzia e prende il controllo del club. Advisor legali e finanziari avevano certificato la sostenibilità dell’operazione tre anni prima. Le parcelle erano già state pagate. La proprietà cambia. Il tifoso scopre che il debito non era solo una leva, ma una porta.
Il quinto esempio è il Manchester United. A metà 2025 il club dichiara oltre 165 milioni di sterline di debiti a breve termine, contro poco più di 35 milioni un anno prima. A questi si sommano più di 500 milioni di debito a lungo termine legato a vecchie emissioni obbligazionarie. Le linee di credito servono a coprire il capitale circolante. I costi finanziari crescono. Le grandi banche d’affari seguono il dossier come consulenti per una possibile vendita, come finanziatori e come analisti. Ogni ruolo genera valore per l’intermediario. Nessuno dipende dai risultati sportivi.
Il sesto esempio riguarda la fascia più fragile del sistema. Club di medio-bassa classifica inglese ricorrono a prestiti da 70–80 milioni di sterline, con tassi che arrivano all’8 o 9 per cento annuo. Le garanzie includono stadi e immobili. Il finanziamento serve a restare competitivi. Se arriva la retrocessione, i ricavi crollano. Il fondo resta protetto. Il club entra in difficoltà. L’advisor ha già chiuso l’operazione.
In questo quadro le banche d’affari non sono semplici spettatrici. Sono architetti del sistema. Creano strumenti su misura per un’industria che vive di reputazione e aspettative. Spesso consigliano lo stesso club su più fronti. Ristrutturazione del debito. Ricerca di investitori. Valutazione degli asset. Ogni passaggio genera parcelle che, anche su percentuali minime, valgono milioni. Il movimento è premiato più della stabilità.
Il regolatore osserva e rincorre. Le nuove regole UEFA stanno provando a limitare la spesa per salari e cartellini in rapporto ai ricavi. Ma non entrano nel merito della qualità del debito. Non distinguono tra investimenti e rincorsa sportiva. Non guardano al ruolo degli intermediari. Il sistema resta legale. Non sempre resta sano.
Le conseguenze sul mercato sono evidenti. I trasferimenti diventano strumenti finanziari. I contratti si allungano per diluire i costi. Le plusvalenze diventano ossigeno contabile. I giovani diventano asset liquidi. Le scelte sportive rispondono sempre più spesso a vincoli scritti nei contratti di finanziamento, non solo alle idee dell’allenatore.
Cambia anche l’identità dei club. Lo stadio non è più solo casa. È una garanzia. I diritti televisivi non sono più solo ricavi. Sono promesse anticipate. La maglia non è più solo simbolo. È una linea di business da valorizzare. Il tifoso percepisce il cambiamento quando il prezzo sale, quando l’orario cambia, quando il club parla più il linguaggio degli investitori che quello della città.
Alla fine la domanda è semplice solo in apparenza. Questo modello rende il calcio più solido o solo più dipendente dal capitale che lo finanzia? Quando il debito serve a costruire infrastrutture che producono ricavi stabili, il sistema regge. Quando serve a inseguire risultati immediati, il rischio viene solo spostato in avanti.
In questa partita silenziosa, mentre l’attenzione resta sul campo, una cosa è già chiara. I fondi che prestano e i consulenti che strutturano hanno già vinto. Incassano prima. Incassano comunque. Tutti gli altri, club compresi, giocano a credito. E nel calcio, come nella finanza, il credito non è mai neutrale. Decide chi comanda quando il risultato non basta più.
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Riduci





