2021-01-17
Anche i giudici appoggiano la ribellione contro i dpcm
Il Consiglio di Stato accoglie i ricorsi di chi si oppone alle misure di Giuseppe Conte: «Seri problemi di costituzionalità, il tribunale decida con urgenza». In discussione la proroga dell'emergenza: il 10 febbraio può cambiare tutto. Quello che prima era soltanto un fastidioso sospetto sta iniziando a diventare una realtà concreta: il governo ci sta rinchiudendo senza avere il diritto di farlo. Il pensiero, ovviamente, è balenato nella mente di tanti; vari e illustri costituzionalisti hanno posto seri dubbi sulla legittimità dei dpcm. Ma adesso è entrato in partita anche il Consiglio di Stato, con una ordinanza che, nei fatti, supporta le argomentazioni di chi si ribella alle restrizioni imposte dai decreti giallorossi. L'avvocato bolognese Silvia Marzot cura gli interessi di tre cittadini particolarmente colpiti dalle misure restrittive: il proprietario di una palestra, un ristoratore e un genitore di uno studente delle superiori. Persone che rappresentano le categorie più vessate negli ultimi mesi. La Marzot ha presentato un ricorso al Tar del Lazio contro i dpcm, chiedendo una rapida decisione sul merito o l'invio degli atti alla Corte costituzionale, affinché si esprimesse sulla legittimità dei decreti contiani. Semplificando un po', potremmo dire che l'avvocato e i suoi assistiti hanno chiesto la sospensione dei decreti e pure dello stato di emergenza. Cioè hanno contestato l'intero impianto istituzionale su cui si reggono le restrizioni e sui cui si basa il potere dei vari commissari. La prima discussione sulla faccenda si è tenuta il 16 dicembre, ma il Tar ha rigettato la richiesta. Così la Marzot, il 28 dicembre, ha deciso di fare ricorso al Consiglio di Stato. Quest'ultimo si è espresso il 15 gennaio e ha emesso un'ordinanza piuttosto rilevante. Scrivono i giudici: «Il ricorso in appello pone significative questioni che, in ragione della loro complessità e del fatto di essere relative ad un delicato bilanciamento fra interessi sensibili, meritano un sollecito approfondimento nel merito, anche in relazione ai dedotti profili di illegittimità costituzionale». Eccoci al punto: il Consiglio di Stato ha accolto l'istanza dell'avvocato Marzot, e ha rinviato la questione al Tar, che viene chiamato a decidere in tempi brevissimi, già il 10 febbraio o comunque alla prima udienza utile. Che cosa significa tutto ciò al netto delle sottigliezze giuridiche? Che il Consiglio di Stato ha accolto un ricorso in cui si chiede la sospensione dei dpcm e dello stato di emergenza. Non è roba da poco: per la prima volta si mettono seriamente in discussione le misure governative, ed è un organo giurisdizionale a farlo. Tale organo, tramite la freschissima ordinanza, fa capire che riguardo ai dpcm si pongono questioni di costituzionalità molto importanti, che vanno affrontate quanto prima, perché in gioco ci sono i destini di persone che, in fondo, non hanno tutti i torti a protestare. Certo, resta un problema tecnico: i tempi. Se i dpcm di cui trattava il ricorso della Marzot fossero ancora in vigore, probabilmente numerosi italiani avrebbero potuto usare l'ordinanza del Consiglio di Stato per riaprire le loro attività (palestre o ristoranti). Purtroppo, però, mentre il Consiglio di Stato esaminava il ricorso, il governo ha prodotto una nuova proroga dello stato di emergenza e un nuovo dpcm. Ciò significa che non ci possono essere conseguenze immediate sul piano pratico: bisognerà aspettare la decisione del Tar il prossimo 10 febbraio, perché in quell'occasione verranno presi in considerazione anche i provvedimenti varati in questi giorni. «Sarà il Tar a decidere se dichiarare illegittimi i dpcm, compreso quello attuale, o addirittura rinviare tutto alla Corte costituzionale», dice Silvia Marzot alla Verità. «Ricordo», aggiunge l'avvocato, «che la stessa Marta Cartabia disse che non esistono diritti speciali in momenti speciali». La rilevanza politica dell'ordinanza del Consiglio di Stato non è sfuggita a Galeazzo Bignami, parlamentare di Fratelli d'Italia. «Quella del Consiglio di Stato è una pronuncia importantissima», dice. «Per la prima volta si afferma chiaramente che l'azione del governo richiede un “bilanciamento fra interessi sensibili" che coinvolge “profili di illegittimità costituzionale". È un macigno su quanto fatto sinora da Conte e compagni, che hanno gestito la situazione a suon di stati di emergenza e dpcm». Secondo Bignami, tuttavia, c'è di più. «Il Consiglio di Stato, accogliendo l'appello, sostanzialmente afferma che il ricorso è provvisto di quello che tecnicamente si chiama “fumus", ovvero ritiene che, pur se da una valutazione sommaria che è propria della fase cautelare, il ragionamento dei ricorrenti risulti fondato. Questo ricorso, infatti, mette nel mirino la dichiarazione dello stato di emergenza, che viene ritenuta illegittima per vari motivi. Conte avrebbe dovuto dichiarare lo stato di emergenza dopo essere passato dal Parlamento, non con una delibera, inoltre non poteva procedere con i dpcm: servivano atti aventi forza di legge. Tutte queste cose il governo le ha ignorate e calpestate». Adesso, però, il Consiglio di Stato afferma che le questioni sul piatto «meritano un sollecito approfondimento nel merito». E se queste frasi fossero uscite soltanto pochi giorni fa, oggi non pochi italiani potrebbero farsene scudo per rimettersi in moto. «Chiunque, e non solo chi frequenta le aule di giustizia», aggiunge Galeazzo Bignami, «sa bene che è impossibile avere una causa decisa in due mesi. Ma in questo caso i giudici dicono che bisogna decidere subito, proprio per via dello “scontro" di interessi che questa situazione sta determinando anche a livello costituzionale». Va ricordato che contro i cittadini rappresentati dall'avvocato Marzot si sono costituiti la presidenza del Consiglio dei ministri e il ministero della Salute, quindi stiamo parlando di una contrapposizione ad alto livello. In sostanza, il governo ha chiesto che il ricorso presentato da ristoratori, gestori di palestre e genitori di studenti fosse rigettato. Ma il Consiglio di Stato ha deciso diversamente: il ricorso è stato accolto. «È un vero e proprio schiaffo che rimette al centro la tutela dei diritti dei cittadini», dice Bignami. «Perché ora Conte dovrà fare i conti con i profili di incostituzionalità che da tempo vengono sollevati da più parti». I nodi, presto o tardi, dovranno arrivare al pettine.
Antonio Quirici e Diego Dolcini (iStock)
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Arrivò prima dei fratelli Lumière il pioniere del cinema Filoteo Alberini, quando nel 1894 cercò di brevettare il kinetografo ispirato da Edison ed inventò una macchina per le riprese su pellicola. Ma la burocrazia italiana ci mise un anno per rilasciare il brevetto, mentre i fratelli francesi presentavano l’anno successivo il loro cortometraggio «L’uscita dalle officine Lumière». Al di là del mancato primato, il regista e produttore italiano nato ad Orte nel 1865 poté fregiarsi di un altro non meno illustre successo: la prima proiezione della storia in una pubblica piazza di un’opera cinematografica, avvenuta a Roma in occasione dell’anniversario della presa di Roma. Era il 20 settembre 1905, trentacinque anni dopo i fatti che cambiarono la storia italiana, quando nell’area antistante Porta Pia fu allestito un grande schermo per la proiezione di quello che si può considerare il primo docufilm in assoluto. L’evento, pubblicizzato con la diffusione di un gran numero di volantini, fu atteso secondo diverse fonti da circa 100.000 spettatori.
Filoteo Alberini aveva fondato poco prima la casa di produzione «Alberini & Santoni», in uno stabile di via Appia Nuova attrezzato con teatri di posa e sale per il montaggio e lo sviluppo delle pellicole. La «Presa di Roma» era un film della durata di una decina di minuti per una lunghezza totale di 250 metri di pellicola, della quale ne sono stati conservati 75, mentre i rimanenti sono andati perduti. Ciò che oggi è visibile, grazie al restauro degli specialisti del Centro Sperimentale di Cinematografia, sono circa 4 minuti di una storia divisa in «quadri», che sintetizzano la cronaca di quel giorno fatale per la storia dell’Italia postunitaria. La sequenza parte con l’arrivo a Ponte Milvio del generale Carchidio di Malavolta, intenzionato a chiedere al generale Kanzler la resa senza spargimento di sangue. Il secondo quadro è girato in un interno, probabilmente nei teatri di posa della casa di Alberici e mostra in un piano sequenza l’incontro tra il messo italiano e il comandante delle forze pontificie generale Hermann Kanzler, che rifiuta la resa agli italiani. I quadri successivi sono andati perduti e il girato riprende con i Bersaglieri che passano attraverso la breccia nelle mura di Porta Pia, per passare quindi all’inquadratura di una bandiera bianca che sventola sopra le mura vaticane. L’ultimo quadro non è animato ed è colorato artificialmente (anche se negli anni alcuni studiosi hanno affermato che in origine lo fosse). Nominata «Apoteosi», l’ultima sequenza è un concentrato di allegorie, al centro della quale sta l’Italia turrita affiancata dalle figure della mitopoietica risorgimentale: Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi e Mazzini. Sopra la figura dell’Italia brilla una stella che irradia la scena. Questo dettaglio è stato interpretato come un simbolo della Massoneria, della quale Alberici faceva parte, ed ha consolidato l’idea della forte impronta anticlericale del film. Le scene sono state girate sia in esterna che in studio e le scenografie realizzate da Augusto Cicognani, che si basò sulle foto dell’epoca scattate da Ludovico Tumminello nel giorno della presa di Roma. Gli attori principali del film sono Ubaldo Maria del Colle e Carlo Rosaspina. La pellicola era conosciuta all’epoca anche con il titolo di «La Breccia di Porta Pia» e «Bandiera Bianca».
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