- E' ormai chiaro che il vaccino non basta. Bisogna spingere sulle cure ed Ema è al lavoro per portare avanti la strategia integrata «vaccini+terapie»: Allo studio Paxlovid della Pfizer e l’Evusheld sviluppato da Astrazeneca. Ma anche Lagevrio (molnupiravir) di Merck e l’Olumiant di Eli Lilly.
- Alcune ricerche si stanno concentrando sull'inalazione di particelle che, una volta arrivate nei polmoni grazie a un normale inalatore portatile, possono bloccare l'azione della proteina «spike» del virus e quindi fermare la proliferazione dell'infezione.
Lo speciale contiene due articoli sulle cure del 2022.
Somministrare il vaccino al maggior numero di italiani non significa aver finito il lavoro o aver vinto la battaglia. L’alternativa non può continuare ad essere: evita di contagiarti con la puntura o altrimenti finisci a occupare le terapie intensive. L’alternativa è una maggiore e più efficiente sorveglianza epidemiologica rispetto al passato. Ma anche l’investimento (e poi la prescrizione) nei cosiddetti treatment su cui stanno scommettendo le case farmaceutiche. Evita di ammalarti gravemente, vaccinandoti. Ma se ti ammali, quali cure possono aiutarti? Gli attuali approcci generalmente si concentrano sugli antivirali, che impediscono al virus di moltiplicarsi, e sugli immunomodulatori, che aiutano il sistema immunitario a combattere il virus o a impedire che reagisca in modo eccessivo e pericoloso. Alcune potenziali terapie agiscono in modo diverso o attraverso meccanismi multipli. Poi ci sono gli anticorpi sintetici, che suppliscono a quelli che l’organismo non produce abbastanza. Ma tutte funzionano in un approccio integrato con il vaccino.
Nel cassetto dell’Ema c’è un piccolo plotone necessario per portare avanti la strategia integrata «vaccini+terapie». L’agenzia europea del farmaco. Che le divide in tre categorie. La prima è quella dei trattamenti per i quali è stata già attivata la cosiddetta rolling review (revisione progressiva) che è stata fatta anche con i vaccini. In questo momento sono due: la pillola Paxlovid della Pfizer e l’Evusheld sviluppato da Astrazeneca. Il trattamento con il Paxlovid è riservato a adulti con Covid-19 che non richiedono ossigeno supplementare e che sono a maggior rischio di progressione verso una malattia grave. Paxlovid dovrà essere somministrata entro 5 giorni dall’inizio dei sintomi. La terapia dura 5 giorni e non è raccomandata in gravidanza, mentre chi allatta dovrà interrompere le poppate durante il trattamento. Il 13 dicembre l’Agenzia europea ha avviato una revisione continua (rolling review) più completa sulla pillola di Pfizer: la procedura proseguirà fino a quando non saranno disponibili prove sufficienti per consentire all'azienda di presentare una domanda formale di autorizzazione all’immissione in commercio. Anche Astrazeneca ha studiato il suo AZD7442, poi ribattezzato Evusheld, un inibitore con somministrazione intravena che utilizza gli analoghi monoclonali di due anticorpi naturali presenti nel siero dei pazienti convalescenti. L’utilizzo potrà essere in un ambiente ospedaliero o ambulatoriale per pazienti che sono in fase sintomatica sia come prevenzione. Gli ultimi dati mostrano una protezione dell'83% in 6 mesi rispetto al 77% in 3 mesi. Il trattamento riduce dell’88% il rischio di Covid grave se somministrato nei primi 3 giorni.
C'è poi una seconda categoria, quella dei trattamenti su cui l'Ema ha già avviato la valutazione dell'autorizzazione al commercio. Al momento sono due: Lagevrio (molnupiravir) di Merck e l’Olumiant di Eli Lilly. La pillola antivirale di Merck è stata approvata a metà novembre dal regolatore europeo per un utilizzo in casi di urgenza, in attesa che venga messo definitivamente sul mercato. Da novembre è autorizzata nel Regno Unito e lo scorso 23 dicembre è arrivato il via libera anche dalla Food and Drug Administration statunitense. L'Ema sta poi valutando l’estensione dell'uso di Olumiant (baricitinib) sviluppato dalla Eli Lilly e finora autorizzato per gli adulti affetti da artrite reumatoide da moderata a grave o dermatite atopica (eczema). Il suo principio attivo, baricitinib, blocca l'azione di enzimi chiamati Janus chinasi che svolgono un ruolo importante nei processi immunitari che portano all'infiammazione. E questo potrebbe anche aiutare a ridurre l'infiammazione e il danno tissutale associati a una grave infezione dal virus.
L’ultima categoria è quella dei trattamenti già autorizzati. In questa l'Ema ne cita ben cinque. Tra questi c’è l’anticorpo monoclonale sotrovimab (Xevudy). Sviluppato dalla britannica GlaxoSmithKline insieme all’americana Vir Biotechnology, è indicato per trattare il Covid-19 negli adulti e negli over 12 con un peso di almeno 40 chili, che non richiedono ossigeno supplementare e sono a maggior rischio che la malattia diventi grave. La raccomandazione di autorizzare sotrovimab emessa dal Comitato per i medicinali a uso umano (Chmp) dell’Ema si basa sulla valutazione di uno studio su 1.057 pazienti Covid, che mostra come questo monoclonale riduca «significativamente il ricovero e i decessi in pazienti con almeno una condizione di base che li mette a rischio di malattia grave». Si prevede, inoltre, che Xevudy sia attivo «anche contro altre varianti (incluso Omicron)».
L’agenzia europea ha poi autorizzato l’estensione dell’antinfiammatorio anakinra (Kineret), già consentito nell’Ue per varie condizioni infiammatorie, in pazienti adulti con polmonite che richiedono ossigeno supplementare e che sono a rischio di sviluppare una grave insufficienza respiratoria. Si ritiene che Anakinra, commercializzata dalla svedese Sobi, riduca nei malati di Covid il danno delle vie aeree inferiori, prevenendo lo sviluppo di grave insufficienza respiratoria. Il Chmp ha valutato i dati di uno studio che ha coinvolto 606 adulti ospedalizzati con polmonite Covid moderata o grave.
Gli altri tre trattamenti autorizzati sono il Regdanvimab di Celltrion (anticorpo monoclonale che è stato progettato per legarsi alla proteina spike di SARS-CoV-2), l’estensione dell’antinfiammatorio RoActemra di Roche al trattamento di pazienti adulti ospedalizzati con COVID-19 grave che stanno già ricevendo un trattamento con corticosteroidi e richiedono ossigeno extra o ventilazione meccanica. E, infine, il Ronapreve di Regeneron: si tratta di un medicinale composto da casirivimab e imdevimab, due anticorpi monoclonali che sono stati progettati per legarsi alla proteina spike di SARS-CoV-2 in due siti diversi. Quando i principi attivi sono attaccati alla proteina spike, il virus non è in grado di entrare nelle cellule del corpo.
Allo studio una nuova terapia somministrata con aerosol
«Con cinque vaccini e sei trattamenti siamo molto più preparati dell'anno scorso e siamo pronti ad adattare i vaccini e i trattamenti se necessario», ha detto lo scorso 21 dicembre la direttrice esecutiva dell'Ema, Emer Cooke nel corso di una conferenza stampa. Del resto, già il primo settembre Albert Bourla, amministratore delegato di Pfizer, aveva cinguettato su Twitter che «il successo contro il Covid probabilmente richiederà sia vaccini che trattamenti» e annunciato l’avvio di uno studio clinico di fase 2/3 su un antivirale orale, specificamente progettato per combattere il virus in adulti non ospedalizzati e a basso rischio.
Insomma, negli ultimi mesi è arrivato il contrordine compagni, le terapie ci sono e possono essere integrate con il vaccino. Il cambio improvviso della narrazione è stato imposto dalle pillole della stessa Pfizer e quella della Merck, multinazionale americana basata sul Molnupiravir. Eppure in Italia il ministero della Sanità , Roberto Speranza, è andato avanti per mesi fermo sulla propria linea. I pazienti non si curano. Vigile attesa fino alla terapia intensiva. Il messaggio è sempre stato quello di attendere i vaccini. E nella logica del pandemically correct approfondire il tema delle terapie è diventata per mesi quasi un’eresia Adesso che oltre l’85% degli italiani over 12 ha fatto le due dosi, ci si ammala in forma meno grave, ma resta sempre l’incognita degli effetti collaterali o della combinazione con altre patologie. La sfida – lo abbiamo scritto più volte - è accoppiare al vaccino le terapie corrette. Ma a prevalere fin qui è stata la polarizzazione del dibattito tra i fideisti del vaccino (e del green pass) e chi strepita contro le big Pharma e cerca strani intrugli senza passare dai necessari iter clinici. Il punto è sempre lo stesso: evita di ammalarti gravemente vaccinandoti ma se ti ammali quali terapie (ospedaliere, ambulatoriali e non solo domiciliari) possono aiutarti? La risposta può arrivare dalle terapie a cui stanno lavorando le case farmaceutiche e che funzionano in un approccio integrato con il vaccino. Buona parte dei farmaci in valutazione sono stati sviluppati originariamente per trattare altre malattie.
Scorrendo l'elenco dei farmaci su cui si stanno conducendo gli studi più avanzati, ovvero in fase due e tre, spuntano nuovi treatments. Come l'inibitore SNG001 sviluppato da Synairgen e basato sul meccanismo di azione dell'interferone Beta. La differenza è che questa terapia viene somministrata con aerosol e comunque solo a pazienti con sintomi leggeri o moderati. O come l'AT-527 antivirale sviluppato dall'americana Atea Pharmaceuticals insieme alla svizzera Roche. Ha un'azione diretta sulla polimerasi nsp12, un gene presente in tutte le varianti del virus, può essere somministrato per via orale anche fuori dall'ospedale a pazienti che siano in una fase della malattia leggera o moderata. Si tratta di terapie sviluppate ex novo, ovvero non basate sull'estensione di farmaci esistenti o su cocktail di altri trattamenti. Ci sono poi altre terapie in fase di studio meno avanzato, che quindi potrebbero arrivare tra tre o quattro anni. Alcune ricerche si stanno per esempio concentrando sull'aerosol di particelle che, una volta arrivate nei polmoni grazie a un normale inalatore portatile, possono bloccare l'azione della proteina «spike» del virus e quindi fermare la proliferazione dell'infezione. Oggi quando si iniettano per via endovenosa anticorpi (come quelli IgG) contro il Covid, solo lo 0,2% di ciò che è iniettato arriva nei polmoni: tutto il resto viene prima metabolizzato dall'organismo. Quindi sono necessarie notevoli quantità di farmaco per poter avere un effetto sufficiente.
Inoltre, la terapia, anche preventiva in caso di soggetti a rischio, deve comunque passare da strutture sanitarie, anche ambulatoriali, e il trattamento, in infusione, dura diverso tempo. Inalare i nanocorpi è un sistema più efficiente, che richiede quantità di farmaco molto minori nonché risultare molto utile a chi non si può vaccinare perché ha alcune malattie autoimmuni. In teoria potrebbe essere somministrato a casa, anche se probabilmente non come auto-medicazione. Ci sta lavorando un consorzio americano con a capo l'Università di Pittsburgh, che ha appena pubblicato i risultati dei test su animale (criceti) sulla rivista Science. Fin dall'inizio del diffondersi della pandemia, i trial randomizzati controllati hanno dovuto includere il maggior numero di persone possibile senza dover procedere a prelievi o specificità che avrebbero ritardato enormemente le ricerche e quindi l'ottenimento dei risultati. In gioco persistono ancora molti elementi, di carattere biologico e di carattere organizzativo. La vera sfida sarà anche quella di agevolare l'introduzione di una medicina personalizzata anche nel caso dei pazienti Covid-19. Trasformando quello che fin qui è stato un approccio pragmatico di emergenza in approccio personalizzato.